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 2012  marzo 06 Martedì calendario

Nascita dell’Iri

C’è un memoriale dell’Iri trasmesso nel gennaio del 1940 al ministro delle Finanze Paolo Thaon di Revel in cui si racconta come Benito Mussolini, alla fine del 1932, aveva vissuto «ore angosciose» allorché sembrò che le banche – e in particolare la Commerciale – stessero per fallire. Nell’ottobre di quello stesso 1932, decennale della marcia su Roma, Mussolini, in un discorso tenuto a Milano, aveva detto che quello in cui si stava vivendo sarebbe stato «il secolo del fascismo», della «potenza italiana», e che nel corso dei futuri cento anni l’Italia sarebbe tornata «per la terza volta ad essere la direttrice della civiltà umana». Adesso invece, poco tempo dopo quel discorso, si poteva intravedere una crisi bancaria (e non solo) di dimensioni catastrofiche. Fu in quel momento che Mussolini pensò di affidarsi ad Alberto Beneduce. Probabilmente, scrive il curatore Valerio Castronovo nella prefazione alla Storia dell’Iri. Dalle origini al dopoguerra (pp. 616, 35), che Laterza si accinge a mandare in libreria, Beneduce non fu la prima persona su cui il capo del fascismo puntò. Anzi è quasi certo che per qualche tempo pensò di affidarsi a Giuseppe Zuccoli, uomo della Commerciale. Poi però cambiò idea.
Mai fascista fino a quel momento, anzi ostile al Pnf, massone, di tendenza socialriformista, Beneduce era un grande personaggio. Il suo miglior ritratto storico – assieme al profilo nel Dizionario biografico degli italiani Treccani curato da Franco Bonelli – è quello di Mimmo Franzinelli e Marco Magnani Beneduce. Il finanziere di Mussolini, (Mondadori); ma su di lui vanno letti con attenzione anche gli atti del convegno dal titolo Alberto Beneduce e i problemi dell’economia italiana del suo tempo, curati da Pietro Armani, editi da Edindustria, nonché Alberto Beneduce: un grand commis tra socialismo e fascismo di Lorenzo Iaselli nel numero 1 di «Archivio storico di Terra di Lavoro» e Il primo Beneduce 1912-1922 di Serena Potito, pubblicato da Edizioni scientifiche italiane.
Beneduce era stato un seguace di Leonida Bissolati. Il suo socialismo, però, – hanno scritto Franzinelli e Magnani – non era «quello operaio o bracciantile, tipico delle leghe e delle cooperative padane… era piuttosto una visione sociale e civile che ben si combinava con l’appartenenza alla massoneria di cui divenne esponente tra i più autorevoli, tanto da scalarne la gerarchia fino al massimo grado». Negli anni che precedettero l’avvento del fascismo, Beneduce – divenuto un collaboratore di Saverio Francesco Nitti – era stato presidente della commissione Finanze e Tesoro della Camera e anche, tra il luglio del 1921 e il febbraio del 1922, ministro del Lavoro e della Previdenza sociale nel governo guidato da Ivanoe Bonomi. Alla vigilia della caduta del regime liberale si era dato da fare – senza successo – per promuovere un’intesa di governo tra i socialisti di Turati e i popolari di Sturzo. Ma ciò che maggiormente colpì Mussolini in quell’inizio degli anni Trenta fu la circostanza che non ci fosse istituto (dall’Ina all’Opera nazionale combattenti, al Crediop, all’Icipu, all’Istituto di credito navale, all’Istituto di liquidazioni, all’Imi) che, pur non avendo Beneduce la tessera del Partito fascista, non avesse fatto ricorso alla sua esperienza in campo finanziario. Fu il ministro delle Finanze Guido Jung a persuadere il Duce a mettere nelle sue mani le redini del nascente Istituto per la ricostruzione industriale. Per parte sua, Mussolini si persuase, non a torto, che, proprio per via dei suoi trascorsi antifascisti, Beneduce sarebbe rimasto estraneo alle beghe tra le diverse componenti del regime.
