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 2015  novembre 18 Mercoledì calendario

«La mia cifra giornalistica? Credo di essere stato chiaro, credibile e, nei limiti del possibile, onesto». L’ultima intervista a Mario Cervi

(…) Mario Cervi mi viene incontro sul pianerottolo nella redazione del Giornale. (...). Cervi ha compiuto 94 anni in marzo. È giornalista da settant’anni e continua a scrivere. Ha tutti i giorni la rubrica di corrispondenza con i lettori e interviene con editoriali quando è il caso di scomodare una firma illustre come la sua. (...).
Il solo giornalista che ti tenga testa per fama ed età è Eugenio Scalfari. Vedi tra voi altre affinità?
«Direi di no. A Scalfari, che conosco poco, non ho risparmiato qualche punzecchiatura. Recensendo sul Giornale il suo compiaciuto La sera andavamo in Via Veneto segnalai i continui sbagli nelle citazioni francesi. Mi scrisse piccato, con copia a Indro, che mi ero fermato alle quisquilie anziché cogliere la sua grandezza».
Com’è che Indro ti associò alla Storia d’Italia?
«Eravamo al ristorante, da Elio, poco dopo il debutto in edicola del Giornale. Gli chiesi: “A quando il seguito di Italia in camicia nera?”. “Ora che sono direttore non ho più tempo”, disse Indro sconsolato. “Continuiamo insieme”, lasciai cadere. Non rispose ma l’indomani mi allungò due paginette dicendo: “Avevo cominciato così un capitolo mai aggiunto al precedente volume”. Lo completai e divenne il primo capitolo del libro successivo, Italia Littoria. Fu così che cominciammo».
Vero che scrivevi tu e Montanelli aggiungeva la firma?
«È così. Le introduzioni o postfazioni erano però di Indro e davano il tocco di grazia».
Il tandem con lui ti ha dato fama, ma sei passato per spalla.
«Lo sono stato. Mai preteso di scrivere bene come Indro. La mia scrittura era però compatibile con la sua e nessuno si è accorto che ci fosse un’altra mano».
I vostri spiriti erano affini?
«Sì, e tendevamo al pessimismo. Eravamo entrambi dei vecchi conservatori. Lui più anarchico, io più uomo d’ordine. Al referendum del ’46 votammo l’opposto: lui monarchia, io repubblica perché avevo forte il ricordo della vergogna di cui il re si era macchiato con l’8 settembre».
Qual è la tua specifica bravura giornalistica?
«Credo di essere stato chiaro, credibile e, nei limiti del possibile, onesto. Aggiungo: mai si troverà traccia di un intervento politico in mio favore perché avessi un incarico».
L’eccellenza di Indro?
«La perfezione della lingua e la chiarezza dei concetti. Poteva essere smentito facilmente perché si capiva cosa diceva».
Un episodio che, secondo te, possa caratterarlo?
«Una battuta che ne sintetizza raffinatezza e indulgenza. Ci giunse, per recensirlo, il saggio di uno stimato collega. “Che ne facciamo?”, chiesi. Montanelli, che i libri li capiva a fiuto, lesse qua e là. Aggrottò la fronte e disse: “Il libro non vale niente. Se ne può anche parlare bene”».
Quale giornalista gli affiancheresti per grandezza?
«Nessuno come scrittore: è un fuoriclasse irraggiungibile. Ma il giornalismo è fatto di tante cose. In altro, molti sono più bravi di lui. Per esempio, Enzo Biagi, nell’organizzare l’azienda Biagi – ossia nello sfruttare la propria opera – è ineguagliato».
Montanelli sbatté la porta del Giornale quando il Cav si candidò. Ebbe ragione?
«Fece questo ragionamento: con la tua entrata in politica, se scrivo bene di te sarò un servo; se scrivo male, un ingrato. Impeccabile. Sbagliò invece ad andare via d’ impeto, fondando la Voce e abbracciando un antiberlusconismo feroce. I suoi lettori non capirono».
Fu ingiusto verso il Cav?
«Berlusconi lo adorava e ha continuato ad amarlo. Meglio se Indro fosse andato subito al Corriere come poi ha fatto».
Com’è cambiato il Giornale senza Montanelli?
«Indro era uomo di fioretto. Oggi, si è passati alle mazze ferrate. Il vecchio Giornale era fatto di persone anziane, ma era giocoso. Uno di noi, Angelo Conigliaro, disse una volta a Montanelli: “Grazie Indro. Ci hai regalato una seconda vecchiaia”».
Avere per proprietario un capo partito è giornalisticamente micidiale.
«Imbarazzante e fonte di limitazioni fortissime. Indro ammirava il talento mentre oggi si nega ogni talento all’avversario».
Che intendi?
«Io, per esempio, apprezzo Francesco Merlo. Che sia di Repubblica non mi impedisce di leggerlo con interesse. Ai colleghi di ogni sponda non rimprovero tanto la faziosità quanto di scrivere cose che non pensano solo perché fanno parte di uno schieramento».
Chi scrive sui giornali di destra è un paria.
«Mentre il più scatenato e imbecille di sinistra può diventare direttore di giornale. Triste realtà».
Montanelli al Giornale avrebbe evitato la deriva o sarebbe stato travolto pure lui?
«Sarebbe stato travolto. Lo era già stato. Negli anni di piombo, Camilla Cederna diceva di lui: “Ha la nuca fascista”. L’aveva piatta e lei faceva la lombrosiana a buon mercato».
A parte Indro, l’uomo più significativo del Giornale?
«Vittorio Feltri che ne ha raccolto la difficile eredità. Feltri ha un pregio: non si libera mai della sua indipendenza».
Dopo lunga frequentazione dell’aldiquà, sei curioso dell’aldilà?
«Non sono credente. Sarei felice di pensare che me ne vado a vedere i miei cari, mia moglie, mia madre. Ma non riesco a crederci».