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 2013  ottobre 29 Martedì calendario

Biografia di Quintino Sella

Una sera di luglio nel 1870, Vittorio Emanuele II perse le staffe e, ad offenderlo, gli disse: «Si vede che ella viene da mercanti di panno!». I due discutevano dell’eventualità di un’entrata in guerra dell’Italia contro la Prussia, a fianco della Francia. Quintino Sella, erede di una famiglia biellese di industriali lanieri, annotò in un appunto personale: «Ossessioni di Vittorio Emanuele per rendermi propizio all’intervento. Minacce, lusinghe, promesse appena credibili. Ingiurie». Aveva all’epoca 43 anni ed era in politica da dieci, dopo ottimi studi di matematica e ingegneria in Francia, Inghilterra, nonché nella futura Germania, e un periodo d’insegnamento all’Università di Torino. Era già stato ministro delle Finanze due volte, nel 1862 e nel 1864-65. Stavolta, la terza, sarebbe rimasto alla guida del fondamentale dicastero economico dal 1869 al 1873. Lì per lì Sella gli rispose: «Sì maestà, ma da mercanti di panno che hanno fatto sempre onore alla loro firma, mentre questa volta vostra maestà firmerebbe una cambiale che non sarebbe sicura di poter pagare». Il re premeva perché, nella guerra franco-prussiana, l’Italia si schierasse al fianco di Napoleone III. Sella era recalcitrante. Il 30 luglio, dopo l’occupazione di Saarbrücken, la vittoria francese sembrava a portata di mano. Il generale Enrico Cialdini, esponente di primo piano del «partito di corte», chiedeva le dimissioni immediate del ministro della Guerra Giuseppe Govone e criticava Sella, perché con le sue «economie fino all’osso» aveva indebolito l’esercito. Sella reagiva accusando Cialdini di «abusare della elevata sua posizione» affermando che le sue parole potevano essere interpretate come una «minaccia di pronunciamento». Vittorio Emanuele II a quel puntò si fermò. Trascorrevano pochi giorni e il 6 agosto la battaglia di Woerth metteva in evidenza la superiorità dell’esercito prussiano. Stavolta si muoveva la Sinistra che, guidata da Francesco Crispi, minacciava le dimissioni in massa dal Parlamento se, approfittando delle difficoltà dei francesi (protettori di Pio IX), non si fosse proceduto all’istante a «prendere» Roma. Sella, che pure era noto per essere una grande fautore dell’occupazione della città destinata ad essere la capitale definitiva dello Stato italiano, trascorreva il mese di agosto a rabbonire l’opposizione. Solo dopo la sconfitta di Napoleone III, tornava in prima fila, autoproclamandosi «bersagliere», e imponeva l’entrata a Roma, dove si era recato il 18 settembre, due giorni prima della breccia di Porta Pia.Dopodiché era tornato da Vittorio Emanuele, stavolta titubante, esortandolo ad andare nella città eterna «prima di subito» e nel consiglio dei ministri del 5 novembre aveva minacciato le dimissioni se il re non fosse «sceso» entro il mese nella città eterna. Il sovrano, preoccupato di una rottura ancor più definitiva con la Chiesa, esitava ancora e arrivò solo il 31 dicembre, per solidarizzare con i cittadini dopo uno straripamento del Tevere. Il 3 febbraio del 1871 fu approvato il trasferimento della capitale da Firenze a Roma. Il 24 giugno si tenne a Firenze l’ultima seduta della Camera dei deputati a Palazzo Vecchio. Il 1° luglio Roma era, di fatto e di diritto, la capitale d’Italia. Non fosse stato per quel grande politico che fu Quintino Sella e ci fossimo schierati dalla parte di Napoleone III#
Più che per la politica, però, l’uomo era destinato a passare alla storia come il «Cavour dell’economia». Ed è a questo suo ruolo che è dedicato il prezioso Quintino Sella ministro delle Finanze. Le politiche per lo sviluppo e i costi dell’Unità d’Italia di Fernando Salsano, che sta per essere pubblicato dal Mulino. Il libro lamenta come la figura di Sella sia «rimasta ancorata agli stereotipi elaborati dai suoi contemporanei: lo spietato torchiatore dei contribuenti da un lato e il salvatore della patria dall’altro». Entrambi poco utili (anzi, dannosi) al fine di comprendere il ruolo fondamentale che Sella ebbe nella costruzione del nostro Stato unitario. Persino i suoi laudatori’ ai tempi nostri praticamente tutti ’ tendono a nascondere, non si sa se intenzionalmente o meno, questo o quell’aspetto del suo complesso modo d’agire. Forse perché i confronti tra la sua esperienza e quelle d’oggi provocherebbero qualche imbarazzo ai suoi successori di oltre un secolo dopo. Fu un morigerato. Il suo libro di riferimento era il Piano di perfezionamento morale, ideato e seguito da Beniamino Franklin, un testo molto diffuso all’epoca, che al primo punto recitava: «Temperanza. Non mangiar tanto da esserne aggravato, né bever tanto da esserne imbalordito». Al nono: «Moderazione. Schiva gli estremi, guardati dall’affliggerti dei torti così vivamente, come ti paresse regione». E al dodicesimo: «Castità. Usa di rado dei diletti coniugali, e solo per vivere sano, ed avere figliuoli; guardati dall’abusarne». Entrò in politica nel 1860 e, provenendo da una famiglia di industriali, si mostrò sensibile al tema del conflitto di interessi. All’inizio del suo secondo mandato ministeriale (il primo era stato assai breve ed emergenziale) scrisse al fratello: «Stante le condizioni incerte di durata dell’attuale ministero convengo anch’io coll’avvocato Ferraris che sia inopportuno che io mi ritiri dalla società nostra. Non avrei tempo in questo momento di introdurre altre modificazioni nell’atto nostro di società, perché mi ci vorrebbe qualche ora di studio, mentre non posso disporre di minuti; soltanto io ti pregherei di dirmi se avresti difficoltà a prendere meco impegno d’onore che per tutto il tempo in cui rimango al ministero non farai alcun contratto col governo». Poi nel 1867 fece aggiungere al contratto di società un codicillo in cui si disponeva che, finché fosse rimasto deputato (deputato, non ministro, e lo fu fino alla morte, nel 1884), «il lanificio non avrebbe concorso alle forniture statali». Mai. In nessun caso. Sfidò l’impopolarità. E ne patì le conseguenze. Secondo Alfredo Oriani (La lotta politica in Italia, 1892) fu persona «più di carattere che di ingegno», «più di istinti che di idee». Fece in tempo addirittura a polemizzare apertamente con l’uomo che lo aveva scoperto, a cui doveva le sue fortune e a cui sarebbe rimasto a suo modo devoto per il resto dei suoi giorni. Nel maggio del 1861, in occasione dell’approvazione della nuova tariffa doganale del Regno d’Italia, litigò direttamente con Cavour, al quale pure aveva appena votato la fiducia come presidente del Consiglio. Nel suo discorso del 27 maggio, pochi giorni prima della morte di Cavour, Sella, pur dicendosi favorevole all’«assoluto libero scambio», si oppose all’idea di modificare le tariffe doganali «a rompicollo, di un tratto, a precipizio». E lo fece anche a costo di vedersi «dipinto come un codino protezionista», disse, nella consapevolezza che gli sarebbe stata rinfacciata la sua origine familiare. Come effettivamente fu. Ma qui ci interessa mettere in rilievo il suo carattere e la sua tenuta psicologica. Non era certo agevole in quelle settimane, per un uomo della Destra, dire un no a Cavour. Intellettuali e storici ne scoprirono le virtù soltanto dopo la morte. Per Benedetto Croce, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (Laterza), fu «l’eroe che impersonò la lotta per il pareggio», colui che «fin quasi dal suo affacciarsi alla vita pubblica, ne intese l’importanza capitale, ne divenne quasi ossesso come accade agli uomini che debbono adempiere una missione, e v’impegnò tutte le sue forze con tenacia pari solo al coraggio di superare ogni sorta di ostacoli e reggere alle strida dolorose dei tassati e all’odio che gliene veniva». Croce fu il primo a comprenderne a pieno la grandezza. Il secondo fu Federico Chabod. Il terzo, Rosario Romeo. Ma qualche simpatia nei suoi confronti la ebbero anche, e su versanti opposti, nel 1947 il comunista Emilio Sereni e nel 1962,lo storico Giuseppe Are. Sella fu uno di quei pochi, ha scritto Raffaele Romanelli in L’Italia liberale (il Mulino), «che pur essendo favorevoli allo sviluppo agricolo del Paese, si preoccupavano anche delle difficili