la Repubblica, 6 luglio 2014
Giorgio Bocca e il libro su Togliatti
E la guerra di Spagna, e la Terza Internazionale, e Stalin, porca miseria! Come fai, sempre in giro per Il Giorno, a scrivere la biografia di Togliatti! Ci saranno mille libri da leggere, mille vecchi da intervistare! E gli archivi! Hai idea di cosa sia, il lavoro d’archivio, per uno come Togliatti?». Masticando lentamente, il Bocca mangiava. Sul volto, l’espressione concentrata di chi non ascolta. Fece un gesto con la destra, a cacciar via le mie obiezioni come una mosca. Quindi, le posate strette nei pugni, diritte: «Agli archivi ci pensi tu».
Ci eravamo conosciuti nel ‘65, quando lavorava alla Storia della guerra partigiana, quindi sapevo benissimo come il Bocca scriveva i suoi libri. Andava dal cartolaio e comprava venti cartellette arancioni, le numerava e ci scriveva sopra, illeggibili, i titoli dei capitoli. Poi iniziava la raccolta del materiale: ritagli di giornale, sunti e citazioni da articoli e libri, appunti di interviste, fotocopie di testi d’ogni genere. Il materiale raccolto veniva sistemato nella cartelletta appropriata. Quando una cartelletta gli appariva abbastanza gonfia, la prendeva, esaminava il materiale e faceva la prima stesura di quel capitolo. Quando tutti i capitoli erano scritti, cominciava la seconda stesura, quindi passava alla revisione. Sovente, anziché ricopiare dei passi, li tagliava da un foglio incollandoli con lo scotch sul foglio pulito, e pazienza se il nome dell’autore del testo andava perduto. I suoi manoscritti erano patchwork bizzarri che inducevano alla disperazione i redattori della casa editrice Laterza. Ma questa era la sua ricetta, e ancora ricordo la stupefazione di Antonio Cederna la sera che – eravamo a Ponte in Valtellina – il Bocca gliela espose. Succedeva sempre così, con gli amici intellettuali. Non si capacitavano che libri tanto belli, e a volte importanti, fossero il frutto di una tecnica così elementare. Ignoravano – lui non ne parlava mai – il grande lavoro sugli autori e sulla lingua che – perfetto autodidatta – era andato facendo instancabilmente per anni. Da parte mia, ero impressionata dalla quantità di lavoro che, robustissimo, riusciva a smaltire, passando da un articolo a un libro, dai campi di sci alla cucina alla scrivania. Aveva il fisico dell’atleta, e un orecchio finissimo per la lingua, e anche per la musica; aveva occhio per la pittura, ma di queste cose non amava parlare; anzi, ostentava nei loro confronti un gran disinteresse. Certo, lui si mascherava, ma veramente gli interessavano solo i fatti, gli eventi, le idee su cui si sentiva di poter intervenire da protagonista.
Nel mio spavento per l’impresa Togliatti giocava anche questo. I suoi precedenti libri di storia patria erano stati accolti dagli intellettuali e dagli storici di professione con grande freddezza. Giorgio Bocca era un giornalista, non si poneva nessuna questione di metodo, scriveva di cose che aveva vissuto, metteva sullo stesso piano fonti d’archivio e fonti orali: un disastro. E ora sfidava la pletora degli storici del Pci, una congrega ancora più numerosa di quella degli architetti socialisti! Ne avremmo sentite delle belle! Chi ci avrebbe aiutato?
L’indomani il Bocca andò dal cartolaio e numerò venti cartellette. Lo trovai che passava in rassegna gli scaffali. Dissi: «Comincio da Pillo». Era il soprannome di un grande amico, Paolo Spriano, lo storico del Partito che era stato, giovanissimo, partigiano di Giustizia e Libertà. Era l’aiuto che occorreva a me. Leggevo, segnavo le pagine da fotocopiare, sunteggiavo e ben presto mi sentii in sella. Il Partito era, nel campo storico, doppio come in tutto il resto, e a fronte degli intellettualini bravi a strillare nutriva i tipi come Pillo. Il quale indicava nelle note le fonti per la ricostruzione dei fatti che l’autocensura piciista gli impediva di raccontare diffusamente. Presa nota delle sue note, me ne andavo tranquilla in via Andegari e passavo meravigliose mezze giornate col naso nelle riviste e gli archivi dell’Istituto Feltrinelli. Arrivavo a una ricostruzione più estesa e veritiera dei singoli accadimenti. Ma quelle verità erano scritte in una lingua che non conoscevo, stese in un gergo ideologico e burocratico, una langue russe il cui senso profondo poteva essere svelato solo da chi, quella lingua, aveva collaborato a costruire, aveva parlato e subìto.
Ecco perché la divisione dei compiti – lui i testimoni, io i documenti – risultava impraticabile. Le “verità” dei documenti andavano vagliate dai testimoni. Le “verità” dei testimoni rendevano urgenti altre ricerche. I risultati dei due lavori andavano costantemente incrociati perché non restassero privi di senso.
Quando il Bocca tornava dai suoi servizi per Il Giorno a Torino, a Palermo o a Parigi e infilava nelle cartellette arancioni il frutto dei suoi colloqui coi testimoni agganciati in quelle città, ci trovava gli appunti delle mie letture e dei documenti di archivio. E iniziava il confronto, la discussione scatenata dalla difficoltà dell’impresa investigativa, dal fermo proposito autoriale di ricostruire la misteriosa vicenda del comunismo italiano in tutti i suoi agganci con la grande storia del Novecento vista da Mosca: individuando, a ogni snodo, la parte che ci aveva avuto “il Migliore”. A volte accompagnavo il Bocca a parlare con i testimoni.
Le donne e gli uomini della Terza Internazionale, della clandestinità, l’esilio, le guerre, sopravvissuti alle lotte, la galera, la tortura, le purghe, al terrore, a ogni genere di contrasto e prevaricazione, ci accoglievano, sorridenti o severi, nelle loro semplicissime case, specchio deformante di individualità ultra complesse. Emarginati dal partito, coglievano volentieri l’occasione di fare i conti col Migliore e, data l’età e la situazione, a volte parevano disposti persino a fare un po’ di conti pure con se stessi. Apparenza ingannevole. Ciascuno era un caso a sé, ma in comune avevano la granitica certezza che, se erano sopravvissuti a tanto, era perché in quella o l’altra occasione si erano comportati a quel modo, avevano pronunciato quelle parole, avevano taciuto quel fatto. Da qui la loro memoria di ferro.
A Roma, Umberto Terracini ci ricevette in Senato. Pietro Secchia in uno studio arredato con dei confessionali; Camilla Ravera in un appartamentino da vecchia maestra; Giuseppe Berti in un elegante soggiorno; il figlio di Franco Rodano ci chiese, sprezzante, perché non scrivessimo di Angelo Tasca – il primo a denunciare il terrore – anziché di Togliatti. A Torino scovammo Andrea Viglongo (l’editore di Salgari) in una villetta sommersa dai libri. Nella casa triestina di Vittorio Vidali era ospite la figlia di Cesare Battisti. Da alcune di quelle dimore uscimmo immalinconiti o scocciati. Ma generalmente il Bocca poteva tranquillo sedere sulla seggiola, o sulla poltroncina che gli erano state offerte e rilassato, il busto un po’ piegato in avanti, parlare in tutta fiducia con chi gli stava di fronte.
Aveva fiducia, fondamentalmente, in se stesso, nella propria capacità – empatica – di entrare nel mondo degli altri e discernere, nel groviglio di quelle vite, i fili che portavano a Togliatti. Era, il suo, il ruolo del giudice istruttore. Anni dopo, parlando del giudice Falcone, il Bocca ammirato diceva: «Un vero mafioso!» per dire che solo chi conosce perfettamente il modo di pensare dei mafiosi è in grado di combatterli. E io, ripensando a quelle ore nelle case degli uomini della Terza Internazionale, ridacchiavo pensando di lui: «Il vero rivoluzionario di professione!».
Era un lavoro intenso, stupendo, che invadeva la nostra vita. In studio, in auto, in spiaggia, in cucina: non parlavamo che di Bordiga e Bucharin, di Tasca e Kamenev, della Noce e Humbert Droz, e di lui, soprattutto di lui, il Migliore, Ercoli, Palmi, in tutte le declinazioni. Le cartellette ingrassavano, molte figliarono due o tre altri capitoli, su fatti e problemi non preventivati. Le risse, fra noi, erano all’ordine del giorno: entrambi sentivamo il bisogno di riaffermare la nostra identità, in una situazione di intesa troppo intima e tesa.
Il Bocca scrisse il capitolo sul socialfascismo, quindi partì per non so più che servizio. Io trovai nel Fondo Tasca, all’Istituto Feltrinelli, una serie di documenti che ne davano uno sfondo più ampio. Quando lui rientrò, e scoprì che avrebbe dovuto rifare quella fatica, quasi mi uccise. Ho riletto il capitolo incriminato, titolato “La resa a Stalin”. Anzi, l’ho divorato come un giallo appassionante. Avevo dimenticato tutto, tranne la frase con cui il compagno Kuusinen commentò la terribile vicenda: Togliatti – disse – “a dejà joliment appris la langue russe”.