Mussolini nei primi dieci anni della sua esperienza di governo non era stato favorevole all’intervento pubblico nell’economia. Diceva anzi che lo Stato avrebbe dovuto «spogliarsi di tutti i suoi attributi economici» e, scrive Castronovo, «neppure negli ultimi mesi del 1930, quando le disastrose perturbazioni determinate dal crollo di Wall Street cominciarono a propagarsi a raggiera dagli Stati Uniti in Europa, il governo si sentì in dovere di procedere a un cambiamento di rotta verso un indirizzo dello Stato decisamente interventista». Anche se non si vedeva dove le imprese avrebbero potuto attingere nuove risorse, dal momento che, con il ritiro delle linee di credito concesse tra il 1925 e il 1927 da alcune banche americane e da altri finanziatori stranieri, quelle che ne avevano beneficiato non poterono più contare su altre eventuali iniezioni di capitali dall’estero. Ma nel 1930 Mussolini pensava che a fronteggiare la crisi bastassero alcune misure deflazioniste, come una decurtazione dei salari e un calmiere del prezzo dei beni di prima necessità. Il 28 settembre del 1930 si presentò al Senato per annunciare la decisione di ridurre le retribuzioni dei lavoratori dicendo: «Noi abbiamo una nostra capacità di resistenza dovuta – sembra un paradosso – al nostro non ancora sviluppato sistema economico moderno». Per poi aggiungere: «Fortunatamente il popolo italiano non è ancora abituato a mangiare molte volte al giorno e, avendo un livello di vita modesto, sente di meno la deficienza e la sofferenza». Caso mai c’era da preoccuparsi, a suo avviso, delle «classi superiori», che giudicava «tremendamente egoiste» al punto che, disse, «quando invece di avere tre automobili ne hanno soltanto due, gridano che il mondo sta per cadere».
Secondo Castronovo «si trattava di battute demagogiche messe in campo per mascherare una situazione che stava precipitando, ma che si voleva tenere ancora celata per evidenti ragioni politiche». Celata al punto che non venne pubblicato sulla «Gazzetta Ufficiale» il decreto con il quale, il 31 dicembre 1930, il Duce, nell’ansia per un possibile default delle banche, aveva assegnato all’Istituto di liquidazioni il compito di intervenire per una prima «sistemazione» del Credito Italiano e per la copertura dell’intero ammontare dei debiti della Banca Agricola Italiana, posta in liquidazione con tutte le sue attività patrimoniali. Ma la crisi non si fermò.
Undici mesi dopo, nel novembre del 1931, il governo creò l’Istituto mobiliare italiano (Imi), provvisto di un capitale di 500 milioni di lire (fornito dalla Cassa depositi e prestiti e da altri enti pubblici) che, sotto la guida di Teodoro Mayer, avrebbe dovuto concedere prestiti a medio termine a imprese e società di nazionalità italiana emettendo proprie obbligazioni sul mercato per reperire i fondi necessari. E, scrive Anna Maria Falchero in uno dei saggi contenuti in Storia dell’Iri, la comparsa dell’Imi sulla scena «costituì di fatto il prologo del passaggio delle grandi banche miste nella sfera pubblica», dal momento che a quel punto fu chiaro «che non esisteva più alcuna possibilità concreta di mantenere in vita l’ordinamento del credito esistente in materia di finanziamenti industriali».
Nel giugno del 1932 il Consiglio dei ministri fu costretto a prendere atto del fatto che, malgrado le operazioni di soccorso, la situazione delle banche miste e del Banco di Roma non era migliorata. E che, più in generale, non si vedeva alcun segno di ripresa. A fine anno si apprese che gli immobilizzi industriali delle banche erano giunti a toccare una cifra quasi tripla rispetto ai loro depositi e conti correnti, e che s’era aggravata l’esposizione della Banca d’Italia, il cui ammontare era arrivato al 54 per cento dell’intera circolazione monetaria. Di conseguenza «c’era il pericolo che franasse anche l’Istituto di emissione». L’amministratore delegato della Comit, Giuseppe Toeplitz, a poco a poco si convinse che, per liberare la sua banca dagli immobilizzi più ingombranti, si doveva prendere in considerazione l’ipotesi della nazionalizzazione di alcune aziende, cosicché la Commerciale potesse avvalersi dei relativi indennizzi. Fu in quel contesto che un giovane direttore della banca milanese, Raffaele Mattioli, il quale già dal 1931 lavorava ad una idea per il salvataggio complessivo, persuase Toeplitz a gettare la spugna, facendosi promotore presso Mussolini di un piano inteso a trasformare la Comit in un istituto di credito pubblico, che trasferisse allo Stato le sofferenze e i debiti da cui la banca era sommersa per un ammontare di cinque miliardi.
