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 2015  novembre 11 Mercoledì calendario

• Rangoon (oggi Yangon, Birmania) 19 giugno 1945. Politico. Premio Nobel per la pace nel 1991. Figlia dell’eroe dell’indipendenza birmana Aung San, leader dell’Alleanza nazionale per la democrazia, il suo partito vinse le elezioni del 1990 con l’82% dei voti, ma la giunta militare annullò il voto

• Rangoon (oggi Yangon, Birmania) 19 giugno 1945. Politico. Premio Nobel per la pace nel 1991. Figlia dell’eroe dell’indipendenza birmana Aung San, leader dell’Alleanza nazionale per la democrazia, il suo partito vinse le elezioni del 1990 con l’82% dei voti, ma la giunta militare annullò il voto. Agli arresti domiciliari dall’89 al ’95, dal ’95 al 2000 non le fu permesso di uscire dalla capitale Rangoon. Di nuovo al domicilio coatto dal settembre 2000, fu liberata il 13 novembre 2010, poco prima delle 17.15 ora locale. Il 1º aprile 2012 ottenne un seggio al parlamento birmano. Alle elezioni dell’8 novembre 2015, le prime libere dopo 25 anni, il suo partito ha conquistato il 75 per cento circa dei seggi in Parlamento (44 su 45 per la Camera bassa assegnati a Rangoon e tutti e dodici i seggi in palio nell’ex capitale per la Camera alta).
• Figlia di un militare, Aung San, leader della Lega popolare antifascista della Birmania, assassinato nel 1947 insieme con i suoi più stretti collaboratori poche settimane dopo aver vinto le elezioni, e di Daw Khin Kyi, ambasciatrice. Ha studiato prima a Delhi, in India, e poi a Oxford, dove si è laureata in Filosofia, Scienze politiche ed Economia. In seguito si è trasferita a New York, lavorando per tre anni alle Nazioni unite. Il 1° gennaio 1972 ha sposato Michael Aris, studioso di cultura tibetana. Nel 1988 tornò nel suo Paese, per prendersi cura della madre malata, trovandosi di fronte alla violenta repressione delle proteste contro la dittatura del generale Ne Win, che aveva guidato il colpo di Stato militare nel 1962. Si schierò contro la giunta e diede il via a un movimento di protesta non violento, che chiedeva democrazia, elezioni libere e rispetto dei diritti umani: il 27 settembre 1988 ha fondato il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia. Quello stesso anno Ne Win lasciò il potere, ma il Paese finì nelle mani della giunta. Nel 1989 il governo la costrinse agli arresti domiciliari, impedendole anche di comunicare con il mondo esterno. La giunta le propose il rilascio nel caso in cui avesse accettato di lasciare il Paese, ma lei rifiutò. Nel 1990 si tennero le elezioni e il suo partito, la Lega nazionale per la democrazia (Nld), vinse ottenendo più dell’80% dei seggi in Parlamento. I risultati, però, vennero ignorati e la giunta rimase al potere. Nel 1991 ottenne il Premio Nobel per la pace (motivazione: «un eccezionale esempio del potere di chi non ha potere»). Negli anni successivi ha ottenuto anche altri riconoscimenti, come l’International Simón Bolívar Prize, il premio Sakharov e la medaglia d’oro del Congresso Usa. Nel 1995 fu rilasciata dagli arresti domiciliari, ma senza poter comunque lasciare il Paese, altrimenti non le avrebbero concesso di rientrare, nemmeno quando il marito morì di cancro nel 1999. Nel 2000 la giunta la mise di nuovo agli arresti domiciliari, da cui è stata rilasciata nel 2002, in teoria in modo incondizionato. Ma un anno dopo i suoi sostenitori si scontrarono in strada con i dimostranti filogovernativi e lei, scampata all’attentato, tornò agli arresti. Nel 2009, appena prima di essere rilasciata, fu arrestata di nuovo, questa volta accusata di aver permesso a un estraneo di dormire in casa sua. Si trattava di un americano, che aveva raggiunto di nascosto la sua abitazione per metterla in guardia su un complotto per ucciderla. L’uomo fu arrestato e rispedito negli Usa. Nello stesso anno gli Stati Uniti dichiararono illegale la sua detenzione, ma lei fu processata e condannata a tre anni di carcere, poi ridotti a 18 mesi di arresti domiciliari. Secondo molti, la sua condanna è stata strumentale a impedirle di candidarsi alle parlamentari del 2010, le prime dal 1990. A confermarlo arrivarono poi le leggi che impedivano ai condannati di partecipare alle elezioni e di correre per la presidenza a chi fosse sposato con uno straniero. Il partito Nld boicottò il voto e si sciolse, lasciando campo libero ai partiti legati ai militari. Pochi giorni dopo il voto, il 13 novembre 2010, venne liberata. Nel 2011, il Nld annunciò che si sarebbe nuovamente registrato come partito e l’anno dopo Suu Kyi si candidò formalmente per un seggio in Parlamento. Ha vinto e ha poi assunto l’incarico come leader dell’opposizione. Nel 2012 la giunta ha ceduto il potere al governo civile, formato da ex generali, che ha iniziato una serie di riforme politiche ed economiche. Nel 2013 le è stato consentito per la prima volta in 24 anni di uscire dal Paese (HuF 9/11/2015).
• «Nel 1991 conquista il Nobel per la pace. In risposta alle crescenti pressioni internazionali, la giunta dice di essere disponibilissima a favorire il ricongiungimento di Suu Kyi con il marito e i figli, purché lei lasci il Paese. Il dramma di Suu Kyi si fa serio. Tra la scelta di rivedere i figli e quella di dedicarsi alla patria sceglie quest’ultima. Come fece il padre. “Mi sono sempre sentita vicina a mio padre, non ho mai dimenticato che lui avrebbe voluto che io facessi qualcosa per il nostro Paese”, diceva nel 1995 agli americani. Ai messaggeri, che dalla Thailandia e dai Paesi dell’Asean, si recavano a Rangoon per chiedere passi avanti, i generali allargavano le braccia puntando il dito alla cocciutaggine della donna. Ai navigati diplomatici asiatici, che solo pochi anni prima avevano trattato anche con gli orripilanti e sanguinari khmer rossi, le condizioni poste dalla Suu Kyi parevano irrealistiche, degne di un’eroina da film e non del futuro capo di stato in uno dei crocevia geopolitici più delicati del mondo. I pochi intervistatori che l’hanno incontrata in questi lunghi anni di detenzione raccontano la sua grazia, il suo elegante lungyi, abito tradizionale birmano, la sua villa a due piani con un giardino pieno di gigli, gelsomini profumatissimi, le sue collane di fiori. Lei raccontava che rifiutava tutto quello che le offrivano i suoi carcerieri militari, fino al punto di non avere abbastanza da mangiare e di temere di morire di fame. Nel 1994 viene rilasciata dopo alcuni colloqui con Khin Niunt, l’uomo nuovo tra i generali. Ma nonostante il rilascio, negli anni che seguono, ci sono pochi passi avanti nella situazione politica del Paese. Lei guida l’Nld nel ritiro della convenzione nazionale, la giunta minaccia di “annichilire” chiunque disturbi l’ordine pubblico. Da allora in poi le sue attività sono sempre più controllate, sempre più sotto pressione e nel 1999 il marito si spegne di cancro a Londra, da solo con i figli. Lei è una leggenda, il prigioniero politico più famoso del mondo. Per lei il presidente americano Clinton redarguisce la Birmania, ma questo non impedisce alla giunta di riarrestarla nel 2000. Anche il Paese, a fatica, intanto comincia a cambiare. I militari hanno raggiunto un armistizio con le milizie delle minoranze del nord, i wa, ex filocomunisti. Nel famigerato Triangolo d’oro, a nord del Paese, ci sono pace e affari tra le varie etnie. La stessa Birmania e la sua capitale hanno cambiato nome, e si chiamano ora Myammar e Yangoon» (Francesco Sisci) [Sta 1/5/2002).
• «“Dito proiettile”, così è chiamato in Birmania: ha fatto fuori con un colpo secco un regime in carica da oltre cinquant’anni. Milioni di colpi: alle elezioni ha partecipato l’80 per cento dei 30 milioni aventi diritto. Secondo i primi dati ufficiosi, la Nld, la National League for Democracy, il partito guidato da Aung San Suu Kyi, ha ottenuto una vittoria schiacciante nella maggioranza dei quarantamila seggi. L’Uspd, l’Union Solidarity and Development Party, il partito creato come un avatar dalla giunta militare nel 2010, sembra collassare anche nei seggi delle caserme. Secondo il portavoce dell’Nld, il partito avrebbe vinto il 70 per cento dei seggi, ben oltre la soglia del 67 considerata l’obiettivo massimo. La sconfitta è stata ammessa anche dall’Uspd. (…) Sino a ieri sembrava impossibile. Oggi gli stessi sostenitori dell’Nld quasi non ci credono. (…) La vittoria era certa sin da domenica sera (8 novembre 2015 – ndr). Le urne delle “elezioni più libere e giuste” svolte in Birmania dopo cinquant’anni si sono chiuse alle quattro, ma già filtravano i primi exit poll. Guardando gli schermi di fronte alla sede dell’Nld, le migliaia di persone radunate in attesa di “Mae Suu”, Madre Suu, com’è chiamata la Signora, intonano un coro: “En el di, en el di, noi vinceremo, mae Suu vincerà”. Poco dopo le sei, sugli schermo è apparso Tin Oo, segretario della Nld. “Abbiamo vinto…”, traduce una donna che parla un po’ d’inglese con voce soffocata dalle grida d’entusiasmo. “Ma per conoscere i risultati dobbiamo aspettare. Andate a casa a vedere la tv. E qualunque siano state calmi”, continua a tradurre la donna, mentre le grida si spengono. (…) Mentre si diffondevano le voci di vittoria, ne circolavano altrettante su brogli già avvenuti e in corso. Ma più che per i brogli, denunciati dai social media, la vittoria certa della Nld è resa incerta dalle complessità della legge elettorale e dalla costituzione elaborata dai militari nel 2008, che garantisce loro il 25 per cento dei seggi, assicura al comandante del Tatmadaw, le forze armate, il potere di sciogliere le camere, e impedisce a Suu Kyi di essere eletta