condizioni in cui l’apertura dei mercati avrebbe posto l’industria nazionale e quindi l’economia nel suo complesso». Rosario Romeo, in Risorgimento e capitalismo (Laterza) individuò in lui uno straordinario continuatore di Cavour, oltreché il «massimo autore» di quella politica economica che trasformò l’Italia da una realtà prevalentemente agricola in un Paese industriale moderno. Giuseppe Are, in un seminario che si tenne a Torino nell’ottobre del 1984, ne ha parlato come del primo grande fautore di una «strategia industrialista». Luciano Cafagna ne ha sottolineato la linea di discontinuità con i predecessori e, nel suo Cavour (Il Mulino), ha visto in lui «il primo esponente di una nuova tradizione politica che, in rotta di collisione con il liberalismo cavouriano, ebbe in Bismarck il suo modello». In un convegno che si tenne a Biella nel 1984 (in occasione dell’inaugurazione di una mostra documentaria per il centenario della sua morte), Beniamino Andreatta lo definì addirittura «keynesiano ante litteram». Il nome di Sella è comunemente accostato alla tassa sul macinato, anche se ad istituire il tributo nella primavera del 1868 fu Luigi Cambray-Digny, ministro delle Finanze nel governo presieduto dal generale Luigi Menabrea. La tassa sul macinato era antica e odiata negli Stati preunitari. I governi provvisori l’avevano immediatamente abolita là dove esisteva, in Sicilia, nelle Marche e in Umbria. Nei giorni del Risorgimento, la soppressione dell’«ingrato balzello» aveva costituito uno dei temi principali della propaganda democratica. La promessa di abolire quell’eredità di «oscurantisti regimi», aveva contribuito a «conquistare alla causa italiana una parte della popolazione rurale, soprattutto nel Mezzogiorno e nello Stato pontificio, altrimenti refrattaria alla mobilitazione». «Scopo principale nostro», avrebbe ricordato Francesco Crispi nel riandare con la memoria alla fase iniziale, quella siciliana, dell’impresa dei Mille, «era innanzitutto di disordinare la amministrazione dei Borboni’ I nostri decreti quindi erano un’arma da guerra, quella legge era come una bolla che il Papa manda nelle terre governate dagli infedeli; noi comandavamo col pensiero e con la fede su coloro che speravano in noi». Questa era stata la promessa (mantenuta) di abolire la tassa sul macinato. E ripristinarla adesso, a meno di dieci anni dall’unità, era, oltretutto, un tradimento di quell’impegno.Sella aveva approfondito la questione insieme a Francesco Ferrara e all’amico Costantino Perazzi, alla ricerca del motivo che l’aveva resa così impopolare: l’obiettivo era adesso «trovare un sistema per un’equa applicazione» di quell’imposta, «senza le angherie, la corruzione e gli arbitrii che avevano caratterizzato in passato la riscossione della tassa». Secondo Sella «il principale inconveniente» dei sistemi precedenti era da individuarsi nel metodo di riscossione, basato in molti casi sull’appalto ai privati dell’attività di controllo sui mugnai, tenuti per legge a dichiarare le quantità di cereali macinate dai rispettivi clienti. Si capì che le diverse caratteristiche della tassa rendevano infinite le possibilità di evasione per clienti e mugnai e che le basse retribuzioni dei gabellieri li rendevano esposti alla corruzione. In alcune regioni, per di più, si poteva macinare solo in determinate ore della giornata e mai dopo il tramonto, a meno che il mugnaio non acconsentisse a restare rinchiuso da solo dentro il mulino, «con il rischio di dover scassinare la porta in caso di incendio o alluvione». Il mugnaio, nota Gianni Marongiu in Storia del fisco in Italia (Einaudi), era obbligato ad abitare presso il proprio mulino, la cui chiave era tenuta in affidamento dal custode pesatore, che godeva di «un’autorità pressoché assoluta sui locali deputati alla macinazione e su quelli aggregati». Ora il custode ideale, secondo Sella, «doveva avere una serie di caratteristiche che lo rendessero impermeabile alla tentazione»: la sua attività doveva essere «instancabile di giorno e di notte»; non doveva avere alcun tipo di legame con mugnai e consumatori; doveva essere «sordo a qualsiasi voce di seduzione»; non doveva «essere retribuito in denaro»; doveva essere privo della capacità e della volontà di mentire. In poche parole non poteva venire dalla sfera degli uomini, bensì dal «seno della bruta materia». In che modo’ Grazie alla sua formazione ingegneristica, Sella progettò un contatore per misurare i giri compiuti dalla ruota macinante e stabilire per questa via l’ammontare del tributo dovuto all’erario. Dopodiché, come è ovvio, si trattava di individuare una sicura equazione fra i giri della macina e la quantità di farina ottenuta. Ma, per esempio, cento giri di una macchina, nello stesso mulino, davano un chilo e mezzo di farina se veniva macinato grano di Odessa e cinque chili se venivano macinate delle fave. Allora Sella e Perazzi studiarono una tariffa differente per i cereali più poveri (granturco, segale e avena). Per gli altri cereali il problema non si poneva «in quanto le variazioni registrate dal contatore corrispondevano alla differenza di valore delle rispettive farine».Ma non finiva qui. Anche i mulini erano diversi tra loro: uno, più antiquato, dava poco più di un chilo di farina, laddove un altro, più moderno, ne dava più del doppio. In questo caso, però, Sella e Perazzi non proposero forme di perequazione. Sicché, scrive Salsano, «la farina si trovava a essere meno gravata dall’imposta quanto meglio fosse stato congegnato il mulino e meno rozzo fosse stato il suo modo di lavorare». Di fatto, il sistema del contatore (senza perequazioni) veniva a costituire uno stimolo al miglioramento dell’arte molitoria. I mulini meno efficienti sarebbero stati spinti a perfezionarsi per stare alla pari con i concorrenti meno gravati dall’imposta. La proposta di Sella, nel dicembre 1865, fu presto accantonata. Nel 1867, Francesco Ferrara ripropose il progetto così come lo aveva ideato Sella e alla discussione in aula si giunse l’11 marzo 1868. Sella intervenne il 28 marzo «per fatto personale» e si scagliò contro quelli che avevano parlato di una «legge della disperazione»; sostenne che si trattava invece di una «legge dell’onore e della prosperità futura della nazione». Dopodiché propose che in occasione dell’introduzione di quel tributo venissero bloccati gli stipendi dei funzionari dello Stato: «Signori, io convengo pienamente che l’Italia rimunera malissimo i suoi alti funzionari non solo militari ma civili; è indubitato che noi facciamo ai nostri più alti funzionari una tale posizione che, quando hanno logorata la loro vita in favore dello Stato, sono collocati a riposo e, se hanno una famiglia, non hanno modo di provvedere alla educazione dei loro figli». E qui vennero grida di approvazione da destra. Poi proseguì: «Ma, signori, vi sono momenti e momenti: mentre si deve imporre al Paese il macinato (così, per brevità, era detta la tassa, ndr ), non si possono accrescere, o signori, i vantaggi a nessuno, comunque sieno i servigi che taluno possa avere resi al Paese». E stavolta gli applausi piovvero da sinistra. E alla sinistra, che aveva denunciato quella del macinato come una «tassa sui poveri», Sella rivolse le seguenti parole: «La vera tassa sul povero, a mio avviso, sta nella sfiducia, e starebbe essenzialmente in una catastrofe a cui si andasse incontro’ Signori, la sfiducia nell’andamento economico di un Paese che effetto produce’ Me lo insegnate tutti: evidentemente il capitale diventa sfiducioso, si nasconde, e dirò anche che effettivamente diminuisce». E invece «riflettete un istante alla massa di capitali che diventa disponibile per la tassa sul macinato; sarà pure in forza di questa tassa che si produrrà l’effetto di riavvicinarci al pareggio, di migliorare il nostro credito e quindi di rendere disponibili tanti capitali. Or bene, o signori, io vi dico che i vantaggi economici che derivano al Paese per l’aumento dei capitali disponibili, per la fiducia che farete rinascere ricompenseranno con tanta usura la classe operaia della tassa sul macinato che, quando questa in qualche maniera potesse rendersi conto di tale fenomeno economico, non dubito che ove si accalcasse sotto le