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 2014  novembre 07 Venerdì calendario

I socialisti e il futuro della sinistra. Parla Jacques Julliard

PARIGI. Le diverse anime della sinistra francese si confrontano oggi in un drammatico dibattito reso ancora più aspro dalle difficoltà della crisi politica ed economica. Un dibattito di cui Jacques Julliard è da vari decenni, uno dei maggiori protagonisti. Storico, docente universitario, giornalista e sindacalista, politicamente vicino a Michel Rocard, sostenitore della modernizzazione della sinistra, Julliard non ha mai smesso di interrogarsi con i suoi editoriali sul Nouvel Observateur e i suoi libri, sulla necessità del socialismo di adattarsi al nuovo contesto sociale europeo e alle conseguenze della mondializzazione. Dopo avere pubblicato, due anni fa, da Flammarion, una autentica summa, Les Gauches françaises (1762-2012), accolta da critiche osannanti e ora coronata dal Prix Guizot, egli ha continuato la sua riflessione in un nuovo libro, fresco di stampa – sempre da Flammarion –, La gauche et le peuple. Nelle Gauches françaises, ha scritto la storia della sinistra a partire dal contesto concettuale della Rivoluzione francese, ricostruendo le sue diverse anime: la liberale, la giacobina, la collettivista e libertaria».
Perché in Francia si è subito imposta a sinistra anche l’idea di laicità?
«La filosofia dei Lumi ha dato battaglia alla chiesa cattolica prima ancora che all’assolutismo monarchico. Di conseguenza, la sinistra francese, che se ne vuole l’erede, è anticlericale fin dall’origine. Questo la distingue dalle altre sinistre europee, e in particolare da quelle dei Paesi protestanti dove la democrazia va spesso d’amore e d’accordo con lo spirito religioso».
La Rivoluzione non ha solo creato la divisione tra destra e sinistra, ma, per tutto l’Ottocento, ha diviso la sinistra.
«La Rivoluzione francese è un fenomeno interclassista, basato sull’alleanza della borghesia progressista e delle classi popolari. È, paradossalmente, questa alleanza che ha impedito alla classe operaia francese di costituirsi, nel corso dell’Ottocento, in un movimento autonomo e di dar vita a una vera social-democrazia, a differenza di quanto è accaduto in Germania, Austria, Belgio, e persino in Inghilterra. È quanto dirà Jaurès nel corso del celebre dibattito della Seconda Internazionale tenutasi a Amsterdam nel 1904. Al tedesco Babel che rimproverava al socialismo francese di collaborare con un governo borghese, Juarès rispose che, a differenza della Francia, la Germania non aveva mai avuto una borghesia progressista. Ne consegue un incrocio quasi perfetto: alla vigilia del 1914 la classe operaia francese è politicamente integrata e socialmente isolata, mentre quella tedesca è politicamente isolata e socialmente integrata».
Lei mostra bene come la sinistra abbia tradizionalmente associato l’idea del progresso della scienza e della tecnica al miglioramento della condizione sociale. Oggi smentita dai fatti.
«L’ottimismo progressista teorizzato da Condorcet alla fine del Settecento risponde a una filosofia della Storia determinista. Il progresso intellettuale genera quello tecnico che, a sua volta, genera quello materiale. Il benessere che ne consegue determinerà il progresso morale dell’umanità. Ma, dopo Auschwitz, non possiamo più credere che il progresso materiale – già negli anni Trenta la Germania era uno dei Paesi più avanzati del pianeta – possa generare il progresso morale dell’Umanità. A Auschwitz, ma anche nel goulag sovietico è la filosofia della Storia di sinistra che è morta».
E il progresso sociale?
«Ai giorni nostri esso si scontra con un capitalismo mondializzato sempre più avido e irresponsabile, che rifiuta di condividere i frutti della crescita come nel 1830. Così, non potendo fare progredire il progresso sociale, i socialisti si sono ripiegati su un certo numero di problemi della società, vale a dire la liberalizzazione dei costumi (matrimonio, divorzio, aborto, omosessualità), alla scandinava. Di qui la delusione delle classi popolari francesi, materialmente tutt’altro che appagate, che prendono sempre più le distanze dalla vecchia sinistra a vantaggio di un Front national ormai populista».