Di lì a qualche settimana nacque l’Iri. La Comit, il Credito Italiano e il Banco di Roma passarono sotto il controllo dell’Istituto, che si sarebbe poi occupato della loro gestione e delle successive operazioni di smobilizzo. Secondo Castronovo «va escluso» che il Duce intendesse attuare attraverso l’Iri «una politica economica esplicitamente dirigista» destinata a prolungarsi al di là del corto mandato temporale dell’Istituto stesso. Mussolini, anzi, in quella fase era «ben conscio dei rischi in cui sarebbe incorso qualora avesse optato per un’economia statalizzata». Sarebbe accaduto che, «oltre a scontrarsi con l’opposizione dei maggiori potentati industriali, sarebbe finito nelle braccia dei fautori del corporativismo integrale, e ciò proprio quando – dopo aver sconfessato Ugo Spirito e i teorici della “Corporazione proprietaria”, protagonisti del convegno di Ferrara del maggio 1932 – era giunto a emarginare dal governo Giuseppe Bottai che ne aveva abbracciato le tesi».
Beneduce, per parte sua, non nutriva certo alcun proposito di natura statalistica, pur avendo avuto modo di riscontrare, in più di una circostanza, quali e quanti guasti avessero prodotto certe spregiudicate manovre speculative o determinate combinazioni affaristiche avvenute dietro il paravento formale di un’economia di mercato. Simile a lui era l’uomo che volle avere al proprio fianco: Donato Menichella, un gigante dell’economia (e non solo) del Novecento italiano, anch’egli senza la tessera del Partito fascista, nominato nell’agosto del 1933 direttore dell’Istituto. Non è «plausibile», sostiene Castronovo, «l’ipotesi di una matrice statalistica dell’Iri… la soluzione che diede vita all’Istituto venne maturando in pratica da un’analisi empirica delle anomalie del sistema bancario e da un piano di risanamento che intendeva, senza sconvolgere i principi dell’economia di mercato, evitare il fallimento delle banche e bloccare la spirale perversa di una crisi altrimenti devastante anche per il regime».
A certificare il «non statalismo» di quell’operazione fu, a sorpresa, il più importante economista liberale del Novecento italiano, Luigi Einaudi, che in una corrispondenza per l’«Economist» lodò l’impresa a cui si accingeva Beneduce. E, a proposito di eventi imprevedibili, Mussolini, in un articolo sul «Popolo d’Italia» del 7 luglio 1933, scrisse che il suo punto di riferimento era adesso il piano del presidente americano Roosevelt, che aveva in comune con quello del governo fascista un principio fondamentale, ossia che lo Stato non poteva «disinteressarsi delle sorti dell’economia», perché ciò sarebbe equivalso a «disinteressarsi delle sorti del popolo».
Beneduce – fa notare Castronovo – aveva conservato, dopo la sua nomina a capo dell’Iri, la presidenza della Bastogi (affidatagli nel 1926 da Volpi e dal governatore della Banca d’Italia Bonaldo Stringher), una sorta di «Gotha della finanza privata italiana», e aveva mantenuto quindi anche il suo posto nel consiglio di amministrazione della Edison, a quel tempo «l’ammiraglia del capitalismo italiano». Certo, prosegue Castronovo, «nell’Italia di allora, dove non si teneva in alcun conto il conflitto di interessi, il suo non era l’unico caso di compresenza alle vette tanto del firmamento economico pubblico che di quello privato, ma indubbiamente il più eclatante e, oltretutto, non senza concreti risvolti sul piano politico». Il fatto che Beneduce occupasse posizioni di riguardo ai massimi livelli di entrambe le sfere dell’universo finanziario e industriale, «se da un lato dava modo al regista dell’Iri di agire da ago della bilancia nei delicati mutevoli equilibri fra mano pubblica e privata, dall’altro consentiva a Mussolini di intervenire nella gestione dell’economia senza darlo a vedere e quindi senza impensierire più di tanto i privati e la Confindustria».