nostre finestre, come disse taluno, lo farebbe per incoraggiarci, o signori, a prendere i provvedimenti che sono indispensabili ed a votare anzitutto il macinato».Dal che si evince, osserva Salsano, che l’ impegno per la tassa non derivava affatto dalla difesa dei suoi «interessi di classe», bensì «dalla incondizionata fiducia nel ruolo che il risanamento delle finanze doveva svolgere per lo sviluppo economico del Paese». Proseguì poi il dibattito su quale fosse il migliore sistema di esazione, ma «l’urgenza di fare cassa ebbe alla fine il sopravvento», il progetto originario finì per essere stravolto e l’uso del contatore meccanico fu limitato ai casi di contestazione fra lo Stato e i mugnai. Sella se ne dispiacque molto, ma votò ugualmente a favore del disegno di legge, esortando i suoi colleghi parlamentari a fare lo stesso per offrire ai cittadini un «esempio di moralità». La legge di Cambray-Digny stabilì che, a partire dal 1° gennaio del 1869, i contadini che portavano a macinare ai mulini il grano o l’avena, il granturco o la segale, e perfino la veccia o le castagne, dovevano pagare la tassa dovuta nelle mani dei mugnai. Contro i giudizi ultranegativi su quella tassa da parte della storiografia marxista (e non solo), Rosario Romeo vide in essa una forma di «accumulazione originaria di capitali», l’unica possibile per consentire all’Italia uno sviluppo capitalistico-industriale moderno.Si mosse contestualmente un’ondata di proteste, soprattutto nella Bassa Padana, che durò mesi e che fu repressa con la forza. Anzi, con violenza. A entrare in agitazione furono soprattutto i proprietari dei mulini, tant’è che gli storici si sono a lungo domandati se quei moti andassero annoverati come «rivolta contadina» o, piuttosto, come «rivolta dei mugnai». La Sinistra in Parlamento tornò alla carica contro il governo, ma Sella, pur riconoscendo le buone ragioni della protesta, rifiutò di votare le loro mozioni. Dopodiché l’opposizione presentò uno specifico ordine del giorno, che conteneva un giudizio negativo sul sistema di esazione delle imposte. Stavolta Sella votò con la Sinistra. Non era la prima volta, lo aveva già fatto nel 1867, durante la crisi seguita all’impresa garibaldina di Mentana, quando si spese a che il Parlamento ribadisse «l’intenzione di avere Roma come propria capitale, nonostante il veto francese e le possibili complicazioni internazionali». Poi, in occasione della discussione sul progetto di legge per la liquidazione dell’asse ecclesiastico, votò contro il governo, seppur con «ripugnanza grandissima», dal momento che, diceva di sé, «sono un deputato essenzialmente ministeriale». Ma stavolta votava contro, sia pure su una questione per così dire tecnica, in merito a un progetto di natura economico-sociale. Progetto che, per giunta, era il suo. La cosa non poteva sfuggire a nessuno, in primo luogo a Vittorio Emanuele II. E infatti non sfuggì. Poco dopo il governo Menabrea cadde e nel dicembre del 1869 Sella tornò al governo. Di nuovo come ministro delle Finanze. Per un attimo si pensò che stavolta sarebbe toccato a lui guidare il governo. L’autorevole giornale l’«Opinione» di Giacomo Dina fece una campagna in suo favore. Ma il re fece sapere che i recenti comportamenti dell’ex ministro avevano fatto vacillare la sua fiducia. E Sella gli rispose con il «discorso del mulo». «Maestà», gli disse, «i muli talvolta danno calci, ma ad essi si ricorre per tirar su il carro quando affonda nel fango». A quel punto il sovrano gli affidò il mandato per formare un nuovo esecutivo: ma Sella, dopo aver messo su la compagine, cedette il posto d’onore a Giovanni Lanza, riservandosi il dicastero da cui avrebbe guidato la fase economica del post tassa sul macinato. Fu il suo capolavoro politico, come spiega Fulvio Cammarano nella Storia politica dell’Italia liberale (Laterza). D’un tratto la sinistra gli si rivoltò nuovamente contro, prese a parlare di «sistema Sella», puntò l’indice contro il suo «strapotere» e si dispose assai meglio nei confronti di Lanza, del quale lodò la capacità di porre argini al titolare delle Finanze. Il 22 