il Giornale, 26 ottobre 2012
Era meglio fondare gli Stati Uniti d’Italia
Scrutando il Paese d’origine dall’orlo del precipizio, Vito Tanzi è giunto a una conclusione: le cose sarebbero andate in tutt’altro modo se i padri risorgimentali avessero fatto gli Stati Uniti d’Italia, anziché l’Italia unita. È la teoria che l’economista espone in Italica, il suo nuovo libro uscito con un sottotitolo, Costi e conseguenze dell’unificazione d’Italia, che rafforza la già eloquente immagine di copertina: uno Stivale ricoperto d’oro appeso per il piede, la Calabria, a un cappio. Nessun intento antimeridionalista, se non altro perché il professor Tanzi è nato nel 1935 a Mola di Bari.
Forse l’autore non poteva giungere a una conclusione diversa, visto che dal 1956 vive negli Stati Uniti d’America ed è innamorato della sua patria adottiva. Ma le tesi esposte in Italica non hanno alcunché di passionale. Nelle 296 pagine a parlare è solo il rigore scientifico del laureato in economia alla Harvard University che per vent’anni, dal 1981 al 2000, è stato direttore del dipartimento di finanza pubblica del Fondo monetario internazionale, la più alta carica non politica del Fmi; del docente che per una vita ha insegnato alla George Washington University e all’American University; del sottosegretario all’Economia e alle Finanze chiamato a far parte dal 2001 al 2003 del secondo governo Berlusconi; del consulente che ha prestato il proprio ingegno alla Banca mondiale, alle Nazioni Unite, alla Banca centrale europea.
Tanzi approdò negli Usa da emigrante al seguito del padre («per colpa della guerra d’Etiopia aveva perso il cantiere navale aperto dai suoi avi a Mola di Bari»). Fu assunto dal Fmi nel 1974 come capo della divisione tax. Per oltre un quarto di secolo ha seguito da vicino tutti gli aspetti di finanza pubblica – imposte, debiti, spese, welfare, pensioni – dei 186 Stati aderenti al Fondo attualmente diretto da Christine Lagarde. Si devono a lui le ricette che hanno riformato il sistema fiscale in vari Paesi, dall’Argentina al Marocco. Oggi vive a Bethesda, a 10 chilometri dalla Casa Bianca. Quando non lo chiamano a tenere conferenze in Australia o in India, fa sentire la propria voce attraverso i libri e gli editoriali, pubblicati dal Financial Times, da Italia Oggi e dal Foglio.
Come mai all’improvviso s’è appassionato al tema dei costi dell’unificazione d’Italia?
«Pura curiosità intellettuale. Volevo capire in che modo i sette Stati italiani esistiti prima del 1861, che avevano leggi e sistemi economici e tributari assai differenti, fossero riusciti da un giorno all’altro a trasformarsi in uno Stato unitario. Ho cominciato a trascorrere ore e ore nelle biblioteche, ho speso un patrimonio in libri vecchi e nuovi, sono andato persino a Londra a visitare la Library and museum of freemasonry per scovare informazioni sul ruolo della massoneria inglese nel processo di unificazione. Alla fine mi sono reso conto che i problemi odierni dell’Unione europea sono identici a quelli dell’Italia di 150 anni fa: troppe nazioni con leggi diverse, regolamenti diversi, tasse diverse, dogane diverse, lingue diverse, messe insieme a tavolino».
Italica è un’edizione scientifica di Terroni, il best seller del suo conterraneo Pino Aprile?
«No, anche se ne condivido le conclusioni: nell’unificazione il Meridione ci ha rimesso. Per evitare il contenzioso Nord-Sud che s’è trascinato fino ai nostri giorni, sarebbe bastato fare gli Stati Uniti d’Italia anziché il Regno d’Italia. In fin dei conti l’avrebbero preferito anche Cavour, Metternich, Napoleone III e Francesco Ferrara, che era il più grande economista dell’epoca: una federazione dotata di un piccolo governo centrale che si occupasse solo delle relazioni con i Paesi stranieri e di pochissime altre funzioni. Lo Stato centralizzato doveva essere la destinazione finale e non il punto di partenza. Ferrara già in un articolo scritto nel 1850 aveva profetizzato che il Piemonte non sarebbe mai riuscito ad assimilare la Sardegna, così come la Gran Bretagna non era riuscita ad assimilare l’Irlanda».
