Rivistaundici.com, 18 novembre 2015
Perché a noi italiani piace così tanto parlare male di Rafa Benítez
Di Rafa Benítez sulla stampa italiana si è tornato a leggere domenica 8 novembre. Il Real Madrid è caduto in casa del Siviglia (prima sconfitta stagionale) e i media nostrani hanno accuratamente riportato la notizia, con dovizia di particolari su polemiche, delusioni e tensioni in casa madridista.
Non è mica la prima volta, da quando il tecnico è volato nella capitale spagnola, che il suo nome fa capolino sui nostri giornali. «De vez en cuando», come direbbe lo stesso Rafa, la sua avventura galactica trova eco nel nostro sistema informativo.
Non è anomalo essere sotto i riflettori quando si è alla guida di uno dei più prestigiosi club al mondo. Ma colpisce con quale angolazione siano puntati i fari italiani: non a illuminare il palco, ma ad accentuare le ombre sul volto dell’attore in scena. Ecco il taglio delle notizie su Benítez. Il mister ha appena chiuso l’esperienza napoletana e Sandro Sabatini, il 2 giugno, scrive: «A Madrid senza un vero perché». Un paio di settimane dopo la stampa riporta, facile immaginare con quale tenore, che Florentino Pérez lo avrebbe messo a dieta per ragioni di immagine. Si avvicina il ritiro e inizia il tormentone Cristiano Ronaldo. I rumor lo vogliono sempre scontento. Prima si sarebbe impermalosito perché Benítez ha più attenzioni per Bale che per lui, poi avrebbe perplessità sul ruolo che il tecnico gli vorrebbe affidare. Quando il 23 luglio il campione portoghese sbotta contro il mister per un gol annullato in allenamento, le immagini delle proteste si trasformano nella prova provata della crisi tra i due. Seguono i troppi 0-0 nelle amichevoli precampionato e la conseguente delusione per il pareggio a reti inviolate contro il Gijón all’esordio nella Liga. Poi si è letto di Benzema, che prima di finire nei guai con la giustizia aveva collezionato un buon numero di marcature personali, sofferente per le troppe sostituzioni, mentre un retroscena de El Confidencial sostiene che le merengues con l’allenatore si divertirebbero come «dal dentista».
Certo, l’ambiente madridista offre un’ottima sponda alla stampa italiana. Dalle parti del Bernabeu, dove sono stati digeriti e poi espulsi senza particolare rispetto mostri sacri del nostro calcio come Fabio Capello e José Mourinho, nulla è scontato e tutto è esigibile: non sarà un girone di Champions superato con due turni d’anticipo a far innamorare di Rafa la piazza. Gli spunti arrivano con ritmo regolare. Ma, mai paghi, i media italiani sfruttano tutte le occasioni domestiche per alimentare il tormentone Benítez. Lo fanno ogni volta che da Napoli i suoi ex giocatori (il capitano Hamsik su tutti) e il presidente De Laurentiis lanciano frecciatine. E lo fanno quando una dichiarazione del tecnico spagnolo prima della trasferta del Real al San Mamés, dove Rafa fino allo scorso 23 settembre non aveva vinto con nessuna delle sue squadre e dove nel 2014 il club azzurro ha perso l’accesso alla fase a gironi della Champions, è travisata fino a farla diventare un redde rationem tra il mister spagnolo e il suo vecchio club.
Insomma, senza entrare nel merito delle critiche, senza voler definire quali siano fondate, e in che misura, e quali no, la rassegna stampa chiarisce il metodo della critica nostrana. In Italia, a tutti i livelli, dai social ai salotti tv, di Benítez è giusto parlare purché il dibattito su di lui sia sempre declinabile in chiave negativa. Allo stesso modo l’opinione comune, sempre a tutti i livelli, è cristallizzata sulla medesima valutazione. Non c’è palmarès che confuti l’asserzione, non c’è voce discordante che scalfisca la vulgata: Rafa è un tecnico inadeguato e sopravvalutato. Non si ricorda lo stesso trattamento per altri mister stranieri transitati in Serie A. Non furono oggetto di tanto rancore personaggi come Roy Hodgson, Fatih Terim o Mircea Lucescu. Vale allora la pena farsi una domanda: perché gli italiani odiano Benitez?
È un problema tutto nostro. Sorvoliamo sul semestre londinese al Chelsea, dove Benítez, eroe di Anfield Road, è transitato con le stimmate del nemico e da tale è stato trattato. Nelle grandi piazze il tecnico non ha lasciato eredità problematiche. Sicuramente non a Valencia, dove tra il 2001 e il 2004 ha vinto due volte la Liga e una la coppa Uefa. Si dirà: «Dove si è scritta la storia del club è più facile imprimere un ricordo positivo». Ma è una valutazione che non tiene conto della complessità dell’esperienza di Benítez al Mestalla. Il tecnico ha iniziato la sua avventura valenciana quando in curriculum vantava una buona annata da emergente in Segunda División e quando era noto che la dirigenza avesse avvicinato prima altri allenatori. Durante il primo campionato è stato a un passo dall’esonero, ha chiuso la stagione successiva al primo titolo nazionale con un quinto posto molto travagliato, per poi rifiutare la proposta di rinnovo della società e interrompere unilateralmente i rapporti dopo il Doblete del 2004. Abbastanza perché qualcuno se ne stufasse. Al contrario, a dieci anni di distanza «a molti tifosi farebbe molto piacere se tornasse», sostiene Pablo Tarancón, giornalista di Superdeporte, quotidiano online della Comunitat Valenciana. Non pesano gli attriti, che pure ci furono, né i rapporti conflittuali con alcuni giocatori e la dirigenza dell’epoca. «Benitez è stato ben voluto dal tifo» continua Tarancón. «Il suo discorso competitivo ed esigente è sempre stata apprezzato da una piazza, come lui, dalle grandi pretese. Era l’allenatore perfetto per la filosofia storica del Valencia». E il suo carattere, spesso definito caratteraccio? «Ha sempre mantenuto una certa riservatezza» continua il giornalista valenciano. «È uno che tende a non legare con la stampa, ma qui non gli ha procurato nessun problema». Il suo addio al culmine del ciclo vincente? «Ebbe uno scontro personale con la dirigenza dell’epoca» conclude Tarancòn «e il tifo oggi dà la colpa della sua partenza al management».
Tutto questo non significa che Benitez sia un santo laico. Non indugio nella venerazione che a Liverpool nutrono ancora per lui: la scorsa primavera, quando la crisi di Brendan Rodgers era matura, a lui volava il pensiero della Kop. Al contrario, cerco nei sei anni nel Merseyside la descrizione delle sue asperità caratteriali. «Rafa è una delle figure più divisive della storia del club» commenta Neil Atkinson del magazine online The Anfield Wrap. «È capace di urtare parte del pubblico. Non è un manager facile o lineare, si assume grossi rischi nelle scelte pur sapendo che faranno discutere e litigare. Lui però non si cura dell’opinione altrui, è se stesso e fa ciò che reputa la cosa migliore». Ne consegue che anche a Liverpool, malgrado tutto, c’è chi non ha aderito all’infatuazione cittadina per Benitez. «È stato molto criticato per il suo gioco, definito a torto difensivista. Gli hanno contestato» dice ancora Atkinson «di prestare maggior attenzione ai trofei Uefa che al campionato, anche se, fino al secondo posto del 2013/14, è stato quello che è andato più vicino al vincere un titolo nazionale dopo l’ultimo del ’90». Quando sa che in Italia si parla di Benítez come di un bolso, Atkinson (che si definisce un sostenitore del tecnico), non ci sta: «Non ha senso. Nello scorso decennio con Mourinho ha cambiato il calcio e dato a Arsenal e Manchester United un modello di successo. Benitez suscita diffidenza. Prende decisioni che altri non potrebbero permettersi. Si becca reprimende quando vince, figurarsi quando perde. Ma lui non teme cosa scriveranno i giornalisti. Va avanti per la sua strada. Non si preoccupa di quello che diciamo di lui io e te, conta solo il calcio. Non è perfetto, ma è Benitez».
Allora che cosa è successo in Italia perché un tecnico che Atkinson definisce «un po’ pazzo, ma comunque un grand’uomo», passasse agli annali come – né più né meno – un cretino qualsiasi?
Vado a ritroso, e inizio da Napoli. Quando a metà dello scorso settembre Maradona in un improvvido intervento televisivo sfiducia Maurizio Sarri (reo di aver fatto 2 punti nelle prime 3 giornate), il presidente De Laurentiis abbozza: «Diego è il più grande giocatore di tutti i tempi, ma vive a Dubai, non conosce più la realtà di Napoli». E ha ragione. Nella sua intemerata contro il tecnico azzurro (per la quale si è poi scusato), il vecchio Pibe argomenta: «Benitez era una garanzia per la squadra, avrei tenuto lui. Ora allena il Madrid, quindi qualcuno ha sbagliato (lasciandolo andare via, ndr)». Ecco, Diego dimostra di ignorare che sulle sponde del Golfo nessuno, ma proprio nessuno, si sogna di rimpiangere don Rafe’, visto al contrario come un passato recente da cancellare al più presto.
