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 2010  febbraio 27 Sabato calendario

Dalla presa di Civitella al regno di Remo Gaspari

Non sono bastati 150 anni, ai nostalgici del Papa Re e dei Borboni, per perdonare all’Italia la presa della Fortezza di Civitella del Tronto e la fucilazione di frate Leonardo Zilli: «Un frate! Un frate!». Per non dire dell’editto che il comandante dei piemontesi Ferdinando Pinelli («Ah, l’infame!») osò distribuire alle truppe per eccitarle a prendere quell’ultimo baluardo di ciò che era stato il glorioso regno napoletano: «Noi li annienteremo, schiacceremo il sacerdotal vampiro, che colle sozze labbra succhia da secoli il sangue della madre nostra; purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda sua bava…»
Vengono tutti gli anni, i lefevriani, i vandeani, i «carlisti» che si richiamano a Don Carlos, i tradizionalisti, i neo-borbonici, i reazionari di ogni specie e insomma tutti quelli che odiano la Rivoluzione Francese, Napoleone, i Savoia e l’Italia sconsacrata intera. Vengono quassù, ogni 20 di marzo, su questa rocca al confine tra le Marche e l’Abruzzo dov’era la frontiera tra lo Stato Pontificio e il Reame delle Due Sicilie, per assistere con gli occhi lucidi e la mano sul cuore all’alzabandiera che ricorda come qui sventolò per l’ultima volta il santo vessillo col giglio borbonico. Era appunto il 20 marzo 1861. Tre giorni dopo che il Parlamento di Torino aveva acclamato Vittorio Emanuele II per grazia di Dio e volontà della Nazione.
Anche Mario Borghezio è venuto. Sono anni che barrisce: «Restituiamo Napoli ai Borbone!». Chi meglio di lui poteva capire lo spirito della nostalgia? Come non cogliere l’occasione di un patto tra i padani della Lega e i monti della Laga? Sceso a Civitella, narrano le cronache, si incontrò col napoletano Gino Giammarino, direttore de «Il Brigante». Una specie di incontro di Teano all’incontrario: quelli per unire l’Italia, questi per disfarla. Il tutto alla presenza di Moreno Menini, il più giovane degli otto serenissimi che nel 1997 diedero l’assalto con un finto tank al campanile di San Marco a Venezia. Anfitrione: Giuseppe Pucci Cipriani, un docente fiorentino già vaticanista del «Candido» che disprezza don Lorenzo Milani, sostiene che la monarchia ha origini divine, auspica il ritorno del Papa re, coordina il movimento «Anti 89» contro la rivoluzione francese del 1789 e ha spiegato a Stefano Lorenzetto del «Giornale» di riconoscere la sola sovranità di un ingegnere scozzese nipote di Leopoldo II che chiama rispettosamente col titolo di «Sua altezza imperiale e reale Sigismondo d’Asburgo Lorena, per grazia di Dio Granduca di Toscana». Motto del convegno annuale papalin-borbonico: «A voi il tempo, a noi l’eternità». Minimalista.
All’alzabandiera non manca mai qualche ex della Nunziatella, l’accademia militare fondata a Napoli dai Borboni che all’ultimo atto della campagna per l’Unità d’Italia diede causalmente un contributo decisivo. Da lì veniva Luigi Ascione, comandante dei 291 uomini assediati nella roccaforte. Da lì veniva il capo degli assedianti, Luigi Mezzacapo, un ufficiale che, lasciata la divisa borbonica dopo essersi distinto nella prima guerra d’indipendenza combattendo con le truppe napoletane allora alleate dei Savoia contro gli austriaci, era passato all’esercito piemontese avviandosi a una carriera che lo avrebbe visto diventare senatore del Regno e due volte ministro della Guerra.
