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 2015  novembre 18 Mercoledì calendario

Belgio con i nervi scoperti: nel Paese (11 milioni di abitanti) ci sono almeno quattrocento islamici pronti a farsi saltare per aria

DALLA NOSTRA INVIATA
BRUXELLES I militari per le strade, minacce di attentati ritenute «possibili e verosimili», misure di sicurezza più alte in tutti i luoghi classificati come «sensibili», il livello di allerta salito a 3 su una scala di 4 e un pericoloso jihadista nascosto da qualche parte, forse proprio in città, dopo aver partecipato alla carneficina di Parigi.
A Bruxelles i terroristi del drappo nero hanno vinto una partita che, stavolta, non si sono nemmeno scomodati a giocare. Sono riusciti a far arrivare fin qui la stessa tensione e la stessa paura che in questi giorni vivono i parigini. L’inquietudine di chi non si sente mai abbastanza al sicuro è nelle stazioni ferroviarie, in quelle del metrò, nei cinema, nelle sedi delle istituzioni europee, nei ristoranti...
È come se ci fosse sempre un potenziale nemico ad aspettare dietro l’angolo. È l’amara consapevolezza di non aver avuto abbastanza anticorpi contro un radicalismo islamico che è riuscito a fare del Belgio – e di Bruxelles in particolare – il centro del jihadismo europeo.
Nessuno saprebbe dire com’è stato possibile arrivare a questo punto. Gli esperti dell’antiterrorismo internazionale risalgono agli anni Novanta per intercettare i nomi dei primi jhadisti che vivevano nella capitale e che erano in contatto con aspiranti mujaheddin stabiliti in Italia o in Francia. Nel 2001, quando due finti giornalisti uccidono Massud, il capo dell’Alleanza del Nord in Afghanistan, si scopre che i documenti grazie ai quali avevano passato i controlli erano stati rubati a Bruxelles e all’Aia: un altro segnale importante per la crescita di ruolo della cellula belga che però fa il suo vero salto di qualità, diciamo così, con Muriel Deganque, belga di 38 anni, moglie di Issam Goris, marocchino di sette anni più giovane. Lei si fa saltare il 9 novembre del 2005 a bordo di un’auto imbottita di esplosivo sulla strada per Baquba, sessanta chilometri a nord di Bagdad. È la prima kamikaze donna europea.
Fra allora e oggi c’è la crescita della comunità musulmana che spesso è andata di pari passo con problemi di inserimento sociale, ci sono centinaia di ragazzi partiti per andare a combattere in nome di Allah, ci sono decine di inchieste internazionali dalle quali emergono nomi e indirizzi belgi e poi c’è Molenbeek, il quartiere a est di Bruxelles diventato tristemente noto come il covo dei jihadisti d’Europa. Gli uomini dell’antiterrorismo sono convinti che la scelta del Belgio come base operativa dei terroristi sia dettata anche da una questione geografica: un luogo da dove partire per raggiungere in poche ore la Francia, l’Olanda, l’Italia. Per colpire nel Paese vicino, agendo in fretta e sfruttando i vuoti di comunicazione fra le polizie. Un avamposto comodo logisticamente.
Ricercatori come Pieter Van Ostaeyen stimano che oggi siano più o meno 400 i jihadisti che hanno una vita in Belgio (spesso con spostamenti in Siria e Iraq) e che sono pronti a partire, a morire, ad attaccare gli infedeli in qualche parte del mondo. 400 aspiranti martiri su una popolazione di 11 milioni di persone: un’enormità se si pensa che per la carneficina di venerdì a Parigi sono bastate otto assalitori. E dopo un anno come questo – con la strage al museo ebraico della capitale, con l’assalto fallito al treno di qualche mese fa, con la sparatoria di Verviers di gennaio e con attentati minori non andati a buon fine come quello nella chiesa di Villejuif del 19 aprile – è evidente a tutti che il Paese abbia i nervi scoperti.
Lo si capisce dai militari che imbracciano il mitra davanti al Consiglio europeo, dalle code infinite avanti a qualsiasi accesso che preveda il metal detector, dalle sirene della polizia che in questi ultimi tre giorni si sono sentite come non mai. Oppure dalla risposta del portavoce del presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker: «Sulla questione della sicurezza non diremo una parola», ha risposto ieri a chi gli chiedeva spiegazioni sul perché Juncker e il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk fossero rimasti bloccati in Turchia, ad Antalia, dopo il G20 proprio per il rischio attentati. La stampa turca racconta che hanno dovuto spostare il volo alla mattinata di ieri ma da qui nessun commento sull’accaduto.
Niente dettagli ufficiali nemmeno sul perché della decisione di annullare l’amichevole Belgio-Spagna che si sarebbe dovuta giocare ieri sera. 40 mila biglietti venduti, l’annuncio degli organizzatori sul «non cedere alla psicosi» e sull’importanza di giocare per dare un’immagine tranquillizzante della città, poi la nota ufficiale arrivata nella notte: non si gioca più, rischi troppo alti. Non sarebbe bastato far entrare esclusivamente gente senza borse e zainetti, come si era ipotizzato in un primo momento.
La scala che misura il grado della minaccia nazionale è stato elevato da due a tre, minaccia grave. Ed è stato deciso l’impiego di trecento soldati in più nelle strade, risposta del governo (ministero della Difesa) a una richiesta di aiuto della polizia federale «a titolo temporale e puntuale» per la vigilanza nei punti ritenuti più critici. Anche perché gli inquirenti sospettano che Salah Abdeslam, il terrorista in fuga dopo il massacro di Parigi, possa essere nascosto proprio a Bruxelles. L’amico partito dalla capitale belga per andare a prenderlo in Francia dopo le stragi, avrebbe raccontato di averlo lasciato a Bruxelles, vicino allo stadio dove si sarebbe dovuta giocare la partita. Potrebbe anche non essere vero ma Salah quella notte ha passato il confine ed è arrivato in Belgio, quanto basta per non far dormire sonni tranquilli a nessuno.