Corriere della Sera, 13 novembre 2010
IL MEZZOGIORNO RAPINATO? UNA STORIA DA CORREGGERE –
Dovevano essere proprio dei gran bastardi, quei teppisti che si sono portati via i maestosi gradini di marmo sfasciando a martellate la scalinata della Real tenuta di Carditello appena restaurata. E a martellate vorresti prendere tutti coloro che nei decenni hanno lasciato che questa splendida tenuta agricola dei Borboni a nord di Napoli fosse abbandonata all’ incuria, agli sterpi, allo stupro quotidiano. Era un’ azienda modello, un tempo. Le migliori bufale e i migliori cavalli delle Due Sicilie venivano allevati qui. L’ agricoltura era all’ avanguardia, i terreni fertilissimi, grazie a un sistema di drenaggio avveniristico: i Regi Lagni, che convogliavano verso il litorale domizio le acque di ristagno dell’ agro casertano. Dalle terrazze si dominava una campagna meravigliosa. Oggi l’ occhio ti cade sulle montagne di immondizia pressata in ecoballe. Catapecchie senza intonaco. Baracche. Rigagnoli puzzolenti di liquami raccolti dalle discariche abusive. Come quella gestita a un chilometro da qui dalla Camorra. L’ avevano in parte restaurata, la Real tenuta di Carditello. Avevano speso 5 milioni di euro. Non sono bastati. Il proprietario, l’ Ente di bonifica Basso Volturno, non ha un quattrino. E il «gioiello» agreste borbonico è rimasto in balia di ladri e teppisti. Non una guardia. Non una targa. Colpa della «piemontesizzazione»? Dura da sostenere. Tanto più che, come abbiamo raccontato, la tenuta vercellese del Cavour a Leri non è messa meglio. Destino amaro, che accomuna e unifica l’ Italia. Nel degrado. Eppure anche Carditello viene caricata dai neoborbonici nel conto del Risorgimento. Della «spoliazione» del mitico Sud opulento. Quello rimpianto in ridicole cartoline come quella con Garibaldi che rivendica di avere «trasformato il Sud da terza potenza mondiale in povera colonia italiana». Un dibattito che negli ultimi anni si è fatto incandescente. Ma è davvero così? Pino Aprile, nel libro Terroni, cita l’ esempio di Mongiana, sulle Serre calabresi: «Il più ricco distretto minerario e siderurgico del Regno delle Due Sicilie e dell’ Italia intera. Fu soppresso dal governo unitario, per un grave difetto strutturale: era nel posto sbagliato, nel Meridione». Nella Controstoria dell’ Unità d’ Italia, Gigi Di Fiore conferma. E cita ad esempio le «consistenti risorse finanziarie» che presero la via del Nord dopo la requisizione e la vendita dei beni ecclesiastici «si trattava di 600 milioni (...) che solo in minima parte furono reinvestiti nell’ area geografica di provenienza. Esempio illuminante i lavori ferroviari: dal 1863 al 1898, si spesero 1.400.000.000 nell’ Italia centrosettentrionale; solo 750 milioni in quella meridionale e insulare». La questione, tuttavia, è controversa. Scrive lo stesso Di Fiore che «il mercato libero si era rivelato una condanna per l’ industria meridionale». Una tesi già sviluppata da Indro Montanelli: «È facile capire cosa avvenne da noi, dopo il 1860. Arcaiche e ciabattone, le poche industrie meridionali producevano a costi molto alti. Quando, con la proclamazione dell’ unità, caddero le tariffe doganali del papa e dei Borboni che le proteggevano, il mercato fu invaso dai prodotti di lombardi, superiori di qualità e inferiori di prezzo». Davvero il Mezzogiorno sarebbe stato ricco e felice se fosse rimasto chiuso nell’ orto autarchico estraneo al mercato? Ed erano davvero il Nord e il Sud, un secolo e mezzo fa, «quasi alla pari sotto il profilo economico»? Nel saggio Il prodotto delle regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004), Vittorio Daniele e Paolo Malanima sostengono che la teoria delle due Italie già divise nel 1861 da un divario del 20% a svantaggio del Sud è una balla. Dicono che nel 1861 l’ urbanizzazione del Mezzogiorno era il doppio di quella del Centro Nord: il 35,7% contro il 16,2%. Aggiungono che nel 1891, trent’ anni dopo l’ unità, le regioni meridionali vantavano un prodotto procapite in agricoltura superiore del 10% a quello del Settentrione, dove il prodotto industriale, al contrario, nel 1871 risultava del 15% maggiore rispetto