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 2015  novembre 10 Martedì calendario

Gli allenatori stranieri entrati nella storia del calcio italiano, fino a Paulo Sousa

C’è sempre da imparare, anche adesso che gli allenatori italiani sono apprezzati in tutto il mondo. Perché c’è sempre qualcuno che arriva da fuori in grado di portare idee e metodi nuovi, come sta facendo a Firenze il portoghese Paulo Sousa. Adesso in Serie A i tecnici stranieri sono solamente tre (oltre a Paulo Sousa, il serbo Sinisa Mihajlovic al Milan e il francese Rudi Garcia alla Roma), ma un tempo erano molto più numerosi e diversi sono entrati nella storia del calcio italiano dalla porta principale.
I MAESTRI INGLESI
Alla fine dell’Ottocento, quando il calcio debuttava in Italia, la figura dell’allenatore non esisteva. In pratica era il giocatore più carismatico a fare la squadra e a scegliere la tattica. Erano soprattutto inglesi, come James Spensley, che con il Genoa vinse sei dei primi sette campionati giocati in Italia, i primi due da difensore, gli altri da portiere, ma sempre da allenatore. O come Herbert Kilpin, mediano del Milan che nel 1901 interruppe proprio l’egemonia del Genoa. Pure lui, come Spensley, era giocatore e allenatore. Mentre Spensley, che in seguito diventerà uno stimato arbitro, era solo un medico appassionato di sport, Kilpin era già stato calciatore in Inghilterra. In Italia arrivò come tecnico nel settore tessile a Torino, dove figurò tra i soci fondatori, oltre che giocatore, dell’Internazionale Torino, che arrivò alla finale dei primi due campionati italiani, sempre battuta dal Genoa. Poi si trasferì a Milano e diventò un fondatore del club rossonero. Sua una rete nel 3-0 sul Genoa che consentì alla squadra rossonera di conquistare il primo scudetto della sua storia. Nel 1912, nella commissione tecnica dell’Italia figurava anche un inglese, Harry Goodley, ex calciatore, all’epoca dipendente dell’industria tessile di Alfred Dick, presidente della Juventus. Goodley, poi apprezzato arbitro, fu confermato pure nella successiva commissione dopo un interregno di Vittorio Pozzo. Il primo vero allenatore “italiano” può essere considerato William Garbutt, ovviamente inglese. Già attaccante di Reading, Arsenal e Blackburn, poi costretto a un precoce ritiro a causa di una lacerazione all’inguine, arrivò in Italia nel 1912 per lavorare al Porto di Genova. Su suggerimento di Pozzo e dell’irlandese Thomas Coggins, che curava le giovanili rossoblu, fu assunto dal Genoa, dove rimase per oltre 15 anni. L’appellativo di “Mister” con cui tuttora vengono indicati gli allenatori, deriva dal modo in cui Garbutt veniva salutato dalle nostre parti, appunto «Mister Garbutt». Dopo il Genoa, con cui vinse tre scudetti (1914-15, 1922-23, 1923-24), allenò la neonata Roma e il Napoli, per poi trasferirsi in Spagna all’Athletic Bilbao, con cui vinse il campionato 1935-36. Innamorato dell’Italia, nel dicembre del 1936 passò al Milan, dove rimase pochi mesi per poi tornare nuovamente al Genoa, che diresse fino al 1948. Introdusse nuovi sistemi di allenamento, curò con particolare attenzione gli aspetti fisici e tattici. In un calcio ancora dilettantistico, facendo acquistare dal Genoa giocatori importanti come De Vecchi, Attilio Fresia, Santamaria e Sardi, diede una decisa spinta verso il professionismo.
Inglese era anche Herbert Burgess, che guidò negli Anni 20 Padova, Milan e Roma, dopo avere iniziato la carriera di tecnico con l’MTK Budapest, stessa squadra nella quale aveva terminato quella di terzino, spesa in precedenza tra le due Manchester, prima City poi United. E fu sempre grazie a un allenatore inglese, Jesse Carver, che la Juventus nel 1949-50 riconquistò lo scudetto dopo il quinquennio d’oro. In Italia con qualche parentesi in Patria, Carver allenò anche Marzotto, Torino, Roma, Lazio, Inter e Genoa.
SCUOLA DANUBIANA
Negli Anni 20 e 30 prevaleva in Serie A la “scuola danubiana”, quella dei tecnici provenienti da Austria e Ungheria. Il primo dei suoi sette scudetti, il Bologna lo vinse nel 1924-25 con l’austriaco Hermann Felsner. Laureato in giurisprudenza, istruttore di ginnastica, ex calciatore, aveva frequentato corsi in Inghilterra per specializzarsi e affermarsi come allenatore. Uomo dalla spiccata personalità, molto sicuro di sé, di un’eleganza raffinata, con il Bologna si affermò in altri tre campionati: 1928-29, 1938-39, quando subentrò alla quinta giornata all’ungherese Arpad Weisz, e 1940-41. In Italia, allenò anche Fiorentina, Sampierdarenese, Genoa, Milan e Livorno.
Il primo allenatore professionista della Juventus fu l’ungherese Jeno Karoly, ingaggiato nel 1923 dal presidente Edoardo Agnelli. Ex mediocentro dell’MTK Budapest e dell’Ungheria, Karoly in Italia era arrivato nel 1919 per guidare il Savona. Tecnico dai modi distinti e di elevata educazione, morì per infarto il 28 luglio 1926, pochi giorni prima dello spareggio della Finale Lega Nord di Prima Divisione vinto 2-1 sul Bologna dalla Juventus, che poi conquistò il titolo. Fu Karoly a volere in bianconero il connazionale Jozsef Viola, centromediano di classe, giocatore-allenatore di Spezia, della stessa Juve, di Ambrosiana-Inter e Atalanta, quindi solo tecnico di Milan, Vicenza, Lazio, ancora Spezia e Milan, Livorno, Genoa, Spal, Bologna e Como. Austriaco era invece Anton “Tony” Cargnelli, il tecnico che portò il Torino al titolo nel 1927-28, la stagione in cui approdò in Italia. Un altro scudetto lo vinse con l’Ambrosiana-Inter nel 1939-40. In Italia guidò pure Palermo, Foggia, Bari, Liguria, Cuneo, Lazio, Lucchese, Bologna, Alessandria e Foggia.
Alcuni concetti espressi nel manuale “Il gioco del calcio”, scritto insieme al dirigente Aldo Molinari dallo sfortunato ungherese Arpad Weisz, morto ad Auschwitz il 31 gennaio 1944, sono attuali ancora oggi. In Italia Weisz era arrivato da calciatore: un infortunio lo costrinse al ritiro per poi diventare allenatore. Uomo di grande cultura e dal carattere mite, fu lui a lanciare in prima squadra il 17enne Giuseppe Meazza e a guidare l’Ambrosiana-Inter al successo nel primo campionato a girone unico nel 1929-30. Fu sempre lui a introdurre in Italia i ritiri estivi, a dirigere in prima persona gli allenamenti in mezzo ai giocatori. Fu ancora lui a vincere due scudetti consecutivi, 1935-36 e 1936-37, con il Bologna «che tremare il mondo fa» e a battere 4-1 il Chelsea nella finale del Torneo Internazionale dell’Expo Universale di Parigi. Nell’ottobre del 1938, però, Weisz venne licenziato dal Bologna nell’applicazione delle leggi razziali in quanto ebreo. Lasciò l’Italia, dove aveva allenato pure Bari e Novara, per una fuga senza scampo.
Quando la Roma nel 1941-42 vinse per la prima volta il campionato, a dirigerla c’era l’ungherese Alfred Schaffer, ex grande giocatore e poi allenatore di successo in diversi Paesi della Mitteleuropa. Nella Capitale compì il suo capolavoro: predicando Metodo più velocità, portò al titolo una squadra senza fuoriclasse, ma capace di imporsi grazie alla solidità difensiva. Già mediano di Olympia Fiume e Vicenza, l’ungherese Ernest Egri Erbstein, dopo un’infelice esperienza negli Stati Uniti da agente di borsa e calciatore, tornò in Italia per allenare: guidò Bari, Nocerina, Cagliari e ancora Bari prima di essere chiamato nel 1938 da Ferruccio Novo al Torino, che si classificò secondo dietro al Bologna. Ma le leggi razziali lo indussero a rientrare in Ungheria, in quanto ebreo. A Torino tornò a guerra finita, dopo essere scappato da un campo di lavoro nazista, con il compito di direttore tecnico e consigliere del presidente. E la squadra granata conquistò uno scudetto dopo l’altro. Nel 1948-49 tornò ad allenare, affiancato dall’inglese Leslic Lievesley, ma il 4 maggio 1949 perì nella tragedia aerea di Superga.
GIRAMONDO VITTORIOSI
Era ungherese anche Gyorgy Sarosi, che portò la Juventus allo scudetto nel 1951-52. Nato a Budapest da padre ungherese e madre italiana, era un centromediano dal gol facile, tanto che nelle 62 partite giocate nell’Ungheria mise a segno 42 reti. Lasciata nel 1947 l’Ungheria occupata dai sovietici, si stabilì in Italia dove, oltre alla Juve, allenò Bari, Lucchese, Genoa, Roma, Bologna, Brescia e Gruppo e (squadra genovese impegnata nei campionati di Serie D e Promozione), dopo una puntata in Svizzera al Lugano. Al calcio affiancava gli studi di giurisprudenza e una volta chiuso con il pallone divenne avvocato e magistrato. L’ungherese giramondo Béla Guttmann nella gloriosa carriera di allenatore vinse praticamente ovunque, meno che in Italia, dove le prime esperienze con Padova e Triestina finirono con esoneri.
Nel novembre del 1953 venne ingaggiato dal Milan, che nel febbraio del 1955 lo licenziò nonostante la squadra fosse prima in classifica ma in flessione di risultati. Lo sostituì Héctor Puricelli, che portò i rossoneri al titolo.
Il Danubio passa anche dalla Belgrado di Ljubisa Brocic, allenatore della Juventus che nel 1957-58 conquistò lo “scudetto della stella”. Uomo colto, con l’avvocato Agnelli conversava in francese. In conflitto con Omar Sivori, alla guida della squadra rimase fino al novembre del 1958, quando dovette lasciare la panchina a Depetrini per essere destinato all’incarico di osservatore.
Un autentico maestro di calcio offensivo fu l’ungherese Lajos Czeizler, che la carriera di allenatore la iniziò in Polonia, all’LKS Lodz. Poi l’Italia, con Udinese, Faenza, le giovanili della Lazio, Catania e Casale, prima di fare ritorno a Lodz. Quindi l’IFK Norrköping in Svezia, nei difficili anni della guerra, e nel 1949 ancora l’Italia per guidare il Milan dello spettacolare “Gre-No-Li”, con cui vinse campionato e Coppa Latina nel 1950-51. Dopo il Padova, a “zio Lajos” (per la familiarità coi giocatori, ma anche “Buddha”, per l’aspetto) fu affidata l’Italia, che lasciò all’indomani dell’eliminazione al Mondiale del 1954. Infine, la Sampdoria e la Fiorentina, con la quale nel 1958-59 sfiorò lo scudetto: pur realizzando la bellezza di 95 reti, la Viola fu preceduta dal Milan.
