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 2013  dicembre 29 Domenica calendario

Gli italiani nella Guerra di secessione

Del migliaio di italiani che combatterono nelle file del Nord durante la guerra ci­vile americana, quattro erano generali, nove colonnelli, tredi­ci ufficiali di marina e ventotto maggiori e capitani. Ma erano tutti già residenti negli Usa. Mal­grad­o gli appelli e i roboanti pro­clami antischiavisti che percor­revano in quegli anni la Peniso­la, nonché le tirate altrettanto al­tisonanti di Garibaldi, quasi nes­suno si imbarcò per la gloriosa impresa. Garibaldi stesso rinun­ciò perché Lincoln gli aveva of­ferto solo un comando nelle truppe unioniste,mentre l’Eroe voleva quello supremo.
Nel 1861 quattro deputati americani vennero a Torino per arruolare una legione di volon­tari contro gli schiavisti. Il gior­nale La Nazione di Firenze pub­blicò un appello in proposito agli ex garibaldini. Pochissimi si presentarono e quasi nessuno venne accettato quando si sco­prì che i «volontari» cercavano più che altro un passaggio gra­tuito per emigrare in America. Per giunta, tutti volevano posti di comando. Nell’ottobre, i vo­lontari si erano ridotti a due. E anche questi rinunciarono quando seppero che avrebbero dovuto pagarsi il viaggio.
Nel 1862 l’Unione era già a mal partito per i disastri militari inflitti dai confederati. Venne offerto un premio di otto acri di terra a guerra finita. «Sono poco più di tre ettari: non un grande gesto per un paese immenso», scrive Gilberto Oneto nel suo
Unità o libertà. Italiani e pada­ni nella guerra di secessione americana (Il Cerchio, pagg. 278, euro 28). Infatti, nessuno accetta la lauta offerta. Lincoln, disperato, si rivolge a Garibaldi, il quale incarica il colonnello ga­ribaldino Gianni Battista Catta­beni di reclutare duemila uomi­ni che il Generale stesso coman­derà. Cattabeni ne racimola so­lo cinquecento, segno«che l’ar­dore per la causa dell’Unione è ulteriormente scemato». In ogni caso, non se ne fa nulla quando Lincoln, con l’acqua fi­nanziaria alla gola, scopre che deve loro pagare il viaggio. Mo­rale: le Garibaldi Guards che combattono per l’Unione sono italiani colà già residenti o maz­ziniani europei.
Alla battaglia di Harper’s Fer­ry si arrendono ai confederati «assicurandosi il poco onorevo­le primato del maggior numero di soldati dello stesso reparto ar­resi in un colpo solo in tutta la guerra». Di 525 uomini, 400 fini­scono prigionieri e gli altri diser­tano. Una corte marziale nordi­sta li bolla di «vigliaccheria». Il reggimento, ricostituito, si com­porta benino a Gettysburg. Ma a riscattare l’onore militare de­gli italiani nella Guerra di Seces­sione sono in realtà quelli che combattono per il Sud. Questi sì, quasi tutti provenienti dalla Penisola. Sono quei soldati bor­bonici fatti prigionieri dopo il Volturno e che si rifiutano di giu­rare fedeltà al vincitore. Sono tanti e Cavour non sa cosa far­ne. Lasciarli andare non può, perché andrebbero a ingrossa­re le file del «brigantaggio», ar­ricchendo di veterani addestra­ti la resistenza che già si profila nel Meridione. Deportarli in campi di concentramento esteri (sono presi in consi­derazione addirittura la Patagonia, l’Indonesia e l’Australia, già luogo di de­portazione britannico) non si può perché i rispettivi governi non ne vogliono sa­pere. A quel punto, l’ufficiale ga­ribaldino Chatham R. Wheat of­fre la soluzione. È della Louisia­na e deve tornare in patria a ser­vire la Confederazione. La qua­le è a corto di uomini e, a diffe­renza del Nord, paga viaggio, sti­pendio ed equipaggiamento. Garibaldi, pur filo-nordista, è d’accordo. Vittorio Emanuele II pure e Cavour tira un sospiro di sollievo. Chi gestisce l’opera­zione è il solito don Liborio Ro­mano.
Così, qualche mi­gliaio di ex bor­bonici vie­ne im­barcato a più ri­prese per New Orleans, fi­no a quan­do un imbufalito Lincoln, dopo aver svaccato con Cavour, decreta il blocco navale della Confederazione. E i rimanenti borbonici finiscono nel lager piemontese di Fenestrelle. Gli italiani «confederati» vengono inquadrati nei Bourbon Drago­ons e si coprono di gloria nelle maggiori battaglie della guerra. Tra loro c’è anche Carlo Patti, fratello della celeberrima sopra­no Adelina. E uno dei fratelli di Nino Bixio, Giuseppe, gesuita e già difensore degli indiani con­tro le Giacche Blu.