Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  giugno 27 Venerdì calendario

Intervista raccolta da Cristina De Stefano

Oriana Fallaci odiava. Le interviste i giornalisti gli articoli su di lei. Odiava le menzogne e i cialtroni. I vezzi. La purezza d’animo, i codardi. Gli italiani. Gli anti-italiani. I terroristi, la guerra: odiava i pacifisti. Le belle anime le odiava così come odiava i dittatori. Per non parlare dei comunisti. E dei politici in generale, dei giudici in particolare, di certi medici. Oriana Fallaci odiava. O almeno è così che ce l’hanno raccontata, a tutti noi nati negli anni Ottanta, a chi ha impattato la sua stella dopo che era già esplosa e in cielo erano rimasti solo polemiche e pettegolezzi. In questo racconto rimane sempre fuori una certa quantità di cose che la riguarda non tanto come figura pubblica, ma in quanto scrittrice, una delle più grandi che l’Italia abbia avuto, una letta fuori i confini di Roma Nord o Capalbio. Provo a mettere in fila un po’ di queste cose: l’amore incondizionato per la scrittura; l’idea che il lettore va preso per la mano o per la gola e portato dentro la storia; il rispetto per la sua intelligenza; la concezione dei libri come dei figli; la cura per il suono della lingua sulla pagina. Leggete per dire l’incipit di un suo articolo su Pasolini:
«Eccolo che arriva: piccolo, fragile, consumato dai suoi mille desideri, dalle sue mille disperazioni, amarezze, e vestito come il ragazzo di un college. Sai quei tipi svelti, sportivi, che giocano a baseball e fanno l’amore nelle automobili (…) Non dimostra davvero i quarantaquattr’anni che ha. Per ritrovarli, quei quarantaquattr’anni, deve andare verso la finestra dove la luce si abbatte spietata sul viso e schiaffeggia quegli occhi lucidi, dolorosi, quelle guance scarne, appassite, la pelle tesa agli zigomi fino a rivelare il suo teschio».
E allo stesso tempo, accanto a questa grazia, c’è la retorica dell’eccesso in ogni giro di frase; le sbracature sulle metafore e le immagini, quello stile che gli americani definiscono “it’s-all-about-me-journalism” e che fa di lei un incrocio tra Joan Didion e Hunter S. Thompson. Senza fare la lagna su quanto l’Italia l’abbia dimenticata e quanto non la meriti, esercizio replicabile all’infinito, qui trovate un po’ di queste cose, dette direttamente da lei. Molte di queste cose si trovano nella preziosa biografia di Cristina De Stefano Oriana. Una donna.

Interviste lette: 32. Caratteri: 19.500. Periodo di tempo: 1961-2006. Tra le firme: Christian Rocca, Margaret Talbot, Gino Nebiolo, Arturo Zampaglione. Tra le testate: New Yorker, La Stampa, l’Unità, Wall Street Journal, Rai.

Il suo primo ricordo?

Mia madre che piange lavando i panni nel catino. Raccontava sempre che, quando era incinta di me, non mi voleva. E poiché a quei tempi per abortire si beveva sale inglese, lei continuò a prenderlo tutte le sere fino al quarto mese di gravidanza. Ma una sera, mentre stava per portare il bicchiere alla bocca, io mi voltai nel suo ventre. Quasi a dirle: “Voglio nascere!”. E allora, zac!, lei rovesciò il sale inglese nel vaso dei fiori. “E fu così che nascesti” diceva. Mamma era colei che mi diceva, magari piangendo: “Non fare come me! Non diventare una schiava del marito e dei figlioli! Studia, vai nel mondo, studia!”. Io non volevo imitare la mamma, volevo vendicarla. (Mio padre, ndr) Era disperato perché, quando sono nata, non ero un maschio. Allora mi ha portato a caccia. (Una donna, 2013 p. 8-10)

Lei com’era?

Ero una bambina estremamente scontrosa, molto taciturna, molto pensosa. Una bambina vecchia. Ero molto brava a scuola, ero educata. Guardavo molto, ero molto riflessiva. Non mi agitavo come gli altri bambini. (Luciano Simonelli, 1979)

Erano gli anni d’oro del fascismo, a casa sua che aria tirava?

Ho avuto la fortuna di essere stata educata da due genitori molto coraggiosi. Coraggiosi fisicamente e moralmente. Mio padre era un eroe della Resistenza e mia madre non gli è stata da meno. E non ho mai dimenticato uno schiaffo che mio padre mi diede. Ero una bambina, e c’era un bombardamento violento a Firenze e la paura mi faceva piangere. Ero con mio padre e mio padre mi mollò questo ceffone tremendo e mi disse: “Una bambina non piange”. Mi ha servito. (Rai, 1990)

E la sua, di Resistenza, com’è stata?

