Corriere della Sera, 18 giugno 2012
Il brigantaggio comincia nel Cinquecento
Preparavano i bagagli e salutavano le persone care. Ma prima di mettersi in viaggio non si dimenticavano di fare testamento. Nel Settecento e nell’Ottocento succedeva in tutta Italia, da Como alla Calabria. Lo raccontano testimoni del calibro dell’intellettuale campano Giuseppe Maria Galanti o dello scienziato e patriota lecchese Antonio Stoppani, a dimostrazione dei rischi ai quali si andava incontro allora per le strade italiane. Che non pullulavano certo di Tir, né di auto guidate il sabato sera da giovani ubriachi appena usciti dalla discoteca. Ma di briganti. L’Italia ne era piena. Ne è sempre stata piena, finché quello che viene definito il «fenomeno» del brigantaggio non fu stroncato dallo Stato unitario.
La formidabile galleria tratteggiata da Enzo Ciconte nel suo volume Banditi e briganti. Rivolta continua dal Cinquecento all’Ottocento, da poco in libreria per i tipi di Rubbettino, si chiude con il bandito Giuseppe Musolino, detto il «re dell’Aspromonte». Figura a suo modo epica e di fortissima connotazione popolare, al punto da ispirare Giovanni Pascoli per un’ode rimasta poi incompiuta, muore ottantenne nel 1956: dopo quarantacinque anni di carcere e dieci di manicomio. Difficile dire se fosse davvero l’ultimo dei briganti, ma è certo che con lui scompare un mondo che per secoli ha percorso una strada parallela a quella della storia d’Italia. Un mondo fatto di violenza, coraggio, viltà, lealtà, tradimento, avidità, corruzione, egoismo, solidarietà. E le cui origini sono del tutto sconosciute. Ma non le ragioni per cui la penisola italiana ne diventa il terreno fertile. Il fatto è che a partire dal Cinquecento l’Italia è attraversata da scontri sanguinosi, senza soluzione di continuità. Ed è seguendo il filo rosso del sangue e del denaro che il brigantaggio prospera, fino a diventare, nello Stato unitario, un vero e proprio contropotere.
«Nel 1559», racconta Ciconte, «la fine delle guerre d’Italia lascia sul lastrico un numero enorme di persone, abili a combattere, ma che non sono più abituate al lavoro dei campi. Molti di costoro forniscono schiere e schiere di fuorilegge radunati in bande. Non c’è da stupirsi che anche nel Veneto del Seicento molti delinquenti siano soldati, costretti a quella scelta per integrare la misera paga giornaliera». Ma se il fenomeno è diffuso in tutta Italia, è al Sud che tocca l’apice. «La Calabria del Cinquecento produce tanti briganti perché è in quel secolo che la condizione di vita dei contadini e dei diseredati spesse volte raggiunge punte di insopportabilità tali da spingere le popolazioni a scoppi irrefrenabili d’ira violenta contro i baroni e i signori locali». Alle rivolte spesso si univano anche i frati. Una situazione nella quale, ricorda Ciconte, «giganteggia la figura di Tommaso Campanella», che tuttavia non riuscirà a «instaurare una repubblica comunista e teocratica come quella immaginata nella Città del Sole».
Alcuni briganti sono abilissimi nell’utilizzare a proprio vantaggio i contrasti fra i poteri locali. È il caso dell’abruzzese Marco Sciarra, detto «Flagellum Dei»: nemico pubblico numero uno per lo Stato pontificio; protettissimo dalla Repubblica di Venezia. Né mancano i banditi che si fanno direttamente braccio armato dei potenti e dei nobili, qual è, per esempio, Francesco Marocco detto Tartaglia, ciociaro di Sora, al servizio di Paolo Giordano Orsini. Oppure Pietro Mancino, una specie di Francis Drake pugliese, che per conto dei francesi e del Papa è la spina nel fianco del Regno di Napoli.
Va da sé che per stroncare il brigantaggio non si esitasse a ricorrere a ogni mezzo. Ivi incluse le atrocità. «Di questi tempi è frequente», scrive Ciconte, «trovare agli angoli delle strade i cadaveri, o pezzi di essi, dei banditi orrendamente sfregiati e tagliati in quarti; è un fatto consueto, fa parte del panorama abituale perché tutti sono convinti che l’orribile spettacolo possa essere d’esempio». Un macabro rituale che si ripeterà per secoli, fino alla vigilia dell’Italia unita, nello Stato pontificio.