A Firenze prese in seguito il suo posto il connazionale Nandor Hidegkuti, famoso per l’interpretazione che dava al ruolo di centravanti nella “Aranycsapat”. Aveva iniziato ad allenare nell’MTK Budapest, dove aveva svolto la carriera da calciatore. In Italia approdò verso la fine della stagione 1960-61, in tempo per guidare la Fiorentina alla conquista della Coppa delle Coppe e della Coppa Italia. L’annata successiva la condusse al terzo posto: non bastò per rimanere e se ne andò al Mantova, prima di fare ritorno in Ungheria.
CRESCIUTI DA NOI
Oltre all’uruguaiano Héctor Puricelli, Campione d’Italia con il Milan nel 1954-55, poi sulle panchine di Palermo, Salernitana, Varese, Atalanta, Alessandria, Cagliari, Vicenza, Foggia, Brindisi e Genoa, diversi altri calciatori stranieri sono diventati allenatori in Italia come l’ex “Testina d’oro” di Bologna e Milan. Il più famoso è stato lo svedese Nils Liedholm, capace di portare allo scudetto il “suo” Milan nel 1978-79 (quello della stella) e la Roma nel 1982-83. Il “Barone” fu tra i primi in Italia ad adottare la difesa a zona e le sue squadre (anche Verona, Monza, Varese e Fiorentina) esprimevano sempre un calcio piacevole. Campione lo fu nel 1968-69 l’argentino Bruno Pesaola con la Fiorentina “yé-yé”, composta prevalentemente da giovani del vivaio. Ma la carriera di allenatore del “Petisso” è legata a doppio filo al Napoli, che guidò in quattro riprese dopo esserne stato una bandiera da calciatore. Altre squadre da lui dirette furono Scafatese, Savoia, Bologna, Siracusa e Campania, con una puntata in Grecia al Panathinaikos. Non vinse lo scudetto, ma ci andò vicino nel 1977-78 alla guida del Napoli, il brasiliano Luis Vinicio, ex centravanti tutto cuore e gol dello stesso Napoli, di Bologna e Vicenza. “O Lione” allenò anche Internapoli, Brindisi, Ternana, Lazio, Avellino, Pisa, Udinese e Juve Stabia.
Di scudetti ne vinse due con la Juventus il cecoslovacco Cestmir Vycpalek, anche grazie all’amicizia lo che legava a Giampiero Boniperti, già suo compagno in bianconero nell’immediato dopoguerra. “Cesto”, una volta chiusa la carriera, si era fermato a Palermo e aveva iniziato ad allenare la squadra rosanero per poi guidare Siracusa, Marzotto, ancora Palermo, Juve Bagheria e Mazara con poche soddisfazioni e diversi esoneri. Nel 1970 Boniperti, diventato presidente della Juventus, si ricordò di lui e lo chiamò per curare le giovanili. Nel 1971, dopo la prematura scomparsa di Armando Picchi, gli fu affidata la prima squadra che lui portò al titolo nel 1971-72 e nel 1972-73. Nipote materno di Vycpalek è Zdenek Zeman, controverso allenatore senza un passato da calciatore, che ha guidato con alterne fortune innumerevoli squadre in Italia, con qualche dimenticabile puntata all’estero. Le più importanti: Foggia, Parma, Lazio, Roma, Napoli, Lecce, Pescara e Cagliari. Anche Luis Suarez, inarrivabile regista dell’Inter Mondiale e unico spagnolo ad aver vinto, nel 1960, il Pallone d’Oro, iniziò la carriera di tecnico in Italia nelle giovanili del Genoa, prima di sedersi nel 1974 sulla panchina della squadra nerazzurra. Poi Cagliari, Spal, Como e il ritorno in Patria per dirigere la selezione Under 21 e quindi la Nazionale maggiore. Sempre però pronto a tornare all’Inter, che in emergenza lo richiamò due volte, nel 1992 e nel 1995.