Ero una piccola comparsa di quattordici-quindici anni. Una comparsa con le treccine. Ma c’ero. A Firenze, l’11 e il 12 e il 13 agosto 1944 il mio compito era portare le munizioni ai partigiani che di là d’Arno aiutavano gli Alleati a eliminare le retroguardie tedesche e repubblichine. Poiché i guastatori della Wehrmacht avevano fatto saltare i ponti e la città era divisa in due, gliele portavo attraversando il fiume alla Pescaia di Santa Rosa che quell’agosto era in secca e offriva un passaggio largo trenta centimetri. Coi rotoli di pallottole in spalla, pallottole da mitragliatrice, attraversavo il fiume sotto i colpi dei cecchini che mi sparavano dai tetti, perdio! E non ero una partigiana comunista. Ero una partigiana di Giustizia e Libertà. (L’Apocalisse, 2004 p. 59-60)

l giornalismo quando arriva?

L’ho scoperto attraverso lo zio Bruno, poi il quotidiano di Firenze dove lavoravo da ragazzina, poi un grande e ora defunto settimanale che si chiamava L’Europeo. È grazie a L’Europeo (e ai giornali stranieri, visto che la mia firma è sempre apparsa sui giornali più prestigiosi del mondo) che ho potuto vivere come un tarlo dentro la Storia. Vivere la Storia nell’attimo stesso in cui essa si svolge. Testimoniare le nefandezze della guerra e le porcherie della pace. Conoscere e raccontare chi sono i personaggi o non-personaggi che avendo vinto la lotteria del potere decidono il nostro destino. (L’Apocalisse, 2004 p. 160)

Eppure il suo ingresso nei giornali che contano avviene grazie a un piccolo articolo su un comunista cattolico a cui il prete di Fiesole aveva negato il funerale…

Lo mandai (ad Arrigo Benedetti, direttore dell’Europeo, ndr) senza illudermi che lo pubblicasse. La settimana dopo, in piazza del Duomo angolo via Cavour, eccoti L’Europeo che dall’edicola esibisce in prima pagina un’Oriana Fallaci grosso come un manifesto. E, sotto, il titolo “Anche a Fiesole Dio ha avuto bisogno degli uomini”. Il primo a chiamarmi è lo zio Bruno, quasi irritato da tanto successo. Era un giornalista famoso e temeva che io gli rovinassi la fama. Mi telefonò e mi disse: E ora chi credi di essere, Hemingway? Cretina, e mise giù il microfono. (Una donna, 2013 p. 46)

Presto si trasferisce a Roma e scrive di spettacolo, racconta Cinecittà e poi di Hollywood. Si fa la fama della cattiva. La cattiveria è uno stile o una posa?

A me sembra di essere buona, gentile. Quando intervisto una persona cerco sempre di tirare fuori quello che c’è di meglio, in questa persona. Quando ne faccio un ritratto cerco di presentare i suoi lati migliori. Non è colpa mia se i lati migliori a volte sono i peggiori. A volte potrei scrivere qualcosa di peggio, ma non lo faccio mai. La verità è questa: che tutte le volte che si prova a raccontare la verità, si viene tacciati di cattiveria. Poi quando ci si fa la fama di cattivi, lo si è anche quando si scrive che il cielo è azzurro. (Controfagotto, 1961)

Dagli spettacoli passa al racconto della guerra.

C’è anche chi mi ha accusato, tra le molte accuse, di essere attratta dalla guerra. E io non nascondo che la guerra ha un suo fascino, una sua attrazione. Perché quando si esce vivi da una guerra, da un combattimento, ci si sente vivi come in nessun’altra occasione della vita. Ma la guerra mi ha sempre interessata, è vero, perché io sono nata nella guerra, sono cresciuta nella guerra. Fin da bambina io non ho visto che guerra, non ho sentito parlare che di guerra. E da grande ho cercato di ritornarci, di rivederla, per capirla meglio, per comprenderla, e naturalmente comprendendola l’ho odiata con maggiore violenza. Sono portata a scrivere di guerra, come ho fatto dire al personaggio del professore in Insciallah, «perché niente lo rivela, l’uomo, quanto la guerra, purtroppo, niente ne esaspera con uguale forza la bellezza e la bruttezza, l’intelligenza e la stoltezza, la bestialità e l’umanità, il coraggio e la vigliaccheria, l’enigma». (Rai, 1990)

L’esperienza che l’ha segnata maggiormente?

Città del Messico (migliaia di studenti protestano in pizza, i militari sparano, centinaia i morti, ndr). Nel Vietnam non ho visto niente di simile. Sembrava la strage di Sant’Anna in Versilia, quando le SS sono entrate in chiesa e hanno ammazzato tutti quelli che hanno trovato. (l’Unità, 1968)

Sulla scrittura come ha lavorato?

Hemingway diceva che una pagina scritta bene è come un campo di neve privo di buche, di sassi, di inciampi, sicché ci puoi sciare anzi scivolar via senza rimbalzi né scossoni né sbandamenti. La parola scritta non è muta! È voce. