Il Sole 24 Ore, 20 gennaio 2013
Camorristi e briganti, da Dumas in poi
«Il vocabolo camorra col tempo mutò il suo primitivo valore… furon detti camorristi non solo i veri adepti alla consorteria, ma tutti coloro che vivono di lucri indebiti prelevati sulle case di giuochi, di prostituzione e sopra alcune specie di industrie e di commercio. Di questa lebbra è infetta Napoli e le province tutte...».
È uno dei passi centrali del Rapporto sulla Camorra, la prima indagine su Napoli commissionata dal ministero degli Interni, nell’inverno 1861, a unificazione appena avvenuta. Il Mezzogiorno e in particolare Napoli escono definitivamente dall’immagine esotica cui l’avevano consegnata le memorie di viaggio degli intellettuali europei tra Cinquecento e inizio Ottocento (tra questi Montaigne, Goethe, Stendhal, ma anche l’economista Ricardo non aveva lesinato complimenti) e inizia a diffondersi l’immagine di territorio maledetto.
Le note e i racconti di vita che Alexandre Dumas compone tra il 1860, quando arriva a Napoli al seguito del suo mito – Giuseppe Garibaldi –, e il 1863, quando se ne riparte definitivamente, solo in parte si collocano nello stesso filone. Per molti aspetti, invece, se ne discostano e l’antologia proposta da Claude Schopp, che ne raccoglie una buona parte, è un’occasione per riconsiderare non solo la condizione di Napoli e più generalmente del Mezzogiorno al momento dell’Unità, ma anche per comprendere come un lettore non banale sia in grado di andare oltre ciò che vede immediatamente, per cogliere il malessere profondo del Mezzogiorno italiano.
Il primo dato riguarda il carattere strutturale, più che eccezionale, della camorra e del brigantaggio che Dumas legge come fenomeni contigui.
«Nell’Italia meridionale – scrive Dumas – si è brigante come si è muratore. Il brigante ha la sua casa, nella quale rientra d’inverno; ha la sua famiglia, i suoi amici, il suo confessore. Se si fa altro, se si esercita un altro mestiere è per caso; il libero arbitrio non c’entra per niente» (pag. 21).
Per non cadere nel fumettistico, Dumas traccia il profilo culturale, comportamentale e mentale del brigante prima e del camorrista poi, seguendo due percorsi distinti. Il primo incentrato su alcune figure dei briganti meridionali negli anni a cavallo tra Settecento e Ottocento e in cui spiccano le figure di Fra Diavolo, Francatrippa, ma anche su alcune figure di militari napoleonici come il colonnello Manhès, una figura ascetica che Dumas non manca di descrivere con fascino e stupore rievocando la sua scomunica al paese di Serra (pag. 121 e seguenti), un paese collocato in Aspromonte lungo un territorio in cui il brigantaggio era radicato e che ancora oggi ha il nome di Sentiero del Brigante. Ne emerge una figura popolare, talora generoso, comunque legata a un territorio, di cui si sente garante. Aspetto questo che, in anni più vicini a noi, lo storico Hobsbawm nei suoi studi sul banditismo sociale – I banditi, Einaudi – non ha mancato di richiamare, e che Dumas coglie con acutezza comprendendo come il brigante non sia solo un bandito, ma rispecchi i malesseri di una società spesso abbandonata dal potere legittimo, comunque da quello non garantita, né protetta.
Il secondo percorso invece, è rivolto specificamente al fenomeno della camorra nei confronti del quale non manca di rilevare alcuni tratti. La camorra, scrive, «è una società in accomandita per godere del lavoro altrui a vantaggio della pigrizia». E i camorristi «sono percettori di tasse imposte con la forza, con la minaccia, la paura» (pag. 165) – ma essa è anche la dimostrazione della sua capacità di “governare” un territorio. Di essere cioè “classe di Governo” e dunque di saper tenere nelle proprie mani tutte le articolazioni del potere, locale e territoriale (l’amministrazione a suo modo della giustizia, come delle funzioni di ordine pubblico e di polizia). Allo stesso tempo classe in grado di rappresentare tutto l’articolato sociale e, in virtù della sua capacità di controllo e della sua diffusione capillare, di consentire che esso funzioni (pagg. 170-175).
Ne discende che la camorra, come il brigantaggio, non si contengono, né tanto meno si vincono, in forza di un sistema di polizia o di una capacità repressiva, ma solo intaccando radicalmente la condizione della miseria. Essa, infatti, è quella condizione che produce la camorra come desiderio di status e a cui la scelta verso il brigantaggio («l’andare in montagna», scrive Dumas) può apparire talora come una risposta al torto subito, paradossalmente ripetendo quegli stessi meccanismi cui inizialmente ci si ribella (pag. 301). Per estirpare questa perversa spirale, scrive Dumas nel 1862 (sono le pagine con cui si chiude l’antologia) occorrerebbe distribuire la terra ai contadini poveri, garantendo loro l’inalienabilità della terra e la non sequestrabilità del raccolto. In breve distruggere le fondamenta di quel potere dispotico e della miseria che lo legittima (pagg. 301-303).
Nel 1863 Dumas lascia Napoli. Un anno dopo (1864) arriva a Napoli, Michail Bakunin. La miseria che Dumas aveva denunciato invocando un’iniziativa di riforme dall’alto, come risposta alla disperazione che portava alla scelta del brigante, trapassa in un progetto politico che Bakunin riassume in Stato e Anarchia (Feltrinelli, pag. 43 e seguenti) e in cui sottolinea l’importanza di un’organizzazione politica, di un progetto per un attore sociale e della lotta per l’affermazione della sua autonomia. Quelle pagine nascono da molte note che Bakunin scrive in quegli anni – una scelta fatta da Elèuthera che manderà in libreria a marzo a cura di Lorenzo Pezzica con il titolo Viaggio in Italia. La miseria del Mezzogiorno e la disperazione delle plebi meridionali su cui Bakunin si dilunga accantonano definitivamente l’ultimo residuo di paternalismo presente in Dumas e segnano un passaggio di testimone come Nello Rosselli nel suo Mazzini e Bakunin (Einaudi) non manca di rilevare.