La Stampa, 27 agosto 2008
Piccola storia delle Mille Miglia
Non si sa quale Cassio abbia fatto costruire la via Cassia, se il Censore nel 174 a.C. o il Console nel 127. Delle tante strade romane, questa è forse la più schiva: univa vie etrusche preesistenti e passava dal lago di Bolsena a Viterbo, Chiusi, Cortona e Arezzo per terminare a Firenze dove oggi si trova il Ponte Vecchio. A metà strada tra due arterie più importanti come l’Aurelia e l’Emilia, non avrebbe lasciato grandi ricordi di sé, se non fosse stato per un gruppo di ragazzi di Brescia che duemila anni dopo, quasi senza volerlo, la resero leggendaria.
Nel 1926, Franco Mazzotti e Aymo Maggi avevano 22 e 23 anni. Come i giovani dell’epoca, erano figli del Futurismo e dell’Ardimento, sognavano di imitare le imprese di Gabriele d’Annunzio, che aveva conquistato Fiume su una Fiat Torpedo, ed erano convinti che il motore del progresso era fatto di pistoni, camere di scoppio e bielle, ed emetteva gas di scarico. Non potevano vivere in un posto migliore: Brescia era la capitale di tutto quello che si muoveva velocemente sulla terra, ma anche nell’aria e sull’acqua, e ogni settimana si organizzavano gare nelle quali in fatto di tecnica c’era sempre qualcosa di nuovo da ammirare.
Il padre di Mazzotti era un importante azionista della Isotta Fraschini e su una di queste macchine i due ragazzi andavano ogni settimana a Milano, con l’amico motociclista Renzo Castagneto. Frequentando i caffè giusti, era possibile incontrare ardimentosi piloti, spericolati centauri, ingegnosi meccanici e giornalisti come Giovanni Canestrini della Gazzetta dello Sport, il primo in Italia a scrivere di auto.
Fu a casa di Canestrini che il 2 novembre 1926 Mazzotti, Maggi e Castagneto misero a punto l’idea di una grande corsa tra vetture, su strade aperte alla circolazione, con macchine di serie. Poiché il fascismo imponeva che tutto in qualche modo finisse a Roma, la competizione sarebbe partita da Brescia, dove sarebbe tornata con un percorso a 8, transitando sulla via Cassia per la Capitale. Era un viaggio di 1600 chilometri e quando si trattò di battezzare la corsa, Mazzotti, che era appena tornato dagli Stati Uniti, propose di chiamarla la «Coppa delle Mille Miglia». L’obiezione che il fascismo non avrebbe mai accettato di usare una misurazione straniera per una competizione italiana fu respinta: si poteva sempre dire che erano stati i romani a inventare il miglio e che sulla via Cassia ogni 1480 metri, corrispondenti a mille passi, c’era anticamente una pietra miliare.
Quando la prima Mille Miglia partì, il 26 marzo 1927, nessuno aveva idea della leggenda che sarebbe diventata. Si correva su strade sterrate, prive di illuminazione e di una decente segnaletica, e molti piloti avevano portato con sé anche un bagaglio, convinti che avrebbero dovuto pernottare da qualche parte. Vinsero invece, a bordo di una Om e senza fermarsi mai se non per i rifornimenti, Giuseppe Morandi e Ferdinando Minoja, in 21 ore e 4 minuti, alla media di 77 km orari. Il successo della corsa fu strabiliante. Il Corriere della Sera scrisse che era nata una nuova epoca e che l’automobile «dominatrice del tempo e dello spazio» si era rivelata uno strumento di libertà.
Gli anni successivi furono quelli dei duelli tra piloti leggendari, Nuvolari, Varzi, Farina, Campari, e del dominio incontrastato delle Alfa Romeo, che vinsero 9 Mille Miglia su 10. Nel 1938, la media dell’Alfa 8C 2900 spider di Clemente Biondetti e Aldo Stefani fu di 135 km orari, con un tempo di 11 ore e 58 minuti. In soli dieci anni, il tempo necessario per andare a Roma e tornare si era quasi dimezzato. Proprio l’edizione del ’38 lanciò un primo segnale d’allarme, con l’incidente di una Lancia Aprilia che causò la morte di 10 spettatori, tra i quali 7 bambini. Forse le auto andavano ormai troppo veloci per una gara su strade progettate duemila anni prima. A causa dell’incidente, Mussolini decretò la fine della «Mille Miglia» e l’inizio della guerra pose fine a ogni discussione.
Ma già nel 1947 tutti erano pronti a ricominciare, per aggiungere altre pagine alla leggenda. Tazio Nuvolari aveva 55 anni, e corse la prima Mille Miglia del Dopoguerra con una Cisitalia scoperta, sotto acqua, grandine e vento, proprio come nella canzone di Lucio Dalla, per arrivare alla fine solo secondo. L’anno dopo si ritirò in convento a Gardone Riviera: gli erano morti i figli e soffriva di una malattia polmonare dovuta ai gas di scarico. Ma quando le auto si radunarono a Brescia per la nuova Mille Miglia non resistette. In piazza della Vittoria incontrò Enzo Ferrari, che gli offrì di guidare una 166 Barchetta, una vettura scoperta che gli avrebbe consentito di respirare meglio. Nuvolari corse a modo suo: primo a Roma, fece togliere il cofano del motore e un parafango dopo un’uscita di strada, danneggiò una balestra e arrivò come un forsennato a Bologna in condizioni così pietose che Ferrari lo supplicò di ritirarsi. Ma era per questo che la gente lo amava: non si dava mai per vinto.
Enzo Ferrari non ha mai nascosto di ritenere la Mille Miglia la corsa più bella del mondo e di commuoversi sempre quando ne parlava. «La Mille Miglia ha scritto in Piloti, che gente... – ha creato le nostre automobili e l’automobilismo italiano. Ci ha consentito di costruire quelle granturismo che oggi noi vendiamo in tutto il mondo, e quando dico “noi” non mi riferisco solo alla Ferrari». Da ex pilota, ammirava il coraggio degli uomini ai quali affidava le sue macchine, persino l’insolito talento di «Gioanin» Bracco, che a Firenze si era fatto dare un fiasco di Chianti e grazie a quello aveva recuperato nei tornanti della Futa lo svantaggio sul primo. O di Giovanni Marzotto, che correva e vinceva in doppiopetto, la cravatta intonata al colore della carrozzeria.
Tra i suoi piloti c’era anche il marchese Alfonso de Portago, cugino del re di Spagna, che Ferrari ha descritto come «un magnifico barbone, dal comportamento trasandato e dall’improbabile igiene, ma dotato di un estremo coraggio fisico». Il 12 maggio 1957 De Portago era quarto dietro ad altre tre Ferrari quando a Guidizzolo, in provincia di Mantova, uno pneumatico scoppiò, l’auto uscì di strada e uccise il pilota, il copilota Edmund Nelson e altre 9 persone, tra cui 5 bambini. Per la Mille Miglia era la fine. Giustamente, perché non si poteva più correre a quelle velocità (la media era salita a 157 km orari) su tracciati privi di adeguate protezioni.
Oggi quelle macchine epiche ripercorrono ogni anno, sbuffando per l’età, le stesse strade nella Mille Miglia storica, che non è, come molti pensano, un capriccioso raduno di ricchi e famosi. È piuttosto una riaffermazione di orgoglio nazionale, un modo di non dimenticare di che cosa siamo stati capaci.