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 2008  febbraio 10 Domenica calendario

La Repubblica di Weimar è stata un fallimento fin dal primo istante

Dovremmo essere contenti di non esserci stati. La Repubblica di Weimar fu un fallimento sin dal principio. Non è la definizione saccente di chi vede le cose in una prospettiva storica. L’aveva già descritta in questi termini Ernst Troeltsch nelle sue Spectator-Briefe degli anni 1918-1922, e non era stato l’unico. Un’occhiata ai primi romanzi e reportage di Joseph Roth dovrebbe bastare a convincere chiunque nutra dei dubbi. Non solo le vecchie élite non erano pronte a venire a patti con la Repubblica. Molti di coloro che tornavano a casa da una guerra perduta non volevano rinunciare alla «Lotta come esperienza interiore» ed erano animati da desiderio di rivincita. Inventarono la «leggenda della pugnalata alla schiena»; poi, per un decennio, la frase chiave fu: «Siete voi i veri vincitori». La magistratura e la polizia si aggrappavano a norme e consuetudini di epoca guglielmina. Nelle università prevalevano tendenze autoritarie, antiparlamentaristiche e antisemite. Più di una volta, l’atmosfera elettrica trovò uno sbocco in piani dilettanteschi di putsch e insurrezioni.
Le cose non andavano meglio sul versante delle Sinistre. Anche loro non tenevano in gran conto la democrazia e i loro quadri preparavano la rivoluzione.
Le ristrettezze economiche contribuivano a creare un clima instabile nella società tedesca. I debiti di guerra e il pagamento delle riparazioni gravavano pesantemente sulle finanze della Repubblica. L’inflazione mandava in rovina il ceto medio e la piccola borghesia. A questo si aggiungeva la corruzione endemica che arrivava a sfiorare le più alte cariche dello Stato e dei partiti e aveva immediate conseguenze politiche. È noto il caso del presidente del Reich Hindenburg. In economia, l’unico momento di respiro che fece pensare a una ripresa durò in tutto quattro anni, dal 1924 al 1928. Poi la crisi economica mondiale vi mise brutalmente fine. Il crollo economico e la conseguente disoccupazione di massa provocarono un senso di esasperazione nei salariati, e diffusi timori di declassamento.
A questo si aggiunsero le ipoteche della politica estera, che in certi periodi assunsero proporzioni intollerabili. Il Trattato di Versailles, lontano mille miglia dai lungimiranti accordi di pace a cui mirarono inglesi e americani dopo la Seconda guerra mondiale, suscitò accesi risentimenti nella società tedesca. L’occupazione della Ruhr, il separatismo e i conflitti etnici favorirono e amplificarono le tendenze sciovinistiche. I vicini più prossimi, soprattutto francesi e polacchi, fecero tutto quello che era in loro potere per umiliare ulteriormente i tedeschi, e anche l’Unione sovietica cercò per quanto poté di destabilizzare la Repubblica.
In una parola, il Paese si trovava in una situazione di latente guerra civile, combattuta non solo con i mezzi della politica, ma sempre più spesso anche attraverso forme violente. Dalla rivolta degli spartachisti alle aggressioni e gli omicidi politici compiuti dai corpi franchi e dalla «Reichswehr nera», dall’«Azione di marzo» nella Germania centrale alla sfilata dei nazionalsocialisti davanti alla Feldherrenhalle di Monaco, dalle lotte dei lavoratori di Amburgo e Vienna al «Maggio di sangue» berlinese, la democrazia fu serrata costantemente in una morsa dai militanti di entrambe le fazioni.
Alla voce Systemzeit (ora di sistema), nei dizionari oggi troviamo la seguente definizione politicamente non sospetta: «L’ora impostata dall’orologio interno del computer e trasmessa al software tramite il sistema operativo». Negli anni Venti e Trenta, in Germania il termine aveva un’altra valenza. Il «Sistema» era un concetto militante coniato in epoca weimariana (e che ebbe una strana rinascita nel 1968). Fu messo in campo contro la Repubblica da Destra e da Sinistra, da Goebbels come da Thälmann.
Nel 1932 e 1933, la spaccatura all’interno della società assunse non solo in Germania, ma anche in Austria, caratteri potremmo dire libanesi. Le formazioni paramilitari – SA, Roter Frontkämpferbund, Stahlhelm, Hammerschaften, Reichsbanner, Schutzbund e Heimwehr – si affrontavano alla luce del sole e l’agonia della Repubblica di Weimar raggiunse il suo punto critico.
Resta un mistero, e non è né giustificabile con l’ignoranza, né spiegabile con la mancanza di immaginazione storica, come i posteri abbiano mai potuto credere che gli anni Venti fossero davvero «dorati», come vengono chiamati in Germania. Questo fragile mito trae alimento piuttosto da una miscela di invidia, ammirazione e kitsch: di invidia per la vivacità e ammirazione per i risultati prodotti da una generazione di grandi talenti, ma anche di nostalgia a buon mercato. Si guarda all’ennesima rappresentazione dell’Opera da tre soldi, ci si stupisce dei prezzi raggiunti alle aste dai Beckmann, dagli Schwitters, dagli Schad, ci si appassiona per le riproduzioni dei mobili Bauhaus e ci si diverte con film come Cabaret, che mostrano una Berlino «pazza», isterica, polimorfa e perversa. Un po’ di decadenza, un pizzico di rischio e una dose massiccia di avanguardia fanno correre un brivido di piacere lungo la schiena dei cittadini dello Stato sociale.
La fioritura di questa cultura estremamente minoritaria fa dimenticare la palude su cui germogliava. Perché anche l’ambiente intellettuale e artistico degli anni Venti non era del tutto immune dai fattori scatenanti la guerra civile. Poeti e filosofi come Heidegger, Carl Schmitt o Ernst Jünger, ma anche Brecht, Horkheimer e Korsch contrapponevano alla pusillanimità della classe politica il pathos della risolutezza: senza meglio definire dove questa risolutezza andasse a parare. Anche i loro fiancheggiatori, di sinistra come di destra, si crogiolavano in un atteggiamento assoluto.
I politici della mediocrità non potevano stare al passo. Apparivano pallidi e inermi. Mancava loro ogni talento nel mobilitare le paure, i risentimenti, la capacità di appassionarsi e l’energia distruttiva delle masse. Anche per questo, tutti senza eccezioni sottovalutarono Hitler, che ci sapeva fare come nessun altro. Alla fine, alla classe politica non restò che barcamenarsi tra panico e paralisi.
La sensazione di impotenza portò la maggioranza a rifugiarsi nell’estremismo. La gente credette di trovare protezione e sicurezza solo in organizzazioni come il Partito comunista, la NSDAP, il Reichsbund o le SA. Le masse ondeggiavano tra Sinistra e Destra; l’incertezza tra i due poli assunse forme epidemiche. Per paura dell’isolamento, la gente cercava il gruppo, si rifugiava nella Volksgemeinschaft, la comunità popolare, o nel comunismo sovietico. Paradossalmente, per molti di coloro che la intrapresero, questa fuga si concluse nella solitudine totale: nell’esilio, nel campo di concentramento, nelle epurazioni, nel gulag o nel trasferimento coatto.