Il Regno di Sardegna evitò il fallimento trasferendo i suoi debiti all’Italia, cosicché i problemi finanziari dei piemontesi diventarono quelli degli italiani.
«Nel 1861, all’atto dell’unificazione, il 57% o forse il 64% del debito pubblico totale dell’Italia era di origini sabaude, mentre l’incidenza del passivo che derivava dal Regno delle Due Sicilie era insignificante. A differenza dei Savoia, i Borbone avevano l’avversione per i bilanci in rosso e le tasse. Il deficit italiano, oggi stratosferico, è cominciato allora. Dal 1861 al 1896 il Regno d’Italia già creava un milione di debito pubblico al giorno, nelle lire di quel periodo».
Lei scrive che la capitale degli Stati Uniti d’Italia doveva essere fissata a Napoli. Perché?
«Era la città più importante, aveva più del doppio della popolazione di qualsiasi altro centro abitato, veniva considerata la terza capitale d’Europa dopo Parigi e Londra. Disponeva già di tutte le infrastrutture per ospitare un governo centrale. Ora lei pensi invece alle uscite folli sopportate per trasferire la capitale d’Italia prima da Torino a Firenze e poi da Firenze a Roma. Ha idea di quale sia stata la spesa per edificare nella Città eterna il solo ministero delle Finanze? Io ci ho lavorato per due anni, è il palazzo più grande di Roma, dev’essere costato un occhio della testa».
Siamo ancora in tempo per gli Stati Uniti d’Italia oppure il federalismo è solo un’utopia?
«Nei 27 anni in cui ho lavorato al Fmi mi sono occupato di molti Paesi dove vige il federalismo, dalla Russia al Sudafrica, e confesso di non essere mai stato entusiasta di questo assetto politico-istituzionale. Oggi mi rendo conto che, dove c’è un governo centrale inceppato, il federalismo rappresenta l’unica soluzione. A patto che poi le Regioni non trasferiscano i loro debiti allo Stato. Se negli Usa la California va in malora, non la salva nessuno».
Come mai da quattro anni siamo impaniati in questa crisi economica planetaria?
«Tutto risale alla fine della prima guerra mondiale e alla Grande depressione del 1929, quando abbiamo cominciato a creare gli Stati sociali e a finanziarli prima con l’aumento delle tasse e poi con i debiti. Ci aggiunga le recenti bolle speculative che hanno distorto l’economia reale. In Europa il livello impositivo è al massimo, non può andare oltre, ma la spesa pubblica continua ad aumentare. Non resta che ricorrere a una dieta».
Che propone? Di togliere l’assistenza sanitaria ai poveri e abolire la cassa integrazione?
«Il guaio del welfare è che diventa con l’andare degli anni sempre più generoso e sempre meno controllato. Nessuno vuol togliere l’assegno di invalidità ai ciechi. Ma oggi, persino negli Stati Uniti, si concede un’indennità anche per il gomito del tennista. In Italia c’è poi un problema di architettura istituzionale. Avete 8.092 Comuni, tre volte di più che negli Usa, e un numero di parlamentari quasi doppio rispetto a quelli americani. Dovete decidervi: o abolite le Province o abolite le Regioni. Solo le riforme strutturali fanno alzare il Pil di parecchi punti».
Lei sostiene che Mario Monti si limita invece alle manovre, all’aumento delle tasse.
«Se non metti mano all’architettura del sistema, pressione fiscale e spending review servono a ben poco. Lo scrissi fin dal 1989 in un libro che fu curato proprio da Monti per l’Università Bocconi».
Mi indichi la riforma che ritiene prioritaria per l’Italia.
