la Repubblica, 12 novembre 2013
Ritratto di Giuseppe Colombo, scienziato e ministro
La storia procede per salti, che a volte sono determinati dall’azione di un solo individuo. Se alla fine dell’800 ci siamo affacciati, buoni ultimi fra le grandi nazioni, alla modernità grazie all’elettricità e abbiamo iniziato il nostro sviluppo industriale, lo dobbiamo a un uomo, Giuseppe Colombo, nato nel 1836 in una famiglia della piccola borghesia di Milano. L’ingegner Colombo avrebbe potuto vantarsi di aver fatto l’Italia. Quell’Italia industriale che, a quei tempi, era solo un paese agricolo e con un’economia arretrata. Forse è esagerato farne un campione del Positivismo, ma elenchiamo le sue qualità: era un progressista con, in gioventù, simpatie mazziniane; un tecnico con interessi e conoscenze che spaziavano dalla meccanica all’energia, dall’ingegneria civile all’aeronautica; un formidabile docente e divulgatore, un imprenditore perspicace, un abile politico (per due volte ministro).
Ma l’eclettismo non basta a spiegare il valore del personaggio, la sua tenacia, la sua lungimiranza. L’ingegner Colombo era un visionario animato da un’idea del futuro rivoluzionaria. Si laurea a vent’anni a Pavia e inizia subito a insegnare alla scuola di Incoraggiamento d’Arti e Mestieri di Milano. Quindi, nel 1865 diventa titolare della cattedra di Meccanica e ingegneria industriale del Politecnico, dove rimane come docente e poi rettore fino alla morte, nel 1921. Si accorge subito che la scuola ufficiale ha un limite, scarseggiano i corsi di meccanica applicata e di materie tecniche in generale. Allora sviluppa una personale didattica, tanto efficace che nel 1877 dà alle stampe il suo trattato-capolavoro, quel Manuale dell’ingegnere che per generazioni e generazioni di tecnici ha rappresentato il testo sacro e che, ovviamente aggiornato, è pubblicato ancora oggi da Hoepli. Per diffondere velocemente lo spirito della modernità, sceglie la strada delle conferenze, che attirano folle di spettatori di ogni strato sociale.
Contemporaneamente scrive articoli, saggi, traduzioni di manuali di ingegneria stranieri... Partecipa alla Seconda guerra d’indipendenza e alla Terza con il Corpo volontari italiani di Garibaldi. E viaggia, soprattutto all’estero, per visitare le esposizioni internazionali, le fabbriche, per conoscere scienziati. In uno di questi viaggi, nel 1861, si spinge a Londra per incontrare Giuseppe Mazzini.
Da questi tour riporta esperienze e novità utili a realizzare il suo progetto: per l’Italia immagina uno sviluppo basato non sull’agricoltura, come auspicato da una parte della classe dirigente, ma sull’industria, perché “la prosperità industriale di un popolo è, al pari della libertà, uno dei primi elementi della sua indipendenza”. Ma la crescita economica, sostiene, non deve compiersi a spese dei lavoratori, l’operaio non deve più essere un puro esecutore, ma uno specialista con conoscenze anche teoriche della meccanica, dotato di intelligenza e di senso del bello. Parole che suonano quasi eretiche ancora oggi. C’è però un grosso ostacolo tecnico: per crescere con l’industria diffusa sul territorio è necessario risolvere il problema della trasmissione della “forza” a distanza. L’anno di svolta è il 1881, quando Colombo fonda il Comitato per l’Applicazione dell’energia elettrica (il primo nucleo della Società Edison), va alla Mostra del-l’Elettricità di Parigi e tratta per ottenere l’esclusiva del sistema Edison in Italia. Poi attraversa l’Atlantico e con Thomas Alva Edison mette a punto il progetto di un potente impianto, acquista i generatori “Jumbo” e assiste all’inaugurazione della prima centrale termoelettrica della storia a New York. Quando torna, è determinato a essere il primo ad “accendere la luce” in Europa. E ci riesce. L’8 marzo 1883, a due passi dal Duomo di Milano, entra in funzione in un vecchio teatro la centrale di Santa Radegonda. Proprio in quell’Italia ultima arrivata nel mondo industriale.