Lei vede il potere, sia a livello regionale e nazionale che europeo, confiscato da una casta di professionisti della politica sempre più indifferenti alla vita della «gente comune». Ma questo non è il problema di tutte le socialdemocrazie di fronte al populismo e ai conservatorismi prodotti dalla mondializzazione?
«Il sistema rappresentativo è sempre stato un ripiego per rimediare all’incapacità dei normali cittadini di esprimersi direttamente in seno alla democrazia. Ma da quando le tecniche moderne (media, sondaggi, e soprattutto internet) hanno permesso ai cittadini di far sentire la propria voce, è la legittimità stessa del rappresentante eletto ad essere rimessa in causa. Se non si trova un modo di fare posto alla democrazia diretta, il sistema rappresentativo, ereditato dal XIX secolo, è morto e il populismo trionfa».
A suo giudizio il problema dell’immigrazione ha cancellato la nozione di popolo a profitto di quella di «comunità». Così, in Francia, molti socialisti sono «alla ricerca di un popolo di rimpiazzo» sul piano ideologico e su quello elettorale. E la priorità data, in passato, al conflitto sociale cede il passo alla «lotta contro le discriminazioni». È un fenomeno comune alle altre sinistre europee?
«Marx ha avuto il colpo di genio di fare della classe sofferente una classe eletta, redentrice dell’umanità. Davanti al posto sempre più grande assunto dagli immigrati nell’immaginario della sofferenza sociale, il proletariato si è trovato in qualche modo declassato, imborghesito. Fine, dunque, del proletario e ritorno del povero classico! La classe dominante si giova grandemente di questo cambiamento. A differenza del proletario, l’immigrato non rimette in causa il suo dominio. Fine dell’idea rivoluzionaria di giustizia, ritorno all’idea conservatrice di assistenza».
In che misura i mezzi di comunicazione di massa e, in particolar modo della televisione, sono responsabili della crisi della democrazia rappresentativa?
«I media moderni sono una lente d’ingrandimento dei fenomeni politici e sociali della nostra epoca. Ma bisogna anche dire che coloro che vi operano fanno parte della classe dominante di cui diffondono i pregiudizi con l’aria di contestarli. In Francia, ad esempio, è stata la televisione a fare delle banlieues un fenomeno sociale ossessivo, a detrimento delle piccole cittadine e delle zone rurali intorno a Parigi dove ha trovato rifugio quel vecchio proletariato dei cui problemi non si interessa più nessuno. D’altronde, la televisione di Sarkozy ha preso lezioni da quella di Berlusconi, riproponendole il kitsch, il conformismo, il populismo e il sentimentalismo. Più la televisione è populista, più gioca a favore della gente ricca».
Lei deplora l’incapacità degli intellettuali di avanzare delle proposte realiste. Ma che ruolo può ancora avere l’intellettuale al giorno d’oggi ?
«In Francia, più che in Italia e nel resto dell’Europa, gli intellettuali continuano ad avere un ruolo importante: sono loro a dare il tono al dibattito politico e sociale. Ma, purtroppo, continuano ad essere la classe delirante di cui ha parlato Valéry. E il loro carrierismo, drogato dalla televisione, è diventato pericoloso. Nel passato, l’impegno significava mettere la loro notorietà al servizio di nobili cause; oggi vuol dire mettere delle nobili cause al servizio della loro notorietà».
Quali le sembrano le possibilità della sinistra di recuperare l’elettorato popolare che la sta abbandonando?
«Assistiamo oggi un po’ ovunque, nel mondo industrializzato, alla fine di un patto storico stretto tra il popolo, la borghesia illuminata e degli intellettuali. Perché? Perché il popolo, nella sua vecchia accezione, constata che il progresso non gioca più a suo favore a causa della concorrenza dei paesi emergenti e si rivolge dunque ai partiti populisti che almeno permettono loro di conservare le cose acquisite e di lottare contro la minaccia esterna. In Francia e in Italia la sinistra e l’estrema sinistra sono costituite da borghesi trasformati in professionisti della politica, incapaci di mescolarsi con gli ambienti popolari. La sinistra non riannoderà il suo legame con il popolo fino a quando la sua classe politica non si dissolverà da sola. Non sarà facile e il Fronte Nazionale ha ancora dei bei giorni davanti a sé».