Corriere della Sera, 18 novembre 2015
Erasmo che in un angolo della tipografia scrive gli “Adagia” e Manuzio che li rilegge. Ritratto di uno stampatore del Cinquecento
La bottega di Aldo Manuzio a Venezia, sestiere di San Polo, verso campo Sant’Agostin, vicino al panettiere, si presentava – secondo Martin Lowry, conoscitore principe delle carte e dei conti di Aldo – come «una mescolanza, oggi quasi incredibile, di brutale officina, pensione e istituto di ricerca». Vi circolava una trentina di persone, fra lavoranti, servitù, familiari e ospiti. Un giorno del 1508 Erasmo da Rotterdam stava seduto in un angolo della stamperia e scriveva gli Adagia, ricorrendo soltanto alla sua memoria, e foglio per foglio li passava al proto perché li componesse. In un altro angolo Aldo leggeva e rileggeva bozze che erano già state lette e rilette da altri. Se qualcuno glielo faceva osservare, rispondeva: «Sto studiando». Questa era la vita di ogni giorno. «Da quando ho intrapreso l’estenuante mestiere dello stampatore, ormai sei anni or sono, posso giurarvi che non ho avuto un’ora di ininterrotto riposo» scrisse Aldo una volta. Ma non solo per lui la vita era dura. Secondo Erasmo, i lavoranti della tipografia disponevano di una mezz’ora al giorno per rifocillarsi. Non meraviglia che vi fossero turbolenze e Aldo deplorò che per quattro volte i suoi lavoranti avessero «complottato contro di me a casa mia, aizzati dalla madre di tutti i mali, l’Avidità: ma con l’aiuto di Dio li ho sgominati, sicché ora si rammaricano a fondo per il loro tradimento». Eppure, se c’è un luogo da cui traspariva una felicità tutta nuova era quella bottega.
«No disturbeme che per cosse utili»: questa scritta si leggeva nella stanza dove Aldo operava. Vernacola e laconica, quell’ingiunzione si espanse nel veemente latino dell’epistola dedicatoria a Navagero per la Rhetorica ad Herennium del 1514. Così argomentandosi: «Quanto a me, vi sono due impedimenti che, in mezzo a seicento altri, continuamente interrompono il nostro lavoro: innanzitutto le frequenti lettere dei dotti, che mi giungono da ogni parte, e che mi costerebbero giorni e notti intere se dovessi mai rispondergli; e coloro che vengono da noi, un po’ per salutare, un po’ per indagare se vi sia qualcosa di nuovo, e un po’, e sono questi i più numerosi, perché nulla hanno da fare. E così dicono: “Passiamo da Aldo”. Quindi arrivano a frotte, e si siedono con la bocca aperta, come “sanguisughe che non mollano la pelle se non sono gonfie di sangue”. E tralascio quelli che arrivano per recitare una poesia o un qualche testo in prosa, generalmente grezzi e scorretti, perché sono insofferenti della fatica e del tempo che il lavoro di lima richiede, ma desiderano essere pubblicati col nostro marchio. E non si rendono conto che è spregevole ogni composizione che non “abbia subito lunghi giorni di cancellature / e, una volta finita, non sia stata dieci volte levigata sino all’ultima minuzia”.
«Da questi assai molesti disturbatori ho cominciato finalmente a difendermi. A quelli che scrivono non rispondo nulla, se ciò che mi scrivono non ha grande interesse, o – se lo ha – rispondo in modo laconico. E così faccio non per una qualche superbia o disprezzo, ma perché tutto il tempo di cui dispongo possa dedicarlo a pubblicare buoni libri, perciò chiedo che nessuno se la prenda o intenda la cosa diversamente da quel che è. Quanto a coloro che passano da noi per salutare o per qualsiasi altro motivo, affinché d’ora in poi non continuino a molestarci e interrompere i nostri pensamenti ci siamo presi cura di avvertirli con un epigramma appeso come un editto sulla porta della nostra stanza, che così suona: “Chiunque tu sia, Aldo ti prega e riprega: se vi è qualcosa che vuoi da lui, dillo nel modo più rapido e una volta fatto questo, allontanati, a meno che tu non voglia prenderti sulle spalle l’onere, come fece Ercole con l’estenuato Atlante, perché ci sarà sempre qualcosa da fare per te e per chiunque si trovi a passare di qui”». Queste righe furono la prima e la più efficace raffigurazione del tormento dell’editore. Insieme al corsivo, al punto e virgola, all’apostrofo, ai libri tascabili ( libelli portatiles in formam enchiridii ), sono parole che fanno parte dell’eredità di Manuzio, finora intatta.
Aldo fu colui che trasformò per primo lo stampatore in editore, scompigliando i termini dell’equazione di un mestiere che era stato inventato quattro decenni prima. E questo avvenne grazie a una sorta di devozione alle cose utili. Aldo divenne editore a quarant’anni. Sino allora era stato precettore in case nobili e potenti. E sarebbe potuto facilmente diventare uno dei vari cattedratici dell’epoca, con un suo codazzo di allievi e di vanità. Ma evidentemente gli balenò qualcos’altro, ben più rischioso, ben più urgente e ben più attraente: dare forma a una sequenza di libri, soprattutto greci, a partire dalle grammatiche. Di questo si sentiva un bisogno quasi fisico, a Venezia, dove affluivano continuamente esuli e manoscritti, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453. E Venezia, allora, era un compendio del mondo. O altrimenti, per Aldo, «un’altra Atene». Nel frattempo Aldo chiedeva soltanto di essere lasciato tranquillo per poter «pubblicare buoni libri», edendis bonis libris.