al Meridione. Conclusione: «All’ unità d’ Italia non esisteva una reale differenza». Certo, gli autori concordano sul fatto che delle diversità c’ erano. Una per tutte, l’ analfabetismo. Secondo la Svimez, il centro studi presieduto da Adriano Giannola, le persone con più di sei anni che non sapevano leggere né scrivere erano in Piemonte il 42%, in Lombardia il 45 e nel Veneto quasi il 65. Ma in Campania erano l’ 80%, in Puglia e Sicilia l’ 85, in Calabria l’ 87, in Basilicata l’ 88. Alla faccia dei mitici Borboni: il doppio che in Piemonte. Per non dire delle infrastrutture. Nel 1861 il Nord aveva già 1.801 chilometri di binari, le Due Sicilie 184. Dieci volte di meno. Proporzione confermata dal rapporto fra ferrovia e territorio. Nel Centro Nord ce n’ erano 14,5 chilometri ogni 1.000 chilometri quadrati, nel regno borbonico uno e mezzo. Una sproporzione schiacciante, oggi ridotta a 59 contro 46. Certo, nel 1839 la prima ferrovia Napoli-Portici era stata borbonica. Ma era solo un «giocattolo» del Re. Quanto al resto del reame, rileggiamo La Basilicata di Enrico Pani Rossi del 1868: «Gli oli del Materano invano tentano alimentare il commercio sulla costa Adriatica; alla quale non è dato a accostarli (...) in mancanza di vie. Li marmi, di cui in Latronico e Castelsaraceno v’ hanno cave di bella vena, han da restare ove la creazione li pose (...) né havvi modo se n’ escano, senza la virtù del volo». Risultato: «S’ hanno in Basilicata 869 lire di ricchezza mobile per ogni chilometro quadro (...) onde la media ricchezza mobile in tutta la penisola è poi valutata di 4.515 lire ogni chilometro quadro, cioè sei volte più che non abbia la Basilicata». Sei volte! Un divario spaventoso. Solo parzialmente ridotto. Anzi, da decenni è tornato ad allargarsi. Secondo la Svimez il Pil medio meridionale era nel 1951 pari al 65,3% di quello centrosettentrionale: nel 2009 è sceso al 58,8. Cosa è accaduto? La crescita economica del Sud, negli anni dal 1891 alla Grande guerra, scrivono Daniele e Malanima, fu sensibilmente più bassa: 1,1% l’ anno contro l’ 1,8 del Centro Nord. Col risultato che il pil procapite meridionale passò dal 93 all’ 80% di quello nazionale. Ma il peggio venne dopo. Il fascismo, a dispetto delle chiacchere del Duce, diede il colpo di grazia: «Nel ventennio il divario passa dal 26 al 44%». Un abisso. Solo parzialmente recuperato, nella fase iniziale, dalla Cassa del Mezzogiorno. Rimonta durata una ventina d’ anni fino al 1973 del primo choc petrolifero. Da allora, di nuovo giù a precipizio. Fino al 1995, quando il pil procapite meridionale si attestò poco al di sopra del 56% del Centro Nord. Una sconfitta storica. Nonostante i travasi «speciali». La spesa «aggiuntiva» per il Sud dal 1951 al 2007, calcolata in valuta d’ oggi, sarebbe stata di 382 miliardi e 510 milioni di euro. Cioè 6 miliardi 710 milioni in media l’ anno. Per capirci, il costo di un ponte sullo Stretto. Troppi soldi regalati col risultato di «aggravare la pigrizia meridionale» come sostiene una vulgata padana? Mah... Per riportare al passo la Ddr dopo il 1989, la Germania, di euro, ne ha tirati fuori 1.500 miliardi: 75 l’ anno. Dieci volte ciò che annualmente abbiamo sborsato noi. Tuttavia, scrivono nel saggio Ma il cielo è sempre più su Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano, «è il confronto con le altre aree europee in ritardo di sviluppo» a risultare disastroso: nella graduatoria delle 208 regioni continentali più arretrate, quelle del Sud Italia si situavano nel 1995 tra il 112° e il 192° posto. Dieci anni dopo erano scivolate tra il 165°e il 200°. Dal 1999 al 2005 il Pil procapite delle aree dell’ «obiettivo 1» (le più arretrate) è cresciuto del 3%, in Italia dello 0,6%. Cinque volte di meno. Tutta colpa della «rapina» iniziale del Nord? Come ricorda Livio Ghersi, vale la pena di rileggere il meridionalista Giustino Fortunato. Il quale invitava «a diffidare da chi agiti strumentalmente la questione meridionale, «come un’ acre querimonia di dare e di avere, di profitti e di perdite, che faccia capo ad una febbrile gara di appetiti intorno al bilancio della spesa».
Sergio Rizzo Gian Antonio Stella