«Be’, non si può certo dire che il modo in cui il governo Monti ha riformato il mercato del lavoro sia stato efficace. Mi spiego con due esempi personali. Mio figlio Giancarlo, 39 anni, laureato in microbiologia all’University of Pennsylvania, aveva un buonissimo impiego in una società di consulenze mediche. Mi ha telefonato: “Mi sono licenziato, ero stufo del mio lavoro”. Gli ho dato del pazzo. Due settimane dopo era già direttore associato alla Biogen Idec, una delle compagnie farmaceutiche più importanti al mondo. Mio cognato June lavorava per un’impresa informatica di Washington fornitrice del Pentagono. Un giorno alle 15 il suo capo lo ha convocato: “Volevo dirti che alle 17 la nostra azienda cessa l’attività”. Alle 18 s’era già trovato un altro posto, dove si diverte e guadagna il 20% in più».
Tragga le conclusioni.
«Un mercato del lavoro flessibile crea nuova occupazione. Ma in Italia una riforma che preveda l’abolizione dell’illicenziabilità oggi garantita per legge anche a incapaci e fannulloni è impensabile. I sindacati insorgerebbero».
Ha qualche altra riforma inattuabile da suggerirci?
«Quella della burocrazia. Lei deve credermi: ho venduto un terreno a Washington semplicemente presentandomi davanti a un avvocato, senza mappe catastali, solo con la mia carta d’identità. Ho firmato un foglio e l’acquirente mi ha consegnato l’assegno. In Italia avrei dovuto pagare un notaio perché certificasse che quel terreno era mio. Lo sapevo da me che era mio! Idem per l’allargamento della casa. Ho cominciato i lavori senza dir niente a nessuno: solo il preventivo dei costi e la corresponsione finale dei 400.000 dollari all’impresa edile. Vivo negli Usa da 56 anni e non ho mai messo piede in un municipio. Ogni volta che torno in vacanza a Mola di Bari, nella casa che ho ereditato dai genitori, devo passare delle mezze giornate negli uffici pubblici. L’Agenzia delle entrate mi ha ingiunto il pagamento di una cifra astronomica: ignorava che, da sottosegretario all’Economia, avevo già pagato quelle tasse».
Quale dovrebbe essere l’aliquota fiscale massima in Italia?
«I Beatles nel 1966 cantavano in Taxman: “Lasciati dire come andrà / 1 per te, 19 per me / perché sono l’uomo delle tasse”, infatti il governo laburista di Harold Wilson aveva innalzato al 95% l’imposta marginale. Che arrivava al 70% anche negli Usa quando Ronald Reagan diventò presidente. Fu lui, Reagan, a portarla al 28%. È ciò che pago oggi, su un reddito buono ma non eccezionale, con l’aggiunta di un altro 5% allo Stato del Maryland e di un 3% alla contea di Montgomery. Ritengo che un’aliquota massima del 30%, in casi eccezionali fino al 40%, sia ragionevole. E mi scoccia molto che Mitt Romney paghi solo il 13%, grazie alle generose deduzioni di cui gode su plusvalenze e dividendi».
Alle presidenziali chi vincerà?
«Barack Obama, tutto sommato».
Una previsione o un auspicio?
«Entrambe le cose. Obama è il diavolo che già conosci. Anche se mi preoccupa la sua politica economica e fiscale».
A proposito di urne: il premier Monti non dovrebbe sottoporsi al giudizio popolare per ambire alla guida del governo anche dopo le elezioni del 2013?
«Lo conosco bene, ho molto rispetto per lui. Però non v’è dubbio che, se vuole continuare a stare in politica anche dopo la fine del governo tecnico d’emergenza, è obbligato a presentarsi agli elettori».
Non ha l’impressione che tutti attribuiscano la crisi agli eventi, anziché agli uomini? Il tasso di eticità è sceso sotto lo zero. A me pare un’emergenza morale, più che economica.
«Sono sicuramente d’accordo con lei. È anche una crisi del sistema democratico, perché molte delle storture di cui ci lamentiamo sono approvate dai parlamenti, ormai in mano ai lobbisti. Politici e manager hanno un unico obiettivo: guadagnare sempre di più. Altro che il bene pubblico!».