«Eppure la sua avventura a Castelvolturno è iniziata bene, gli è stata data grandissima fiducia», ricorda chi ha assistito alla parabola napoletana del tecnico spagnolo sin dalla prima conferenza stampa del 2013. La piazza viene dall’ultimo Mazzarri, chiuso nel suo guscio, silenzioso e anaffettivo. Benítez riporta allegria e freschezza. Con iniziative come la visita alla Reggia di Caserta, si veste da testimonial di Napoli ed entra in sintonia con la città. La prima stagione, conclusa al terzo posto e con una Coppa Italia in bacheca, è – quasi – una luna di miele con l’ambiente azzurro. Nel secondo anno, invece, le acque si guastano. Dalle tensioni estive sul mercato, ai Preliminari falliti passando da un campionato altalenante e infine deludente, i rapporti tra Benítez, la stampa e il pubblico napoletano imboccano la china discendente che dalla stima porta all’avversione. Nei tumulti vengono fuori gli spigoli del carattere dello spagnolo. «Quando le cose andavano bene faceva il simpatico. Poi anche lui ha cominciato a chiudersi come Mazzarri» riconosce un frequentatore della mixed zone del San Paolo, «e a porsi su un livello più alto degli altri, come se i mancati risultati della squadra dipendessero dai giocatori e non pure da lui». I giornalisti sanno come fargliela pagare e, più il club azzurro incespica tra campionato e coppe, più aggrediscono l’allenatore. Se non bastasse, da sponsor della città Benítez si trasforma in castigatore dello sciovinismo partenopeo («I napoletani non devono pensare di essere speciali»). In un colpo solo Rafa si mette contro opinionismo e pubblico. Fallito l’aggancio al terzo posto all’ultima di campionato, è rigettato da Napoli come un organismo alieno e patogeno. Il commento più comune, oggi, sul suo biennio è: «Anni sprecati».
Secondo chi ha seguito uno a uno i passi del tecnico, si diceva, lo spagnolo a Napoli non si è scontrato con un’ostilità pregiudizievole. Non lo attendevano fucili puntati. Piuttosto, Rafa ha visto sulle sue difficoltà soffiare il vento freddo del nord, è stato incalzato senza tregua da quelle emittenti e da quelle redazioni con base a Milano che lo hanno messo nel mirino nel 2010, che non gli hanno mai perdonato la lesa maestà a Mourinho e che aspettavano solo che cadesse. «Sono loro che per prime hanno picchiato duro sul tecnico, trascinando poi i colleghi di Napoli».
Il conflitto di una nazione con un uomo, allora, ha la propria origine nei sei mesi che l’allenatore spagnolo ha trascorso ad Appiano Gentile. Un semestre iniziato con i tamburi di guerra che battono sul dualismo l’allenatore appena insediato e l’ingombrante predecessore (Benítez è costretto a chiarire «Non sono l’anti-Mourinho» alla prima conferenza), che si avvita in un rapporto conflittuale con la squadra simbolizzato dall’episodio, tra il reale e il leggendario, del ritratto dello Special One rimosso dalla Pinetina, e che finisce con il dissidio tra tecnico e presidenza sul mercato di riparazione. Sedici giornate di campionato, una Supercoppa Uefa persa, quella italiana vinta, il Mondiale per Club conquistato, dimissioni consegnate e un Paese inimicato. Fabrizio Biasin, responsabile delle pagine sportive di Libero, riconosce che subentrare a Mourinho «era un compito ingrato, che avrebbe messo in seria difficoltà chiunque. Ma va pure tenuto conto che, al di là della veridicità di certi aneddoti, Benítez ha reagito facendo leva soltanto sulla superbia. Come se bastassero i titoli acquisiti per uscire vincente da quella situazione».
Su Rafa, insomma, nel giro di un lustro si è chiusa una tenaglia trasversale a Napoli e Milano e capace di permeare l’intera nazione. La rivalità tra Benítez e Mourinho è stata un tema portante della Premier League prima che i tecnici la importassero in Serie A. Dovendo scegliere tra i due, l’Italia, ancora strabiliata dal Triplete, ha scelto la linea dell’assoluta fedeltà allo Special One. A costo di declassare uno degli allenatori più titolati in circolazione al livello di un personaggio di cui è legittimo prendersi gioco. E al punto da non avere più gli strumenti per capire perché il Real Madrid, tra tanti, abbia scelto proprio lui per la panchina.