L’argentino Renato Cesarini e lo svedese Gunnar Gren, già calciatori vincenti in Italia e diventati allenatori di prestigio nei rispettivi Paesi, tornarono da noi per vincere lo scudetto con la Juventus: Cesarini nel 1959-60, Gren la stagione successiva, subentrando proprio all’argentino dopo 12 giornate. L’argentino Juan Carlos Lorenzo, interno della Sampdoria fra1948 e il 1952 e diventato tecnico di prestigio in Argentina, tanto da guidare la Selecion al Mondiale del 1962, rientrò in Italia nello stesso anno per allenare la Lazio e in seguito la Roma. Alla Lazio tornò nel 1968-69 per riportarla in Serie A.
Dalla scrivania alla panchina è il passo che fece il brasiliano Leonardo quando nel 2009 diventò allenatore del Milan, esperienza durata una sola stagione e poi ripresa nel corso dell’annata successiva per andare in soccorso dell’Inter, che con lui si rilanciò. Ma allenare non era nelle sue corde e dopo quelle due esperienze milanesi tornò alla scrivania, quella ricca e prestigiosa del Paris SG. Anche Sinisa Mihajlovic come allenatore si è formato in Italia, guidando Bologna, Catania, Fiorentina e Sampdoria, prima di approdare al Milan. Nel mezzo, un’esperienza da Ct della Serbia.
DAL MAGO ALLO SPECIAL ONE
A rendere la figura dell’allenatore da periferica a centrale, a ingigantirla e arricchirla, fu Helenio Herrera, approdato all’Inter nel 1960 dal Barcellona. Argentino naturalizzato francese, dai modestissimi trascorsi da calciatore, in panchina diventò “il Mago” e rivoluzionò il calcio italiano, prima con le sue trovate, come le frasi motivazionali fatte appendere sulle pareti dello spogliatoio, quindi con i suoi successi, facendo della squadra nerazzurra una macchina perfetta. Nonostante vi giocassero fuoriclasse quali Suarez, Mazzola, Facchetti e Corso, passò alla storia come l’Inter di Herrera, oltre che di Angelo Moratti, il presidente che gli elargiva lautissimi ingaggi, del tutto al di sopra dei parametri del periodo. “Tacalabala” era il grido che rivolgeva ai suoi giocatori per aggredire gli avversari e riconquistare il pallone. Alla guida di una Inter inimitabile, Herrera vinse tre campionati (1962-63, 1964-65 e 1965-66), due Coppe dei Campioni (1964 e 1965) e altrettante Intercontinentali (1964 e 1965). Guidò anche la Nazionale italiana fra il 1966 e il 1967. A mettere fine al dominio in Italia di HH1 fu un altro Herrera, il paraguaiano Heriberto, HH2, con la “Juve Operaia” Campione d’Italia nel 1966-67. Maniaco della preparazione atletica, predicava il continuo “movimento” inviso all’estroso Sivori, costretto poi a lasciare la Juventus. Un duro, HH2, che non faceva nessuna distinzione fra i giocatori: «Coramini e Sivori per me sono uguali» arrivò ad affermare.
Mentre HH 1, o “Accaccone” come lo chiamava Gianni Brera per distinguerlo dall’altro, nel 1968 andava ad allenare per un ingaggio record la Roma per poi tornare all’Inter nel 1973, fermarsi per un infarto nel 1974 e chiudere la carriera italiana con il Rimini nel 1978-79, HH2, o “Accacchino” (sempre Brera), lasciata la Juve e dopo un’esperienza da Ct del Paraguay, tornò in Italia nel 1969 per allenare addirittura l’Inter, con un secondo posto dietro al Cagliari nel 1970. Ma il suo rapporto con i “senatori nerazzurri” si deteriorò e a metà novembre del 1970 fu esonerato. In seguito guidò Sampdoria e Atalanta.
Quello che era stato Helenio Herrera negli Anni 60, lo fu dal 2008 al 2010, sempre alla guida dell’Inter, il portoghese José Mourinho, lo “Special One”. Colto, intelligente e furbo, fin dal primo giorno in nerazzurro dimostrò di avere una marcia in più e lo fece capire dichiarando di non essere «un pirla» davanti a una folla di giornalisti stupiti e divertiti. Nelle due stagioni trascorse sulla panchina nerazzurra. Mourinho vinse il campionato nel 2008-09 e il “Triplete” (ovvero scudetto, Coppa Italia e Champions League) nel 2009-10.