Arrivò sotto i bastioni di Civitella del Tronto, il nostro Mezzacapo la cui storia riassume la lacerazione di tanti militari costretti a scegliere da che parte stare, a metà febbraio. Al posto appunto di quel Ferdinando Pinelli che era stato spedito a dare la caccia ai briganti nel Sud più profondo proprio perché, secondo gli storici, quell’editto da mangiapreti del 3 febbraio 1861 era sembrato eccessivo anche ai più duri sostenitori della guerra ai Borboni e allo Stato Pontificio: «Ufficiali e soldati! Voi molto opraste, ma nulla è fatto quando qualche cosa rimane da fare. Un branco di quella progenie di ladroni ancor s’annida fra i monti; correte a snidarlo e siate inesorabili come il destino. Contro nemici tali la pietà è delitto. Vili e genuflessi quando vi vedono in numero, proditoriamente vi assalgono alle spalle quando vi credono deboli, e massacrano i feriti. Indifferenti ad ogni principio politico, avidi solo di preda e di rapina, ora sono i prezzolati scherani del Vicario, non di Cristo, ma di Satana; pronti a vender ad altri il loro pugnale quando l’oro carpito alla stupida credulità dei fedeli non basterà più a sbramar le loro voglie». Fino, appunto, a quella maledizione contro «il sacerdotal vampiro».
Era troppo. Tanto più che lo Stato maggiore piemontese non aveva alcun interesse a ottenere la capitolazione del regno borbonico con un inutile massacro che avrebbe tirato addosso alla nascente Italia l’esecrazione internazionale. E il rischio c’era tutto. Buona parte dei soldati arroccati nella fortezza della «Fedelissima» Civitella, infatti, non voleva saperne di deporre le armi. Al punto di non cedere neppure alle parole dell’ufficiale Giovan Battista Della Rocca, spedito dopo la caduta di Messina dallo stesso Francesco II, l’ultimo Re di Napoli rifugiatosi a Roma, con il via libera: arrendersi. Niente da fare. A quel punto le artiglierie collocate sulla collina dirimpetto intensificarono il fuoco. «Non daremo lavoro agli avvocati. Non faremo prigionieri», scriveva in una lettera a sua madre il maggiore piemontese Alessandro Finazzi che dopo la presa della rocca sarebbe stato nominato governatore, parole sue, «di un cumulo di macerie».
Aggrappata su un baratro che toglie il fiato a 589 metri sul livello del mare nelle montagne fra Teramo e Ascoli Piceno, così grande e massiccia coi suoi 25mila metri quadrati di superficie da essere seconda solo alla poderosa Hohensalzburg di Salisburgo, la fortezza era stata per secoli un baluardo insormontabile ai confini settentrionali delle terre napoletane fin da quando era stata scelta dagli Angioini. Ma in quei giorni del 1861 aveva perso tutto il suo valore strategico. Era solo una bandiera borbonica su un pennone, completamente isolata e circondata.
Quella bandiera, però, molti soldati, non volevano ammainarla. Erano all’apparenza, scrive lo storico Roberto Maria Selvaggi, «una sorta di accozzaglia di anziani soldati e di ufficiali di secondo ordine, mandati nella lontana fortezza di frontiera». Ma fedeli fino all’ultimo a un’immagine che un giornale umoristico francese aveva riassunto in una vignetta con un soldato, un ufficiale e un generale borbonici: il primo aveva la testa di un leone, il secondo la testa di un somaro, il terzo sopra il collo la testa non l’aveva proprio. Fatto sta che tennero duro. Finché la mattina del 20 marzo, dopo tre giorni di cannoneggiamenti dei piemontesi che usavano i micidiali e modernissimi Stanhope a canna rigata ai quali rispondevano dai bastioni con le palle sparate da colubrine fabbricate dagli spagnoli nel 1600, gli assediati presero atto che non aveva senso continuare.
Poche ore e fu tutto finito. Le truppe italiane entrarono, decisero di passare per le armi, stando ai documenti ufficiali, tre «teste calde» che avevano animato la resistenza estrema (il sergente Domenico Messinelli, Supino di Bonaventura da S. Egidio e appunto fra Leonardo, giustiziato poco prima che arrivasse la revoca della pena di morte) e completarono infine con la dinamite la distruzione della rocca. Per scoraggiare, dissero, «i briganti». Che in queste valli alcuni si ostinano ancora a chiamare «partigiani».