Nel giro di poco più di un anno l’Iri si accollò l’onere del risanamento della Comit, del Credito Italiano e della Banca di Roma «in cambio della cessione di tutti i loro crediti sotto qualsiasi forma e di tutte le partecipazioni azionarie in loro possesso». Così, tramite l’Iri, lo Stato divenne proprietario di queste tre banche, ma soprattutto si trovò a gestire imprese di ogni tipo – industriali, agricole, immobiliari – da esse controllate o partecipate sino a quel momento. Il direttore della Banca Nazionale del Lavoro, Arturo Osio (con la copertura di Roberto Farinacci), auspicava che questo passo fosse la premessa di una vera e propria pianificazione del settore creditizio. I privati e la Confindustria, come si è detto, non si impensierirono più di tanto. Ma tra pubblico e privato si insinuò qualche sospetto. Secondo Vittorio Cini, era ben visibile il rischio che si scivolasse verso «un’economia industriale di Stato». Qualcuno cominciò a parlare di forme appena camuffate di «bolscevismo». Anche a seguito di queste chiacchiere, tra Stato e grande impresa si creò un clima di diffidenza. Negli ambienti industriali presero a circolare perplessità e malumori nei confronti delle soluzioni adottate da Beneduce per provvedere al finanziamento delle operazioni dell’Iri. Mussolini trasmise a Jung (perché si rendesse conto di questo clima di diffidenza) il testo dell’intercettazione di una conversazione telefonica tra Giovanni Agnelli e Vittorio Valletta in cui il proprietario della Fiat aveva detto: «Le obbligazioni sono per aiutare gli industriali… Noi dovremmo essere piuttosto dall’altra parte: finché fosse farsi imprestare soldi dal governo, bene, ma imprestarne al governo è un po’ troppo». A complicare le cose tra Agnelli e Beneduce intervenne nel 1934 il «caso Orazi», approfondito in questo volume nel saggio di Leandra D’Antone che ha per titolo «Da ente transitorio a ente permanente». Agnelli aveva espresso le sue lamentele per il fatto che Beneduce aveva chiamato alla direzione dell’Alfa l’ingegnere Corrado Orazi, ex direttore delle Officine meccaniche. Era il momento in cui si progettava la fusione dell’Alfa stessa con l’Isotta Fraschini, i cui crediti l’Iri aveva ereditato dalla Comit e dal Banco di Roma. Ma Orazi fu molto leale con il senatore Agnelli. E allora ci furono fascisti locali che iniziarono a considerare la presenza di Orazi all’Alfa «come il primo passo orchestrato da Beneduce e Agnelli per la cessione dell’azienda alla Fiat a condizioni liquidatorie». A Orazi venne imputato «il boicottaggio di vendite all’estero e persino un clima di tolleranza dell’indisciplina e dell’antifascismo degli operai». E Agnelli cambiò rapidamente idea sull’Iri. In un consiglio di amministrazione della sua società, nel marzo del 1935, disse che era convenienza della Fiat «impiegare parte delle nostre disponibilità nella costituzione di vari gruppi che si sono formati e si andranno formando per la smobilitazione di aziende tenute in gestione provvisoria dall’Iri».
All’inizio Beneduce provò a «restituire» ai privati la proprietà delle imprese di cui era entrato in possesso attraverso le banche (come la Società Idroelettrica Piemonte, esposta verso la Commerciale con una mole di debiti per oltre un miliardo di lire). Per prendere la Sip, si formò una cordata con Edison, Centrale, Pirelli, Fiat e Gruppo Cini, che però chiedevano allo Stato una «dote» di 700 milioni. La reazione di Mussolini fu indispettita: «Non diamogli niente a questi grandi industriali, sono solo dei gran coglioni». Nonostante ciò, nessuno, neanche Mussolini, pensava di tenere tutto tra le braccia dello Stato; né si voleva rivedere l’impegno a considerare provvisoria l’esperienza dell’Iri: l’Istituto avrebbe dovuto avere tre, al massimo quattro anni di vita, niente di più.
