il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2013
Verdi, un padrone spietato
Stiamo festeggiando i 200 compleanni di Giuseppe Verdi, autore più rappresentato dopo Shakespeare. Fuori dalla musica lo si ricorda come un santo: occhi trasparenti che osservano il popolo degli innamorati. Padrone dal cuore tenero, benefattore dal cuore largo, marito affettuoso, amante discreto, agricoltore d’avanguardia, patriota senza paura, politico di ragionata virtù, ricco ma modesto nelle abitudini. Ma un signore tanto perbene avrebbe saputo strappare al pianoforte sinfonie che commuovono i secoli? Il dubbio della doppia realtà, schizofrenia mascherata nel teatro del teatro, resta sepolto negli archivi. La benevolenza degli agiografi non fa tremare i cuori. Rallegrarli sì: valzerini e piccole romanze. Per fortuna il Verdi nascosto non somiglia ai profili benevoli che attraversano il tempo.
Era un latifondista non diverso dai padroni che gli stavano attorno. Contabile scrupoloso, vigilava sul lavoro dei dipendenti con la pignoleria di un guardiano pignolo. Quando parte per Mosca (1861), nella borsa lo spartito de La Forza del destino, ordina all’amministratore di chiudere le braccia contadine “al loro posto nei poderi fino al suo ritorno. Chi esce non rientra più”.
NEL 1884 IL MINISTRO Jacini indaga sullo “stato dell’agricoltura” e delega l’avvocato Francesco Barbuti a riferire sulla provincia di Parma. Barbuti attraversa le proprietà di Verdi. “I braccianti scaricano sacchi di farina cattiva: è il salario per il lavoro. Odore di marcio. Melica fermentata. Impastano il pane: non lo dimenticherò mai. Sembrava fuligine”. Anche il professor Lombroso rifà gli stessi passi, ricerca sulla follia per pellagra da scarsa alimentazione. Dopo aver dedicato la vita a tracciare il profilo dei criminali per nascita (misurando fronti, labbra, naso) si incuriosisce delle concomitanze sociali che possono accelerare la pazzia. Fame e malnutrizione. Visita i poderi del maestro e annota felice: “Ho la fortuna di poter esaminare il più grande laboratorio d’Europa della degenerazione umana”.
Maestro attento agli investimenti. Nel 1874 paga 13.391 lire di imposte dirette. Il censo di chi può candidarsi al senato prevedeva la rendita minima di 3 mila lire l’anno, limite quattro volte più piccolo di una piccola parte delle proprietà. Le sue 21 mila biolche di terra nel 1874 rendono “appena” tre milioni e il latifondo si allarga quando vanno all’asta i beni requisiti alla chiesa: compra case e poderi con dentro chiese e cimiteri.
Con saggezza e una certa ironia calcola cosa può guadagnare dalle composizioni che gli vengono richieste: quanto con l’Aida (che inaugura il Canale di Suez), quanto con La Forza del destino, ambizione dello zar di ospitarlo a Mosca. L’attenzione agli incassi è il tarlo che lo impegna nella battaglia per il riconoscimento dei diritti d’autore allora disconosciuti e per l’integrità delle opere che andavano in scena. Le censure dei regni e ducati d’Italia sostituivano brani ritenuti “pericolosi per i sentimenti possibili da accendere nella plebe” con romanze di altri compositori smontando l’impianto narrativo. E Verdi si infuria. Vince la lunga battaglia solo alla fine del secolo.
In casa che uomo era? Attento alle spese. Le rendite della moglie e dei genitori venivano rigidamente separate dal suo patrimonio. Diffida pubblicamente il padre ad usare il suo nome per ottenere crediti. Nel gioco delle contraddizioni la generosità è l’altra faccia del contadino attento al denaro. Decide le opere di bene e le decide da solo nella speranza di proiettare nel tempo la generosità di un cuore d’oro: costruzione e proprietà all’ospedale di Villanova d’ Arda, costruzione e redditi garantiti alla Casa di Riposo per musicisti di Milano. Come sempre non sbaglia: lo si ricorda anche così. La politica l’annoiava. Nel 1874 diventa senatore, ma “con vergogna e rincrescimento” trascura le assemblee importanti malgrado la convocazione obbligatoria di chi guidava la destra alla quale apparteneva. Alla fine lascia ma attento a non tagliare i rapporti col potere. Appoggia l’amico e avvocato Francesco Piroli consigliere di ogni affare: anche lui di Busseto con la gloria di aver sfidato il duca Carlo di Borbone proponendo l’adesione al regno del Piemonte. Nel 1874: “Un gruppo di amici” (è l’annuncio del tempo) compra la Gazzetta di Parma quotidiano della corte ormai in esilio. Soldi di Verdi. Direttore Parmenio Bettoli in partenza per Milano: è nato il Corriere della Sera e Bettoli ne diventa critico musicale. Redattore Pellegrino Molossi figlio di Lorenzo Molossi segretario della società filarmonica. “Con artifizi che escludono l’eleganza” la Gazzetta ogni giorno batte disciplinatamente il chiodo contro il candidato della sinistra la cui campagna viene considerata “denigratoria”: Ronchey, napoletano, antenato di Alberto Ronchey. Piroli non ce la fa e il gruppo di amici regala il giornale a Molossi: comincia la dinastia di una famiglia di direttori.
CON LA STESSA autorità il maestro amministra gli affetti familiari. Margherita Barezzi, moglie che lo ha accompagnato alla conquista di Milano, muore con i bambini piccoli: meningite fulminante. Solitudine drammatica che Verdi interrompe quando incontra Giuseppina Strepponi: canta nel suo Oberto e nel Nabucco. Lentamente diventa amore anche se l’equilibrio di Verdi ne è un po’ sconvolto. Perché Giuseppina ha tre figli, padri un impresario teatrale e un tenore. Nel contratto di matrimonio il maestro che canta lo strazio delle madri ai quali strappano i bambini, le impone di non rivedere i ragazzi per tutta la vita. Invecchiando comincia a pensare a chi lasciare il ben di dio. Adotta Filomena figlia di un cugino povero. La ribattezza Maria, la iscrive al Collegio delle Signorine, Torino della nobiltà. Ma Filomena-Maria si innamora di un contadino compagno d’infanzia. Verdi se ne accorge e il giovanotto sparisce. Nessuno l’ha più visto e un poliziotto ex borbonico indaga. La dà in moglie ad Alberto Carrara figlio del suo notaio. Con regio decreto il cognome cambia in Carrara Verdi. Ecco il mistero di un delitto che le cronache nascondono ma che i verbali dei tribunali conservano. Col fucile da caccia carico il figlio di Maria “incespica in casa”: parte il colpo che uccide una giovane cameriera incinta. Il ragazzo corre dal nonno “per farsi consolare” e il tribunale attribuisce la morte alla sbadatezza. Proibisce per un anno a Carrara l’uso del fucile ma un altro regio decreto pochi giorni dopo glielo restituisce. Le abitudini italiane non cambiano mai.