Corriere della Sera, 14 settembre 2010
Due parole su Pietro Tresso
Nell’anniversario dell’uccisione di Trotzkij, avvenuta in Messico ad opera di sicari russi nell’agosto del 1940, cercando di approfondire il movimento trozkista mi sono imbattuto nella figura del trozkista italiano Pietro Tresso che subì qualche anno dopo la stessa sorte del rivoluzionario russo. Vorrei sapere quali responsabilità nell’uccisione di Tresso possono essere imputate agli stalinisti italiani e più in generale ai dirigenti del Pci.
Andrea Sillioni
Bolsena (Vt)
Caro Sillioni, nel mondo dell’antifascismo fra le due guerre Pietro Tresso fu una delle personalità più coraggiose e combattive. Era nato in provincia di Vicenza nel 1893, era stato richiamato alle armi durante la Grande guerra, aveva aderito al Partito comunista d’Italia sin dalla sua nascita dopo il Congresso di Livorno. Avrebbe fatto una brillante carriera nel partito se non avesse criticato la linea della III Internazionale e la deriva staliniana dei suoi gruppi dirigenti. Nelle biografie di Togliatti, da quella di Giorgio Bocca a quella di Aldo Agosti, lei troverà informazioni sulle sue divergenze con il leader del Pc e sui suoi frequenti scontri con altri dirigenti. Ma scoprirà altresì che Ignazio Silone lo considerava un «compagno di grande intelligenza e onestà».
Espulso dal partito, fu tra i fondatori della IV Internazionale (l’organizzazione che riuniva i movimenti politici d’ispirazione trozkista), partecipò attivamente alla vita politica della sinistra francese e, dopo l’occupazione tedesca della Francia, alla Resistenza. Fu arrestato dalla polizia di Vichy, processato e condannato, paradossalmente, come agente della Terza Internazionale, vale a dire dell’organizzazione staliniana a cui i trozkisti si erano ribellati. Riuscì a fuggire con altri compagni di prigionia dal carcere in cui era detenuto, ma fu ucciso nell’ottobre del 1943 in circostanze mai ufficialmente e formalmente chiarite. È probabile che i suoi assassini appartenessero a un gruppo stalinista. Ma non so se agissero per istruzioni superiori, come è stato sostenuto, o sulla base di una iniziativa locale. Di più, purtroppo, non saprei dire.
Colgo l’occasione per ricordarle che vi fu in quegli anni un altro trozkista italiano a cui converrebbe dedicare maggiore attenzione. È Bruno Rizzi, anch’egli attratto dal Pcd’I a cui aderì sin dalla fondazione, ma schierato con Trotzkij contro Stalin e la III Internazionale sin dalla seconda metà degli anni Venti. Con un libro apparso in Francia nel 1939 («La burocratizzazione del mondo») Rizzi ebbe il merito di anticipare brillantemente le teorie diffuse nel secondo dopoguerra sull’esistenza nei regimi comunisti di una nuova classe o nomenclatura che si era impadronita del potere e lo esercitava, al di là di qualsiasi considerazione ideologica, secondo i propri criteri e per i vantaggi che poteva trarne. La rivoluzione burocratica era, secondo Rizzi, un avvenimento storico non meno importante della rivoluzione borghese e rispondeva a criteri di organizzazione e programmazione che erano propri di altri governi e regimi: la Germania di Hitler, l’Italia di Mussolini, l’America di Roosevelt. Incidentalmente fu questa la ragione per cui Mussolini salutò il New Deal come una sorta di «cugino americano».