Qualcosa cominciò a cambiare nel settembre del 1935, con la guerra d’Etiopia. Anche perché, sottolinea Castronovo, «il profluvio di commesse pubbliche aveva sgombrato il campo dalle precedenti riserve dei maggiori gruppi industriali e dai loro interrogativi sul futuro dell’economia italiana». Mussolini si convinse che «occorreva predisporre le condizioni economiche più adeguate per affrontare, prima o poi, nel modo migliore un conflitto che avrebbe messo alla prova tanto l’ascendente del regime che la tempra degli italiani». Va dunque messa in conto «più di quanto non si sia fatto comunemente» (scrive Castronovo), anche «questa sorta di personale teorema del Duce per comprendere i motivi che portarono il governo fascista alla decisione di non privarsi dell’apporto di uno strumento come l’Iri, trasformandolo perciò da ente transitorio in ente permanente». Non senza «il concorso» del vertice dell’Istituto di via Veneto, spinto a premere in questa direzione dalla convinzione di poter divenire così un «perno essenziale» del sistema economico italiano.
In questo modo, Beneduce si trovò «a gestire un potere così esteso che con nessun governo parlamentare avrebbe detenuto o comunque esercitato senza alcun intralcio di sorta». A Mussolini quell’uomo piaceva, lo definiva «scienziato dell’economia» e nutriva nei suoi riguardi una fiducia pressoché assoluta. Apprezzava di lui che fosse «autonomo dalle pressioni dei gruppi di interesse privati», che «fosse abituato ad agire con un approccio pragmatico, in funzione di soluzioni concrete e praticabili», che fosse capace «di neutralizzare le sortite estemporanee dei corporativisti, della “sinistra in camicia nera"». Nel 1936 fu la legge bancaria, compimento del processo che era iniziato nel 1933. Sempre nel 1936 l’Iri diede vita alla Finmare a cui dedica – assieme a quelle sullo sviluppo della siderurgia pubblica e alla figura di un altro grande di questa vicenda, Oscar Sinigaglia – pagine di grande interesse il saggio (contenuto in questa Storia dell’Iri) di Marco Doria. E, dopo che alla chiusura dell’esercizio 1936, l’Istituto di via Veneto poté vantare un bilancio in attivo (disponeva per di più di un avanzo di circa un miliardo di lire in titoli patrimoniali), l’Iri nel giugno del 1937 fu trasformato in un’istituzione permanente.
In una relazione interna del 6 maggio di quello stesso 1937 è scritto: «Lo Stato s’è trovato, specialmente in questi ultimi anni, a dover procedere a delle realizzazioni industriali in campi o in settori dove l’industria privata non trovava tornaconto d’andare o vi andava senza quello slancio che è determinato, più che dal tornaconto, dalla necessità politica di risolvere dei problemi economici interessanti l’autarchia economica della Nazione». E per comprendere meglio gli infiniti risvolti di questa vicenda vanno letti – sempre nella Storia dell’Iri – anche i saggi di Adriana Castagnoli, su elettricità e telecomunicazioni, e di Gian Luca Podestà, su autarchia, colonie e riarmo.
L’Italia divenne seconda solo all’Unione Sovietica per il ruolo acquisito dallo Stato nella proprietà e nella gestione dell’economia. Si può ben dire, scrive Castronovo, che in nessun altro Paese capitalistico l’intervento dello Stato nell’economia avesse avuto dimensioni così estese e un analogo spessore. Neppure nella Germania nazista si era arrivati a tanto, in quanto le attività industriali e terziarie più redditizie o rilevanti erano state restituite quasi integralmente ai privati entro il 1937; alla stessa data lo Stato, che era divenuto nel 1933 il principale azionista delle grandi banche, aveva liquidato la quota più cospicua delle sue partecipazioni. Anche se, afferma Castronovo, «quella tedesca pur senza nazionalizzazioni e senza una gestione diretta da parte dello Stato di alcuni settori industriali, era un’economia a suo modo più pianificata di quella italiana e ciò per via di un’intima alleanza fra il Partito nazionalsocialista e il grande capitale finanziario e industriale, nonché della vigorosa politica del ministro delle Finanze Hjalmar Schacht». E Beneduce fu definito lo «Schacht italiano».
Nel contempo si produsse una campagna per mettere in risalto le somiglianze tra il nuovo corso economico e il New Deal dell’America di Roosevelt e (come nota Gian Luca Podestà in un saggio contenuto nel libro) si giunse a millantare la primogenitura dell’interventismo pubblico fascista rispetto al keynesismo, «quale terapia contro la crisi mondiale». Mussolini aveva un’opinione sempre peggiore degli imprenditori italiani. «Questa gente», diceva (come si legge nei diari di Bottai), «la gente dell’industria e dei traffici, è sempre la stessa; invoca l’intervento dello Stato quando gli affari vanno male; e una volta che si siano riassestati, invoca il contrario, il disinteresse dello Stato; e non manca di sostenere i suoi interessi con ragioni di principio… Vorrebbe impedire a noi, uno Stato autoritario, quel che lasciò fare persino ad un Giolitti».
