Corriere della Sera, 20 gennaio 2008
Negatori del Risorgimento, da Nord e da Sud
Le città e i paesi italiani, soprattutto del Sud Italia, riportano i nomi di uomini a cui sono state intitolate strade e piazze e che nel bene e nel male hanno fatto la storia del nostro Risorgimento. Nei manuali scolastici e nelle fiction televisive il Risorgimento italiano è stato caricato di una retorica che gli studi recenti stanno smentendo.
Quella dei Savoia nei confronti del Sud Italia fu una violenta conquista, altro che spontanea adesione o liberi plebisciti, e il brigantaggio, come si evince nel libro di Gigi Di Fiore «Controstoria dell’Unità d’Italia», fu l’effetto di tale violenza sul Sud. In conclusione di questa breve e realistica constatazione storica, è ancora utile avere via Cialdini, via Fanti? Non sarebbe più utile rivedere la toponomastica e spiegare realmente, soprattutto ai nostri giovani come andò realmente l’Unità d’Italia?
Saverio Ciccimarra
Matera
Caro Ciccimarra,
Lei definisce «breve e realistica constatazione storica» quella che è in realtà una versione «negazionista» del Risorgimento, molto di moda ormai da parecchi anni. Per la verità le versioni negazioniste sono due. Vi è quella della Lega Nord che denuncia l’annessione piemontese delle province settentrionali e si è servita del bicentenario della nascita di Garibaldi per deplorare la spedizione dei Mille. E vi è quella di molti meridionali, convinti che i famigerati briganti fossero devoti partigiani dei Borbone e che la guerra del brigantaggio, fra il 1861 e il 1865, fosse la versione italiana di quella che si combatteva durante gli stessi anni negli Stati Uniti. Da quando Bossi ha fatto la sua apparizione nella politica italiana e molti meridionali hanno deciso paradossalmente di imitarlo, il Risorgimento e l’unità nazionale sono soggetti a una sorta di fuoco incrociato proveniente dal Nord e dal Sud.
Il guaio per gli attaccanti, caro Ciccimarra, è che queste due ideologie antirisorgimentali sono costruite su basi insicure e pilastri traballanti. La borghesia veneta era stanca del dominio austriaco, ma il collasso della nuova repubblica veneziana, nel 1849, dimostrò che il progetto di Daniele Manin non era politicamente e militarmente realistico. Carlo Cattaneo desiderava che il Lombardo Veneto avesse, nell’ambito dell’Impero asburgico, i diritti e l’autonomia che la Catalogna ha conquistato nella Spagna postfranchista. Ma l’Austria non aveva alcuna intenzione di rinunciare al centralismo viennese.
La situazione al Sud era persino peggiore. Non è necessario avere letto le lettere scritte su Napoli nel 1851 da un grande uomo politico britannico, William Gladstone, per riconoscere che il Regno borbonico, verso la metà dell’Ottocento, era poliziesco, reazionario, male amministrato e terribilmente arretrato. Credo anch’io che occorra rendere onore ai difensori di Messina e Gaeta. Ma l’esercito, la flotta e la pubblica amministrazione del Regno delle Due Sicilie si sfaldarono come neve al sole.
Nel 1860, quando Cavour decise di cavalcare gli eventi e di estendere al Sud il processo di unificazione nazionale, non esistevano alternative. Se la penisola italiana voleva scrollarsi di dosso il torpore che aveva spento, dall’inizio del Seicento, i suoi spiriti vitali, non vi era altra prospettiva fuorché quella offerta dal disegno unitario dei piemontesi. Dobbiamo al Risorgimento il ritorno dell’Italia in Europa e i suoi innegabili progressi in 156 anni di vita nazionale.
Naturalmente non tutti hanno tratto dall’Unità gli stessi vantaggi. Ma anziché dare la colpa alla classe dirigente del Risorgimento, molti italiani del Sud e del Nord, dovrebbero guardarsi allo specchio e fare un contrito mea culpa.