Penso di aver dimenticato tutto, o quasi, di questo libro perché mi costò una fatica spropositata. Non per quanto riguardò la pur faticosa ricerca, ma per quanto significava svolgerla con occhi non miei. Natalia Aspesi mi avrebbe poi sgridata perché non avevo chiesto la firma: francamente, la cosa non mi passò per la testa. Studiavo, mi appassionavo, leggevo e correggevo i capitoli nelle varie stesure, ma mi era chiaro che quello era il libro del Bocca, frutto di un bisogno tutto suo. Quando il lavoro fu terminato, fui contenta che le mie previsioni fossero state contraddette, ma avevo una gran voglia di rileggere Pinocchio e le Operette Morali. (Non avevo ancora scoperto la Bibbia). Lessi la prima stesura della nota al testo in cui Bocca, ringraziandomi per la collaborazione, parlava del libro come del nostro “figlio di carta”. Mi parve troppo.
Il desiderio di staccarmi dall’opera non mi impedì di condividere le emozioni di Giorgio mentre si manifestavano le reazioni funeste del partito alla pubblicazione – l’intervista dell’isterico Giancarlo Pajetta su Tempo illustrato, la stroncatura di Luciano Gruppi su Rinascita – anche se mi parevano scontate. Alle presentazioni del libro mi tenevo defilata. Solo a Bari – il Bocca era raffreddato – toccò a me di parlare al suo posto. Sempre a Bari, tanti anni dopo, mi toccò nuovamente quell’onore, quando, grazie a Luciano Canfora, mio marito fu insignito della laurea in storia honoris causa.
Ma la partita coi comunisti italiani era già stata chiusa quando il libro era stato messo in vendita, a buon prezzo, in edicola, per i lettori dell’Unità.
La sera che il Bocca, tornato da Roma, mi annunciò il contratto per una biografia di Togliatti, fui tanto angosciata che non gli domandai da chi era venuta l’idea. Mi sono posta il problema solo quando Gianluca Foglia mi ha chiesto una testimonianza per questa edizione Feltrinelli.
Ho allora telefonato a Donato Barbone, che in quegli anni era direttore editoriale della Laterza, perché m’è sembrato probabile che la proposta fosse venuta da lui, e volevo sapere in base a quali indizi si fosse messo in testa che il Bocca era adatto all’impresa. Donato mi ha detto che no, l’idea non era stata sua. «Di Vito Laterza?» ho chiesto io, stupefatta. «Nemmeno» ha detto Donato. «Non sono sicuro, ma penso che Vito abbia accolto con molto entusiasmo un’idea proposta timidamente da Giorgio, un’idea che in lui maturava da anni». «Ma tu – lo ho incalzato sentendo rinascere in me l’antico spavento – quando ti ha detto la cosa, come hai reagito?». «Come te» ha risposto Donato. «Gli ho domandato come pensava lui, sempre in giro per il Giorno, di affrontare gli archivi. E Giorgio – al telefono ho sentito un risolino – mi ha detto che ci avresti pensato tu. È stata la prima volta che ti ho sentita nominare».
Quel giorno è venuto a pranzo mio nipote Luca, sedici anni. Gli ho raccontato questa storia e l’ho conclusa dicendo: «Vedi che tipo era tuo nonno? Mi ha messa davanti a un fatto compiuto!» E lui: «Il modo migliore per non sentirsi dire di no». Dato che si parlava del nonno, Luca mi ha detto che gli è molto piaciuto il capitolo del Provinciale in cui parla della vita di famiglia. Allora ho aperto anch’io una copia del Provinciale, ma al capitolo “Viaggio per il comunismo”. Inizia così: “Avevo scritto per Laterza la storia della guerra fascista e della guerra partigiana. Mi mancava però la faccia nascosta, quei comunisti rispuntati l’8 settembre come da una cantina segreta della casa comune”. Sono risalita al capitolo sulla guerra partigiana, titolato “La guerra di casa” e ho trovato il primo incontro del comandante Giorgio coi comunisti: «In Varaita i garibaldini erano arrivati prima di noi, occupavano già il versante sinistro della valle, noi ci sistemammo sul destro e Sampeyre fu la capitale di entrambi. Noi dei comandi ci trovavamo a cena al Leon d’oro, il ristorante sulla piazza, a tavola assieme ad Ezio, il commissario politico, emiliano, comunista, gran brav’uomo, e a Medici, il comandante militare: risotto ai funghi e le risate di Ezio, da Rigoletto che arrivassero anche nel loggione, quando io attaccavo con la libertà e lui tirava fuori dal suo povero ma convinto armamentario ideologico “ma sì, e tu dagli da mangiare la libertà alla gente e vedrai, noi gli daremo la libertà dal bisogno, mio bel Giorgino”».
Dunque, come tutte le cose del Bocca, anche questo Togliatti ha radici autobiografiche; come tutte le sue migliori, ha le sue fondamenta nella lotta partigiana.