Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  luglio 29 Martedì calendario

Il serial killer che metteva in valigia pezzi di donne

Questa storia comincia, e in un certo senso finisce, il 16 novembre 1932: alla stazione centrale di Napoli il treno da Torino Porta Nuova porta con sé due valigie che nessuno reclama, una col lucchetto e l’altra senza, entrambe di colore scuro e molto pesanti. Quando le aprono trovano una donna fatta in pezzi: ma non ci sono tutti, ne manca qualcuno. Qualche ora dopo, alla stazione Termini di Roma, arriva un’altra valigia, ancora una volta senza lucchetto né proprietario: i pezzi mancanti – le gambe – sono dentro.
È il 1932, e non è un anno come gli altri: il 31 luglio in Germania il partito nazista di Adolf Hitler alle elezioni ottiene la maggioranza, in una prigione indiana Gandhi inizia il suo primo sciopero della fame, a novembre Franklin Roosevelt diventa presidente degli Stati Uniti. E in Italia c’è Benito Mussolini. Adesso, poi, c’è una preoccupazione in più: c’è qualcuno che si è divertito a tagliare una donna in pezzi. E sui giornali la storia macabra delle valigie insanguinate diventa, edizione dopo edizione, sempre più importante.
Non è una bella pubblicità per il regime, neanche a dirlo: ma il punto è che gli investigatori, tra le mani, hanno poco o niente, giusto queste parti del corpo di una donna. Ragiona sul caso anche Giuseppe Dosi, un ex questore che non vuole smettere di lavorare: mette assieme dettagli di memoria e articoli conservati, note della questura, denunce di persone scomparse. E il quadro che mette assieme lui, semplicemente, fa spavento: Pasqua Bartolini Tiraboschi è stata uccisa nel 1928, a La Spezia, gettata nel pozzo del giardino di casa; il 3 novembre 1930, sul litorale laziale tra Santa Marinella e Ostia, è stato ritrovato il corpo di Bice Margarucci; la prima è stata tagliata in pezzi, la seconda decapitata. Le valigie insanguinate ritrovate a Napoli e Roma nel novembre del ’32, dunque, rischiano di essere non il primo ma l’ennesimo segnale. Di un serial killer, anche se allora non si chiamavano così.
C’è un dettaglio dal quale partono le indagini: le parti del corpo della vittima nella valigia sono avvolte da giornali. Scritti in inglese, stranieri, uno di Liverpool e uno di Manchester, si direbbe dal nome delle testate. Nella frenesia successiva al ritrovamento nelle stazioni di Napoli e Roma il primo atto degli investigatori è contattare Scotland Yard: ma la pista non porta a niente, i giornali inglesi sono un depistaggio. Ma in quella finzione c’è un tassello piccolo piccolo di verità: i giornali piacciono al serial killer, li legge, li usa, fanno parte della sua vita. E c’è un’altra cosa che l’ex questore Giuseppe Dosi ipotizza: non solo le tre vittime sono state uccise in modi simili, ma facevano anche una vita simile. Cameriere, donne a servizio delle famiglie bene, e soprattutto sole, un po’ in là con gli anni, e a dirla tutta neanche bellissime, anzi.
La svolta nelle indagini arriva per un errore del maniaco: una delle vittime, l’ultima, quella ritrovata nelle valigie, non era così sola. Come le altre non aveva un fidanzato, Paolina Gorietti, di Assisi, una malformazione al piede che la rendeva claudicante: aveva lasciato il paese da giovanissima, era arrivata a Roma e aveva trovato lavoro in un appartamento dietro Villa Borghese; soprattutto, però, dopo un po’ che era in città s’era fatta raggiungere da un’amica, vivevano assieme, e – particolare che al killer sfuggì – quelle due si raccontavano tutto. Anche i dettagli. Figurarsi le novità sensazionali: «Paolina mi disse che si sposava, che doveva partire e aveva bisogno di una valigia. Perché tutto così di fretta?, le domandai io. Per amore, mi rispose». Ma l’amica arrivata dal paese pretese di più: i dettagli sul principe azzurro, innanzitutto, «di come si erano incontrati grazie a un annuncio sui giornali, lui è un ex carabiniere, mutilato di guerra. E comunque prima di lasciarla partire mi sono fatta dare pure gli indirizzi, pure quello dell’uomo a Roma. Ma perché io ero sicura che ci fosse qualcosa sotto, non troviamo mica marito facilmente noi altre...».
È dicembre e l’amica racconta tutto ai carabinieri: «Paolina non mi scrive più, voglio sapere se le è successo qualcosa». I carabinieri vanno a casa dell’uomo, dalle parti di piazza Vittorio: Cesare Serviatti non è un ex carabiniere e la mutilazione alla mano se l’è procurata facendo il macellaio; è seduto in cucina, quando arrivano i carabinieri indossa un impermeabile e si dice pronto a seguirli. L’interrogatorio dura tutta la notte: prima nega, poi confessa. I tre omicidi più altri sei. Tutte donne, cameriere, con i risparmi in banca e neanche un amore. Del resto era uno schema facile quello che applicava: metteva un annuncio sui giornali, prometteva amore e matrimonio, e invece prendeva loro i risparmi e le uccideva. Una, disse nella confessione, l’aveva soffocata mentre facevano l’amore.
Fu condannato a morte. Aveva due complici: lo aiutavano a selezionare le vittime in base a criteri ormai considerati affidabili, come la scarsa bellezza, l’età matura, la solitudine che esprimevano nelle lettere; avevano una specie di istinto per quelle più indifese e fragili: intuito femminile, forse, perché anche loro erano donne. Come le vittime, e come quelle innamorate dell’assassino.