presidente. “I tre ministeri più importanti, Difesa, Interno e Affari di frontiera, sono riservati ai militari. E il sistema di eleggere il presidente non dipende dal voto popolare. Ecco perché Tatmadaw è e resterà l’organizzazione più potente di questo paese”, commenta Bertil Lintner, saggista che i birmani considerano uno dei più profondi conoscitori dei misteri del loro paese. Il risultato potrebbe essere parzialmente modificato dal voto delle minoranze etniche (il 40 per cento della popolazione), il che spiega la cautela di Aung San Suu Kyi. “Dobbiamo continuare il nostro cammino pensando al bene del Paese e con amore per il popolo senza alcuna discriminazione – ha dichiarato – Poiché i risultati non sono ancora ufficiali sarebbe inopportuno fare altre dichiarazioni. Credo che il popolo sia in grado di comprendere”. Secondo il Myanmar Times, da oggi sino a gennaio (quando le due camere dovrebbero eleggere il presidente) la politica birmana sarà un continuo “roller-coaster”, un giro di montagne russe, un intrigo occulto per stringere accordi e alleanze. “Fino ad allora non sapremo come finirà questa storia. Tutti i giornalisti stranieri se ne saranno andati a seguire altre storie, e hanno già concluso che la Birmania è ormai libera e democratica, ma io credo che dovremo aspettare e osservare con molta attenzione”, commenta Lintner. (…)» (Massimo Morello) [Fog 10/11/2015].
• «C’è anche una collezione di orchidee, nella casa coloniale sul lago Inya, che per quindici anni è stata la prigione di Aung San Suu Kyi. Un fiore, fra i suoi capelli, non manca mai. La gentilezza dell’immagine, però, non può essere la cifra della sua politica, e dopo la vittoria a valanga nelle elezioni di domenica 8 novembre 2015 è arrivato il momento di dimostrare se la “Signora” ha le qualità e la forza di cambiare la Birmania. Sono quattro i nodi da sciogliere, che si intrecciano alla sua biografia e all’eredità del padre: il rapporto con le minoranze, con i militari, con la Cina, e la visione per il futuro economico del Paese. Aung San, padre della Signora e della patria a cui lei si ispira, fu il primo a cercare di risolvere in maniera sistematica i contrasti etnici della Birmania con la conferenza di Panglong, tenuta cinque mesi prima del suo assassinio. Quei contrasti sono ancora vivi, e durante la campagna elettorale la leader della National League for Democracy è stata accusata di trascurarli, in particolare le violenze commesse contro i musulmani Rohingya nello Stato di Rakhine. Il suo silenzio è stato spiegato con la necessità di non perdere voti tra la maggioranza Bamar, a cui lei appartiene, fedele al buddismo theravada. Aung San Suu Kyi ha sempre detto di essere una politica pragmatica, non un’icona, e neppure un’attivista dei diritti umani. Ora che le elezioni sono vinte, però, non ci sono più giustificazioni: se vuole guidare un Paese democratico, tollerante e unito, deve dare garanzie alle minoranze. Il padre Aung San era un generale, e i militari hanno ancora rispetto per lui. Lei però era il nemico e, oltre ad imprigionarla, hanno scritto la costituzione in modo da negarle la possibilità di diventare presidente, in quanto moglie e madre di cittadini stranieri. La Nld vorrebbe cambiare questa costituzione, ma per farlo serve oltre il 75% dei voti nel Parlamento, dove i militari conservano per legge il 25% dei seggi. La Signora ha detto che può governare al di sopra della presidenza, magari puntando alla premiership. I generali però ora sanno che se rispettano la democrazia, lei vince. Aung San Suu Kyi quindi dovrà fare un difficile gioco di equilibrio, per prendere il controllo del Paese senza che i soldati facciano fuori Thein Sein, il presidente con cui ha dialogato, per sostituirlo con un uomo forte e riprendersi il potere, alla faccia delle proteste e delle sanzioni internazionali che seguirebbero. (…)» (Paolo Mastrolilli) [Sta 10/11/2015].
• Vedova di Michael Aris (Havana, Cuba, 27 marzo 1946 – Oxford, Inghilterra, 27 marzo 1999), ha due figli: Alexander (1973) e Kim (1977).
• Gli U2 le hanno dedicato un brano, Walk On, e l’album che lo contiene è illegale in Myanmar. Si arriva a vent’anni di carcere se lo si possiede. Luc Besson ha raccontato la sua storia nel film del 2011 The Lady (Chiara Pizzimenti) [Vty 9/11/2015].
• Il 20 dicembre 2007 l’ex calciatore Roberto Baggio ritirò per lei, all’Accademia di Santa Cecilia, il premio “Roma per la Pace e l’Azione Umanitaria” assegnatole dall’allora sindaco della Capitale Walter Veltroni. Era stata proprio lei a chiedere che il premio fosse consegnato a Baggio, convinta che la sua grande notorietà avrebbe potuto amplificare la notizia nel suo paese.