Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1948  dicembre 08 Mercoledì calendario

I cent’anni di nonna Cesira. Lei che cucì le camicie dei garibaldini

Questa è nonna Cesira. Al secolo Cesira Costanti ved. Cianfanini. Nacque esattamente cento anni fa: ieri era il suo compleanno. Nonna Cesira: due mani piccolissime, rugose e solo un pochino tremule, un visetto altrettanto piccolo e altrettanto rugoso, come solcato da mille incisioni d’ago, una raccolta lieve lieve di capelli candidi e fini come seta, e un vestitone di lana verde, una goletta di velluto nero, una collana di corallo, di quelle come portano le bambine, col corno portafortuna ciondoloni. Tutto, rinchiuso dentro una coperta e installato solidamente fra un guanciale, un cuscino e una poltrona.
A nonna Cesira è seccato tremendamente farsi trovare così: lei che fino a un anno fa correva e faceva i duecentoquaranta scalini di casa senza lamentarsi. E invece: una caduta in cucina, mentre pretendeva di sollevare un catino troppo peso per una cosetta fragile come lei, combinò il guaio. Intendiamoci però: quanto a malanni questo si può dire l’unico guaio della sua vita perché vede meglio, sente meglio e mangia cortecce di pane meglio di un giovane anche se i suoi denti (quelli sì!) da un pezzo le hanno detto ciao.
Nonna Cesira abita a Firenze, all’ultimo piano di uno stabile in via Gioberti, in una stanza linda: fra una consolle antica, con sopra una campana di vetro che racchiude Gesù Bambino con fiori e foglie, una stufa di terracotta e uno scaldino. È il suo compito, guardare la stufa, perché ormai nonna Cesira non si può quasi muovere di lì. Sono le buone vicine ad aiutarla, pettinarla, comprarle il pane, farla bella. Perché nonna Cesira è proprio una bella vecchietta. E le piace, anche, sentirselo dire.
Glielo diciamo naturalmente appena vista e lei si fa rossa di confusione come una ragazzina colta in fatto. Si riprende solo dopo quando le chiediamo, per piacere, la ricetta per arrivare fino a quell’età. Non che la confonda essere intervistata: ormai non è la prima volta che le capitano di queste emozioni, durante le elezioni, essendo l’elettrice più vecchia, un giornale aprì la cronaca di quell’avvenimento con un titolo a due colonne proprio su di lei.
«La ricetta?» risponde nonna Cesira prendendoci sul serio. Ha una voce sorda, quasi soffocata. «Si lavora parecchio, nella vita, come ho fatto sempre io. Poi si beve poco latte e molto vino, come faccio io. Poi si ama la pulizia: forse questo più di tutto. E si sta lontano dai dottori e dalle medicine ancora di più…».
«E tutto il giorno, cosa fa, nonna Cesira?». Lei scote la testa. Lo racconta di malavoglia, questo, si arrabbia con quelle mani che non riescono a far più la calza, sta attenta che non si spenga la stufa, legge il giornale (la cronaca da capo a fondo: il resto no) e qualche volta si fa assalire dai ricordi. Ripensa al suo Giuseppe, ci dice, al marito che morì trentacinque anni fa. E ripensa al giorno in cui si sposò: quando aveva vent’anni e portava «un vestito tutto cerchi, sembrava un trabiccolo e non la faceva stare né a sedere né in ginocchio…» Eh, se ce n’ha delle cose da ricordare lei. Va bene che è nata in quel rione e non n’è mai mossa di lì ma una volta – le pare un sogno tanto è lontano – per le nozze d’argento andò perfino a Genova in treno.
«Davvero, nonna Cesira?». «Davvero. E anche la facciata al Duomo ho visto fare. E anche Dante in piazza S. Croce ho visto mettere. Allora facevo la sigaraia. Trent’anni sono stata alla Manifattura, sa? E anche Garibaldi ho conosciuto».
Nonna Cesira a questo punto si erge tutta sullo scaldino che stringe sulle ginocchia. «Me lo ricordo come se fosse ieri; passò a cavallo con un berrettino tondo che pareva un tegamino. E che bell’uomo era! A quel tempo invece io ero una ragazzina di quattordici anni e cucivo le camicie rosse ai suoi garibaldini. Quante ne ho cucite!», mormora quasi fra sé. E non si accorge neppure, questa volta, che tra una chiacchiera e l’altra la stufa s’è spenta. La prima volta che le capita una cosa simile, forse.
«Allora, arrivederci, nonna Cesira». E la facciamo posare per la fotografia. Lei si eccita tutta. «Presto, presto – strilla colla sua vocetta sorda – un giornale!».
«Un giornale? E perché?». Quasi nonna Cesira si offende. Vuol far vedere che legge senza occhiali, perbacco! E racconta di averlo pensato subito, appena visto il fotografo: bisogna posi lo scaldino. Che non abbia a credere, la gente, che sono una vecchia decrepita!»
E si mette a leggere.