«Staccato il cadavere, gli spiccai innanzitutto la testa dal busto e infilzata sulla punta d’una lancia la rizzai sulla sommità del patibolo. Quindi con un’accetta gli spaccai il petto e l’addome, divisi il corpo in quattro parti, con franchezza e precisione, come avrebbe potuto fare il più esperto macellaio, li appesi in mostra intorno al patibolo». L’autore di questa sconvolgente descrizione altri non è che Giovanni Battista Bugatti, meglio noto come Mastro Titta: il boia del Papa che per ben 68 anni, dal 1796 al 1864, eseguì le sentenze capitali emesse dal tribunale dello Stato della Chiesa. Aveva 17 anni quando uccise il suo primo uomo, 85 quando chiuse una carriera durante la quale per ben 77 volte aveva squartato un cadavere: fosse quello di un brigante o di un semplice furfante.
Nemmeno le pene più atroci, come la tortura, né le leggi più infami avrebbero tuttavia spezzato il legame, inevitabile, fra briganti e alcuni strati popolari. Ci sono perfino momenti in cui le bande si fanno esercito «di liberazione». In alcune zone del Sud, come l’Abruzzo, i briganti combattono con i sanfedisti per restituire ai Borbone il regno che gli è stato sottratto dai rivoluzionari francesi. Tragica premessa per quella dolorosa pagina storica derubricata per lunghi decenni sotto la voce «repressione del brigantaggio», ma che in realtà ha assunto nel Mezzogiorno dopo il 1861 i contorni di una vera e propria guerra civile.
Nella ribellione al governo giacobino di Gioacchino Murat emergono banditi leggendari, che sono condottieri in piena regola: come Michele Pezza da Itri, detto «Fra Diavolo». Ciconte ci racconta che, con il momentaneo ritorno dei Borbone a Napoli, «mantiene il grado di colonnello, ottiene una pensione ed è nominato Duca di Cassano». Poi tornano i francesi e lo impiccano. Uno dei tanti. «Murat individua nel brigantaggio l’arma più importante usata da inglesi e borbonici contro il suo regno e decide di non accettare più quella situazione», spiega l’autore. Dà quindi una terrificante carta bianca al suo generale Charles-Antoine Manhès: «È una guerra di sterminio che voglio fare a questi miserabili». Ed è quello che accade.
Il problema si ripeterà quando arriverà l’esercito piemontese. Ma «non c’è bisogno dei soldi dei Borbone per accendere la rivolta», commenta Ciconte. «Molti li accendono i galantuomini che con la coccarda tricolore s’insediano nei posti di potere e comandano più di prima… Altri li accende la chiamata alle armi delle quattro classi più giovani e poi una successiva chiamata, per il solo Mezzogiorno, di 36 mila uomini con una ferma che ha durata quinquennale… I giovani meridionali non hanno alcuna intenzione di vestire la divisa del re piemontese. Molti per non fare il soldato si fanno briganti… I boschi pullulano d’altri giovani. Sono i soldati borbonici che rientrano nelle loro case… Gli ufficiali trovano un posto nel nuovo esercito, i soldati no… Ad essi s’aggiungono i soldati dell’esercito meridionale garibaldino che viene sciolto. Molti di loro diventeranno provetti capibanda». Ma senza subire, a quanto pare, il fascino della via mafiosa al crimine.
«Tra brigantaggio, mafia, camorra e ’ndrangheta», afferma Ciconte, «non c’è alcun nesso. In Calabria il brigantaggio non ha interessato l’attuale provincia di Reggio Calabria. In Abruzzo, Puglia e Basilicata ci sono stati briganti, non mafiosi. In Campania il brigantaggio interessa le province di Terra di Lavoro e dei Principati e non la città di Napoli, che è il cuore della camorra». In Calabria «lo scenario delle gesta brigantesche è identico a quello delle lotte contadine. Si può arrivare a dire che… briganti e moti contadini hanno scacciato da quelle terre la ’ndrangheta, ne hanno impedito la formazione».