PERDENTI DI SUCCESSO
Dopo tre secondi posti consecutivi, la Fiorentina nel 1959 assunse l’argentino Luis Carniglia, che aveva appena portato il Real Madrid alla conquista della quarta Coppa dei Campioni consecutiva. Fu un altro secondo posto e l’argentino non venne confermato. Giramondo di personalità, Carniglia rimase in Italia: Bari, Roma, Milan, Bologna (secondo e terzo posto) e Juventus le altre tappe, con l’unica vittoria nella Coppa delle Fiere 1961. Amante dei giocatori dalla tecnica raffinata, aveva allenato Di Stefano, non stimava quelli poco dotati e quando venne licenziato da una Juve povera di qualità accettò senza drammi l’allontanamento. Ingaggiato dall’Inter nell’estate 2001, l’argentino Héctor Cúper sembrò in grado di riportarla al titolo, ma la sconfitta per 4-2 in casa della Lazio nell’ultimo turno la fece precipitare dal primo al terzo posto. Lo scudetto non arrivò neppure la stagione successiva, quando la squadra dell’“Hombre vertical” si classificò seconda. Nella terza annata, l’allontanamento a campionato in corso. Poi il ritorno in Italia nel marzo del 2008 per salvare il Parma dalla retrocessione: inutilmente. Anche per il quotato spagnolo Rafael Benitez, l’Italia non ha riservato grandi soddisfazioni. Un esonero lampo all’Inter nel 2010 dopo la conquista del Mondiale per club e due annate al Napoli piene di ambizioni, ma con le sole Coppa Italia e Supercoppa Italiana, sempre nel 2014, nel carniere.
Un errore lo commise la Juventus quando nell’estate del 1962 ingaggiò il brasiliano Paulo Amaral all’indomani del secondo successo mondiale della Seleção. Ma di quella squadra Amaral era solo il preparatore atletico, benché avesse esperienze da allenatore con Botafogo e Vasco da Gama. In Italia si confermò un ottimo preparatore, però non brillò come tecnico e nell’ottobre 1963 fu esonerato. Tornò nel 1964 per guidare il Genoa al posto di Beniamino Santos, morto in un incidente stradale, ma non durò che otto partite. Poca fortuna ebbe anche il suo connazionale Sebastião Lazaroni, Ct, lui sì, del Brasile a Italia 90 e ingaggiato subito dopo la conclusione del torneo dalla Fiorentina. Non andò oltre la salvezza e la stagione successiva fu allontanato dopo poche partite. Una successiva esperienza italiana Lazaroni la conobbe con il Bari in Serie B. Anche il romeno Mircea Lucescu, tecnico di assoluto valore oltre che vincente in diversi Paesi, negli Anni 90 raccolse poco in Italia, dove allenò squadre di seconda fila quali Pisa, Brescia e Reggiana, con un’esperienza di breve durata all’Inter. E non andò meglio, sempre all’Inter, all’inglese Roy Hodgson, attuale Ct dell’Inghilterra: due stagioni, 1995-96 e 1996-97, e tre partite fra il maggio e il giugno 1999, senza vincere nulla. Irrilevante anche l’esperienza nell’Udinese, conclusa in fretta. Bene, invece, aveva iniziato con la Lazio il bosniaco naturalizzato svizzero Vladimir Petrovic: Coppa Italia la prima stagione, 2012-13, battendo in finale la Roma, e ambiziosi progetti per la seconda, dove però venne esonerato nel gennaio 2014 quando il presidente Lotito apprese che aveva già firmato per guidare la Nazionale svizzera.