Non si presentò benissimo, quassù, l’Italia. Ci sono vecchi che ancora ricordano come le mamme ammonivano i bambini: «Fai il bravo, se no chiamo Pinelli!». Quel nome incuteva terrore a decenni di distanza, tanto feroce era stata la repressione. Come a Mozzano, quattro miglia da Ascoli, dove i piemontesi avevano avuto una scaramuccia coi ribelli e dove si erano scatenati nella rappresaglia eccitati dall’editto su citato. Era una «belva senza alcuna pietà umana, degno rappresentante di quella progenie di barbari che ha invaso e martoriato il Regno delle Due Sicilie», accusa fremente d’indignazione Selvaggi in «La Storia mai raccontata dell’ eroica difesa di Civitella». Certo è che le sue imprese rimasero così scolpite nella memoria collettiva da ispirare nel 1952 un film di Pietro Germi: «Il brigante di Tacca del lupo», con Amedeo Nazzari nelle pari del capitano Giordani, alias Pinelli. E chi c’era fra gli sceneggiatori? Il pronipote: Tullio Pinelli, che avrebbe poi scritto i copioni di capolavori come «I Vitelloni», «La dolce vita», «8 e mezzo», «Amici Miei»…
Un secolo e mezzo dopo la caduta, a Civitella si respira ancora un’aria spagnolesca. Sarà per via di alcuni cognomi di origini iberica, come quello delle due anziane sorelle Fuentes o dell’assessore al turismo Federico Zunica, la cui famiglia possiede l’albergo sulla piazza del Paese che ospita i tradizionalisti e serve, giurano, il migliore «Filetto alla borbonica» della zona. O sarà soltanto perché il vecchio forte prima angioino, poi aragonese e borbonico, è tornato a essere per le 5.444 anime del paese una vera industria. Con la sua presa, a metà Ottocento, l’economia locale fu distrutta. Adesso è il monumento più visitato d’Abruzzo: senza contare i nostalgici, arrivano 60 mila persone l’anno. Tanto per dare un’idea: sei volte di più di quanti salgono a visitare la Rocca di Solferino.
Era stata abbandonata per un secolo, la Fortezza in macerie della «Fedelissima». La gente la usava come cava di pietre e sassi. Finché all’orizzonte non apparve il profilo panzuto e pacioso di un’altra Italia. Quella di Remo Gaspari. Il mitico «Zio Remo» che fu per qualche decennio non solo il più longevo degli uomini di potere democristiani dopo Andreotti (41 anni alla Camera, 26 anni al governo, 13 volte ministro, 8 sottosegretario) ma il Vicerè d’Abruzzo. Amato da una corte di seguaci che lo venerava col trasporto di Alberto Tucceri, sindaco democristiano di Cerchio, provincia dell’Aquila: «Eccellenza Gaspari! Soave creatura, bontà di sacrificio e amore! Ti chiamerò sempre con tenero slancio...».
Era un mito, Zio Remo. Si vantava di aver preso in mano le sorti dell’Abruzzo quando era arretrato come ai tempi in cui, nel 1910, Pascal D’Angelo, che ne avrebbe scritto in «Son of Italy», era partito da Intradacqua verso Napoli e l’America: «Sentii il fragore del treno – né muli né cavalli a trascinarlo – quindi la stretta di mio padre che m’incitava a salire in carrozza. L’ultimo bacio di mia madre. Il resto sparì tra la nebbia delle mie lacrime. Stavamo andando verso l’ignoto. Il mondo là attorno sembrava una grande giostra. Colline e montagne ci venivano incontro all’impazzata, si dilatavano poi si sgonfiavano; le case ci scivolavano accanto: prima bianche, quindi svanivano nuovamente in una verde macchia indistinta. Infine ci fu uno scenario mozzafiato. Eravamo appena usciti da una galleria ad incredibile altitudine, lanciati a tutta velocità verso la pianura campana. Un abbagliante luccichio dilagava tutto intorno e andava a perdersi ai confini del mondo. Sulle prime ebbi paura. Poi pensai:”Il mare! Quella dev’essere la cosa che chiamano mare!”».
Lui pure, il Viceré d’Abruzzo, era figlio di un emigrato che si era fatto un gruzzoletto negli States: «Tornava ogni dieci anni, metteva incinta mia madre e ripartiva. Tre ritorni, tre figli. Faceva il sarto. Fece un vestito pure a Clark Gable». Anche lui, il Patriarca diccì, andava forte con le forbici. Nessuno ha mai tagliato in Abruzzo tanti nastri quanti lui. Inauguravano uno svincolo? Ecco Zio Remo. Aprivano una scuola? Ecco Zio Remo. Avviavano una panetteria? Ecco Zio Remo: «Ho preso in mano una terra poverissima. Oggi è la più ricca del Mezzogiorno».
