la Repubblica, 10 giugno 2014
Giacomo Matteotti e le sue idee
Il 10 ottobre 1922, dopo che i riformisti erano stati espulsi dal Partito Socialista Italiano ed avevano dato vita al Partito Socialista Unitario, Giacomo Matteotti comunicò alla moglie Velia: «Intanto per annegare del tutto, ho accettato anche il segretariato del Partito». A fare poi rimanere per poco segretario del Psi ci pensarono gli assassini fascisti.
La sua uccisione il 10 giugno 1924 provocò una tempesta politica, portò il governo fascista alle soglie della crisi ed ebbe un’eco enorme in Italia e all’estero. Egli entrò nel mito.
Lussu, Rossetti, Carlo Rosselli e Tarchiani nel settembre 1929 avrebbero scritto: «Il mondo intero conosce di tutta la tragedia fascista due soli nomi in antitesi: Mussolini-Matteotti; il carnefice e la vittima; il despota coperto di sangue e il Martire vestito di Luce».
Matteotti era nato il 22 maggio 1885 a Fratta Polesine, in una famiglia assai agiata. La visione dei poveri braccianti e contadini della sua terra lo portò giovanissimo, per una reazione insieme umana e politica, a diventare socialista. Nel 1912 fu decisamente contrario alla guerra libica e, nel 1915, all’intervento dell’Italia nel conflitto europeo. Scoppiata la crisi del dopoguerra, guardò con allarme alla scissione del Partito socialista che nel gennaio 1921 portò alla nascita del Partito comunista, considerata un grave colpo all’unità della sinistra.
Nel 1922, l’anno in cui l’Italia naufragò, Matteotti – odiato dagli agrari perché “un traditore di classe” e dai fascisti perché un rosso pericoloso – era al tempo stesso profondamente avversato dai socialisti massimalisti e dai comunisti che lo consideravano un collaborazionista della borghesia, essendosi egli convinto che – divenuta del tutto inattuale la parola d’ordine della rivoluzione socialista in cui in un primo tempo aveva anch’egli creduto – l’unico obiettivo razionalmente perseguibile per fermare il fascismo e «ridonare la libertà civile al proletariato» fosse l’appoggio a un governo espressione di tutte le forze politiche decise a difendere le istituzioni parlamentari e a riportare il paese ad un clima di libertà.
Quando il 3 ottobre 1923 la maggioranza massimalista li espulse dal Psi, i riformisti diedero vita al Partito Socialista Unitario; e Matteotti ne fu eletto segretario. Alla fine del mese, mentre i partiti della sinistra si erano ridotti a fazioni nemiche, seguì la nomina di Mussolini a capo del governo. Matteotti denunciò subito che la logica che animava il fascismo era stabilire una dittatura. Le elezioni del 6 aprile 1924 costituirono per lui, pur nell’angoscia che l’opprimeva, un motivo di soddisfazione: il partito degli espulsi risultò il primo della sinistra lacerata. Toccò a Matteotti il 30 maggio levare in Parlamento l’implacabile atto di accusa contro la truffa della legge elettorale, le violenze fasciste nei confronti degli oppositori e il risultato truffaldino. Pagò con la vita.
Matteotti definì se stesso un “riformista rivoluzionario”, volendo sottolineare che il suo intendeva essere un riformismo inteso ad affrontare i problemi alla radice. Scoppiata la grande guerra europea – il cui esito inevitabile, disse, sarebbe stato seminare nel vinto la volontà di rivincita e quindi nuove guerre – non esitò a evocare la necessità che le classi lavoratrici impiegassero tutti «i propri mezzi che vanno dalla semplice protesta allo sciopero generale, alla ribellione». Per questa via fu condotto esprimere il più netto disaccordo non soltanto con la nota formula del Psi «non aiutare, non sabotare la guerra», che definì «protesta imbiancata», ma anche con Turati: per aver questi prima affermato che i socialisti avrebbero sostenuto un governo che si adoperasse per uscire dal conflitto, poi lanciato l’invito agli italiani, di fronte alla disfatta di Caporetto, a unirsi in difesa della patria in nome della responsabilità nazionale.
Nel 1919-21, negli anni del parallelo emergere e gonfiarsi da un lato dell’ondata socialista massimalistica e dall’altro del fascismo, Matteotti diede al suo riformismo rivoluzionario un connotato non privo di oscillazioni e contraddizioni rispetto alle posizioni che avrebbe in seguito assunto. Condivise l’idea che si prospettasse la possibilità per le classi lavoratrici di arrivare al potere; prese posizione a favore dell’adesione del Psi alla Terza Internazionale, pur difendendo il diritto del partito a prendere le proprie decisioni in autonomia. E su un punto significativo si avvicinava a Gramsci, e cioè nell’insistere che l’avvento del socialismo sarebbe stato reso possibile unicamente dal crescere della coscienza delle masse, dalla loro maturità e capacità di iniziativa. Non escluse neppure il ricorso alla dittatura, a patto che fosse intesa non «come una dittatura di pochi sul proletariato, sebbene come una dittatura politica transitoria del proletariato» e che l’uso della violenza fosse concepito unicamente come «mezzo di difesa contro la reazione e il fascismo». Ma respinse l’idea che la dittatura bolscevica potesse costituire un modello, da lui considerata un «potere autocratico (…), formato da pochi che comandano».
Il 1923 fu per la sinistra italiana un anno orribile, che trovò nel contrasto di strategie che oppose massimalisti, comunisti e riformisti il suo specchio nero. In particolare si inasprì oltre ogni limite lo scontro tra Matteotti e il Partito comunista quando al fronte unico di classe anticapitalistico invocato da quest’ultimo egli in novembre rispose insistendo sul fronte unico di tutte le forze antifasciste diretto alla «riconquista della libertà e della democrazia». Il culmine dello scontro venne raggiunto nel marzo-aprile 1924. Matteotti uscì col pronunciare queste parole: «Il fascismo trova nel suo avversario, che gli somiglia, un naturale alleato. Se il Comunismo non ci fosse, il Fascismo lo inventerebbe, poiché esso è il pretesto alla sua Violenza e alla sua Dittatura».
I modi in cui Turati da un lato e Gramsci dall’altro guardarono alla figura dell’ucciso testimoniarono appieno il fossato incolmabile che divideva le opposte sponde della sinistra. Il vecchio capo riformista pianse il «figliolo prediletto», «il nostro migliore», divenuto «un simbolo», e affermò che «dall’eccidio di Giacomo Matteotti la nuova storia d’Italia incomincia». Il commento di Gramsci, in un articolo del 28 agosto, fu di segno opposto: con freddo pedagogismo politico, definì Matteotti «pellegrino del nulla», in quanto aveva incarnato il fallimento storico della componente del movimento operaio incapace di comprendere che all’ordine del giorno stava iscritto il trionfo della rivoluzione socialista.
Una commemorazione penetrante fu dovuta alla penna di Gobetti nel luglio 1924. Mise in luce del leader ucciso la forza di carattere, l’amore per la concretezza, l’intransigenza. E notò: «Matteotti non fu mai popolare. Tra i suoi compagni era tenuto in sospetto per la ricchezza; gli avversari lo odiavano come si odia un transfuga. Invece Matteotti era un aristocratico di stile, non di famiglia». E così il giovane torinese colse il senso del “riformismo rivoluzionario” di Matteotti: «la sua attenzione era tutta a un momento d’azione intermedio e realistico». Egli «rimane come l’uomo che sapeva dare l’esempio. Era un ingegno politico quadrato, sicuro».