CAMPIONI CON MERITO
L’ultimo scudetto di una squadra non metropolitana risale al 1990-91: lo conquistò la Sampdoria dello jugoslavo Vujadin Boskov. Della squadra blucerchiata Boskov era stato anche calciatore, nel 1961-62. Poi era diventato uno stimato allenatore, guidando pure Feyenoord, Real Madrid e Jugoslavia. In Italia arrivò nel 1985 per allenare l’Ascoli, e un anno dopo era sulla panchina della Samp, che con lui conobbe le stagioni migliori: scudetto, due Coppe Italia, una Supercoppa Italiana e la Coppa delle Coppe 1990. Uomo di grande intelligenza e umanità, “Zio Vuja” faceva largo uso di ironia, ma era un autentico maestro di sport e di vita che si trasformava in battutista per smorzare le tensioni. Serbo della Vojvodina, Boskov in Italia allenò anche Roma, Napoli, ancora Samp e Perugia.
Se i momenti d’oro della Sampdoria sono legati a Boskov, quelli della Lazio portano il nome dello svedese Sven Göran Eriksson, con le conquiste dello scudetto nel 1999-2000, della Coppa delle Coppe e della Supercoppa Europea nel 1999. E dire che “Svengo”, vincitore di campionati e coppe con IFK Göteborg e Benfica, in Italia era considerato un perdente. Con la Roma, la prima squadra allenata in Italia, nel 1986 perse nel penultimo turno uno scudetto che sembrava già vinto con la sconfitta interna contro il Lecce già retrocesso e anche con la Fiorentina e la Sampdoria, pur ottenendo buoni risultati, non era sembrato in grado di arrivare ai vertici.
NON PASSA LO STRANIERO
Diversi tecnici di grande caratura non sono riusciti a sfondare in Italia. È il caso dell’argentino César Luis Menotti, Ct della Selecion mondiale nel 1978, ma durato poche settimane alla guida della Sampdoria nel 1997. Del suo connazionale Carlo Bianchi, vincitore di tutto in Sudamerica ma fallimentare nell’annata a Roma, quando fu esonerato nell’aprile 1997 con la squadra invischiata nei bassifondi della classifica. Roma ostile anche con lo spagnolo Luis Enrique, che nel maggio 2012 lasciò la panchina giallorossa dopo una sola annata. La scorsa stagione si è ampiamente rifatto alla guida del Barcellona, conquistando Liga, Copa del Rey e Champions League.
Una sola stagione, e neppure intera, anche per Didier Deschamps, attuale Ct della Francia, chiamato nel 2006-07 per riportare in A la Juventus retrocessa fra i cadetti per Calciopoli. A tre turni dal termine, a promozione acquisita, l’ex mediano bianconero si dimise per contrasti con la dirigenza. L’unico Paese in cui non ottenne risultati significativi un vincente come il croato Tomislav Ivic fu l’Italia, dove guidò l’Avellino nel 1985-86, quando fu esonerato dopo 22 giornate. Nel Milan di Silvio Berlusconi, gli allenatori stranieri hanno sempre avuto vita difficile. Liedholm, nel 1986-87, prima stagione della presidenza del Cavaliere, fu esonerato a quattro turni dal termine per fare posto a Fabio Capello. L’uruguaiano Oscar Tabarez, attuale Ct della Celeste, dopo una brillante stagione al Cagliari, nel 1996 sulla panchina rossonera durò solo undici giornate. Il turco Fatih Terim nel 2000 destò grande impressione alla guida della Fiorentina, prima di venire esonerato dopo venti giornate per non aver voluto prolungare il contratto. Il Milan lo ufficializzò nell’estate 2001. Ma la vita de “l’Imperatore” sulla panchina rossonera fu di breve durata, perché in novembre fu esonerato e sostituito da Ancelotti. Lo stesso olandese Clarence Seedorf, voluto a tutti i costi nel gennaio del 2014, quando era ancora un calciatore del Botafogo, per sostituire Allegri, non è arrivato al giugno dello stesso anno. Precedenti poco incoraggianti per Mihajlovic.