Anche a lui Civitella la «Fedelissima» fu fedelissima. Lui diede una mano a trovare i fondi per restaurare l’antica piazzaforte, lui si impegnò perché il paese fosse sistemato, lui recuperò i finanziamenti europei per la spettacolare scala mobile che porta su su fino alla fortezza e che sollevò all’epoca boati di stupore. Due milioni e 240 mila euro di oggi, costò quella meraviglia. Una tombola. Eppure raccontano che Zio Remo, quando vide il progetto dei tecnici, non li fece nemmeno finire di parlare. Alzò la cornetta del telefono e i quattrini erano già lì.
Quei soldi hanno fatto la differenza. Come orgogliosamente rivendica anche il sindaco di Civitella, Gaetano Ronchi, alla testa di una lista civica nella quale è difficile dire dove finisce la destra e comincia la sinistra: «Le strade che abbiamo noi nelle Marche se le sognano. Per andare da Ascoli a Roma si deve passare da Teramo». Proprio come una volta.
Quei soldi hanno trasformato la Val Vibrata nella”Brianza del Sud”. Dagli anni Settanta ai Novanta le fabbriche tessili sono spuntate come i funghi. Casucci, Wampum, Maglificio Gran Sasso. E poi le decine e decine di impianti che lavoravano per le grandi firme, come Versace o Kenzo. A frotte sono arrivati gli albanesi. Quindi i cinesi, anche loro ad aprire negozi e laboratori. Senza nemmeno troppe tensioni se è vero che nei paesi c’è ancora chi dimentica le chiavi della macchina nel cruscotto o quelle di casa nella toppa della porta.
Il sogno non è finito nemmeno quando il filone d’oro si è esaurito e l’Abruzzo è stato ufficialmente depennato dalle aree depresse d’Europa. Anzi. L’integrazione fra le due aree a cavallo della vecchia frontiera borbonica ha marciato così spedita da far nascere una suggestione: quella del «Marcuzzo». Cioè la fusione di due Province, quelle di Teramo e Ascoli Piceno, per dare vita a una nuova entità territoriale, una specie di «superprovincia» adriatica. L’idea, attribuita all’ex sindaco teramano Gianni Chiodi, oggi presidente della Regione per il Pdl, è singolare: in Italia, dove i politici promettono di cancellare le Province e invece le moltiplicano, sarebbe il primo caso di due che diventano una. Tanto più perché nel 2009 quella ascolana è stata divisa in due con la creazione dal nulla della Provincia di Fermo.
Solo una provocazione? Si vedrà... Ora c’è altro cui pensare. C’è la crisi, anche nella Brianza del Sud. Una crisi strisciante: prima ha chiuso una fabbrichetta, poi un’altra e un’altra ancora. E il terremoto. Già, il terremoto. Nel Tronto non è caduta una tegola, ma il turismo sì, quello si è afflosciato. Le presenze, secondo l’Assoturismo, sono calate in un anno del 35%. Naturalmente senza considerare gli sfollati sistemati nelle stanze d’albergo dalla Protezione civile.
Così ai piedi dell’ultima fortezza borbonica c’è chi spera nei 150 anni dell’Unità d’Italia. Anche se l’annuncio della nascita del comitato comunale per le celebrazioni ha scatenato un putiferio. I filo borbonici si sono accaniti sui blog, coprendo di insulti i promotori: come osano? Roba da far rivoltare nella tomba il tenente della Nunziatella Carlo Pisacane che, spedito dagli stati maggiori napoletani a Civitella nel 1841, rimase per un paio d’anni (1843). Finché non fu scoperta la sua tresca con la moglie di un bettoliere, una certa Gaetana Michilli. Al posto della bettola ora c’è un negozio di biancheria. Ma le avventure amorose di Pisacane sono ormai una leggenda. Resta un piccolo mistero: disonorò la signora da borbonico o era già nell’anima un patriota italiano?