febbraio 1870, Dina sull’«Opinione» presentò così il quadro uscito dalla crisi e dalla nuova composizione del governo: «La grande quistione è quella della finanza. Tutte le altre di politica e di amministrazione vengono dopo di essa, tutte le sono subordinate». Un modo per affermare che Sella contava più di Lanza. E Sella inventò il «disegno omnibus». Per abbreviare i tempi di approvazione di una legge e ridurre le insidie annidate nei dibattiti parlamentari, Sella ideò il disegno di legge unico, in cui erano concentrati provvedimenti finanziari di natura diversa tra loro e non sempre omogenei l’uno all’altro. Nel gergo politico dell’epoca fu soprannominato «zibaldone» o, appunto, «omnibus» e lo possiamo considerare un antenato di un «decretone» o di un «maxiemendamento» di oggi. Sella era ormai l’uomo più potente d’Italia. Ma come era arrivato a quei vertici’Nel 1848 fu testimone in Francia della «rivoluzione di febbraio» e dell’assalto al palazzo delle Tuileries: «Io», scrisse allo zio, «disapprovavo dentro di me la piega che prendevano le cose’ ma al vedere quella fraternizzazione di uomini che qualche momento prima erano come in attitudine di combattersi e che,conoscendosi fratelli, si abbracciavano, non potei tenermi dal piangere». Poi però notò che «la gente che accorreva cominciava ad essere meno rispettosa di quella che c’era, cominciavansi a rompere vetri, specchi, ritratti, a gettare dalle finestre tavoli, seggioloni, cominciavasi a penetrare la cantina, e gli ubbriachi che ne escivano non rispettavano più nulla, cominciavansi a bruciare le carrozze reali’». Quello stesso anno andò a Milano, dove prese dei fischi perché difendeva, al cospetto di una platea di mazziniani furenti, la causa di Brescia che aveva votato l’annessione al Piemonte. Quando nel 1862 fu per la prima volta ministro delle Finanze (da marzo a dicembre) poté fare ben poco e fu osteggiato da «L’Opinione» di Giacomo Dina, che lo descrisse così: «Uomo rude e imprudente, forse uno scienziato e un buon massaio, non già uno statista o un finanziere». Ebbe contro anche «La Perseveranza» di Ruggero Bonghi, che invece elogiava il suo rivale Marco Minghetti.Erano i tempi successivi all’Aspromonte e il presidente del Consiglio Urbano Rattazzi non si muoveva, come se fosse paralizzato dal dilemma se concedere o meno il perdono a Garibaldi (Sella era favorevole a che fosse trovata una «soluzione politica»). Politica dalla quale però Sella non si fece mai assorbire al 100 per cento. Nel 1863 diede prova di essere un valente alpinista scalando il Monviso, che fino ad allora era inviolato dagli italiani; il 23 ottobre di quell’anno partecipò alla fondazione del Club alpino italiano e ne fu eletto primo presidente. La seconda volta che fu ministro, nel 1865 nel governo presieduto da La Marmora, si attribuì l’ingrato compito di puntare al pareggio di bilancio, elaborando una piano che prevedeva un robusto taglio alla spesa pubblica («saremo di una ferocia inesorabile», annunciò) accompagnato da nuove tasse, e fu qui che pensò all’imposta sul macinato. Il «Times» di Londra lo prese in giro: «Il signor Sella diede la sua parola che il deficit sarebbe stato ridotto’ ma noi ci ricordiamo delle promesse del signor Minghetti e non possiamo persuaderci che si tratti di un’operazione seria». Invece un quotidiano vicino al primo ministro britannico Lord Palmerston, il «Morning Post», lo prese in parola e lo elogiò. Pochi mesi dopo Sella dovette lasciare l’incarico e però a quel punto aveva messo da parte un piccolo capitale di credibilità internazionale. Comunque in dicembre il governo saltò e della tassa sul macinato non si parlò più per qualche anno. Adesso, però, sia «L’Opinione» che «La Perseveranza» rispettavano quel ministro. E ne parlavano con toni ben diversi da quelli del «Times». Per la cronaca, il successore di Sella, Antonio Scialoja, propose una tassa sull’«imbottato», ma anche questa gabella fu insabbiata. Ai tempi della guerra del 1866, Sella decise di arruolarsi e minacciò addirittura, ove la sua domanda non fosse stata accettata, di «andare con Garibaldi»; ma dopo la