Beneduce e Menichella a questo punto si opposero con fermezza a chi proponeva privatizzazioni precipitose. E, secondo Castronovo, «non uno dei rifiuti opposti dall’Iri a quanti si erano candidati a rilevare una o l’altra delle aziende in suo possesso era stato deciso senza l’espressa valutazione del capo del governo… anche se Beneduce ci aveva messo ogni volta del suo». Nella relazione Iri del maggio 1937 si dice che «in pratica, per conservare l’ambiente favorevole, l’Istituto avrebbe dovuto in ogni occasione mollare, avremmo avuto banchieri e industriali contenti e sui giornali soffietti di incensamento ai dirigenti dell’Iri». Ma Menichella, con un passo rivoluzionario, sconsigliò lo smobilizzo delle partecipazioni Iri, che pure valevano all’epoca oltre quattro miliardi. Anche per evitare di favorire il consolidamento di gruppi industriali le «cui dimensioni non fossero fondate su un’effettiva capacità finanziaria» e, con quella scorciatoia, avrebbero potuto mantenere o conquistare «posizioni ingiustificate di dominio».
Nonostante queste decisioni, tra il 1937 e il 1939 vi furono smobilizzi per un ammontare di 1.377 milioni contro gli 870 di investimenti netti; tornarono ai privati varie aziende elettriche, tessili, immobiliari e agricole che non avevano a che fare con attività siderurgiche, minerarie, meccaniche e chimiche considerate «di carattere strategico». L’Iri restò un ente molto particolare «di diritto pubblico, ma con una conduzione di carattere privatistico, autonomo dai singoli ministeri come del tutto estraneo all’ordinamento corporativo».
Nel 1939 Beneduce dovette rassegnare le dimissioni per motivi di salute: fu nominato senatore, si iscrisse al Partito fascista e morì nel 1944, poche settimane prima della liberazione di Roma. «Filo-giolittiano, nittiano, bonomiano, amendoliano, antifascista, massone, “afascista”, ma devoto a suo modo a Mussolini», scrive Castronovo, lasciò dietro di sé «il vivaio e il laboratorio di un nucleo di manager pubblici e di quadri tecnici (anche attraverso appositi corsi di formazione e viaggi d’istruzione all’estero) quale l’Italia non aveva mai annoverato in passato». Prese il suo posto un uomo di prim’ordine, Francesco Giordano, ordinario di elettrochimica e impianti industriali. Poi fu la guerra. A Menichella, che in questa fase rivelò di essere un grande non solo in campo economico, toccò il compito più difficile: quello di traghettare l’Iri – dopo la liberazione di Roma nel giugno del 1944 e in virtù del suo buon rapporto con il capitano americano Andrew Kamarck – nell’Italia postfascista. Italia postfascista (in questo libro se ne occupa Gianpiero Fumi) nella quale l’Iri incontrò molte ostilità, ma riuscì a sopravvivere grazie all’apprezzamento di grandi personalità: Luigi Einaudi (divenuto nel 1945 governatore della Banca d’Italia; poi quando nel 1948 diventerà presidente della Repubblica, gli succederà Menichella, l’unico tra questi protagonisti dell’economia italiana ad avere avuto un ruolo di primo piano sia negli anni Trenta che in quelli del dopoguerra), Pasquale Saraceno, Cesare Merzagora, Raffaele Mattioli (al quale Alcide De Gasperi avrebbe voluto affidare un importante dicastero economico), Ezio Vanoni (che dello stesso De Gasperi fu consigliere), Franco Rodano (che aveva influenza su Palmiro Togliatti). Purtroppo però, in tempi di democrazia l’Iri che sopravvisse divenne mano a mano irriconoscibile rispetto a quello che era stato, con Beneduce e Menichella, in epoca di dittatura. Cosa che forse meriterebbe ulteriori riflessioni e un qualche approfondimento.
paolo.mieli@rcs.it