sconfitta di Custoza i suoi ardori si spensero, prima che fosse riuscito a dar seguito ai suoi progetti. Fu nominato commissario straordinario per la provincia di Udine e per quattro mesi diede prova di essere uno straordinario amministratore della cosa pubblica. Poi tornò a occuparsi di economia. Su una cosa Sella e Minghetti, a quei tempi, furono d’accordo: nel porre le basi di quella che, dopo la loro scomparsa, sarebbe stata la Banca d’Italia. Francesco Ferrara sosteneva la «libertà di emissione e la pluralità delle banche»; Sella e Minghetti proponevano che alla Banca nazionale, fusa con gli altri istituti di emissione, fosse affidato il servizio di tesoreria dello Stato, che si giungesse cioè all’istituzione di un’unica banca dello Stato, «necessariamente sottoposta al controllo pubblico». Oltre che ai progetti di Cavour, scrive Salsano, Sella si ispirava dichiaratamente alla riforma con cui, nel 1834, tutto il denaro presente nelle casse dello Scacchiere era trasferito in un unico conto corrente presso la Banca d’Inghilterra.Nella seconda metà degli anni Sessanta, Sella si batté come nessun altro per la riduzione della spesa pubblica, chiedendo che fosse tagliata anche, e pesantemente, quella militare. E, tornato nel 1869 al governo, si mosse «spietatamente» (la definizione è sua) per un ridimensionamento della finanza locale.Ma l’«ingegner» Sella fu anche altro. Convinto fautore degli studi classici («Se volete uomini forti e profondi’ mandateli alle scuole classiche, e più tardi chiamateli a studi tecnici fatti con tutto il rigore») a 14 anni sapeva recitare a memoria oltre 40 canti della Divina Commedia. In questo contesto, considerava «produttive» le spese per l’istruzione e rifiutò di tagliarle. Sempre. Quando nel 1872 assunse ad interim anche la carica di ministro della Pubblica istruzione (in sostituzione del dimissionario Cesare Correnti), ottenne uno stanziamento straordinario. Fu il primo «germanofilo», in opposizione alla «francofilia» dominante nella classe dirigente postrisorgimentale (oltreché a Corte). Fu uno spietato persecutore degli evasori fiscali e in questa missione ebbe al fianco un giovane Giovanni Giolitti, che, nelle memorie, ben descrisse le «diaboliche» difficoltà che incontrarono. Fu accusato di spogliare «senza riguardi e senza pietà» i cittadini e persino di «perturbare l’ordine sociale». Il governo Lanza cadde nel giugno del 1873. E lui con esso.Da quel momento per 11 anni, fino alla morte, la sua passione fu Roma. Sella, ha scritto Romanelli, aveva saputo «trovare anche accenti di anticlericalismo scientista nel propugnare l’andata a Roma». Ma il suo non era un anticlericalismo gretto. Adesso, dopo essere stato il regista politico della complicata operazione di trasferimento da Firenze a Roma, voleva fare della città la «capitale internazionale della scienza». A Roma, ha scritto Aldo Berselli in Il governo della Destra (Il Mulino), Sella godeva «di enorme popolarità nel mondo liberale che gli aveva riservato accoglienze trionfali. Portò a nuova vita l’accademia dei Lincei, della quale fu presidente, e si indignò quando un palazzo di piazza Colonna, che avrebbe dovuto esserne la sede, fu venduto al proprietario di un caffè: nei pressi del Parlamento, Roma avrebbe avuto un simbolo dell’«ozioso ciarlare» al posto di un «tempio delle scienze», scrisse irritato al presidente del Consiglio Depretis. Puntò a un nuovo centro amministrativo tra Porta Pia, via XX settembre, sede del maestoso ministero delle Finanze (dove avrebbe voluto che nascesse una città ministeriale) e il Quirinale. Lui stesso lasciò via del Babuino e andò a vivere in via Nazionale. Una sera, a cena, lo storico Theodor Mommsen, che gli era amico ed era membro dei Lincei, gli domandò: «Ma cosa intendete fare a Roma’ Questo ci inquieta tutti: a Roma non si sta senza avere dei propositi cosmopoliti». Sella gli rispose parlandogli ancora una volta della «città della scienza». Ma probabilmente Mommsen era in eccessivo anticipo e quella domanda, perché ne fosse chiaro il senso, avrebbe dovuto esser posta qualche anno o decennio più tardi.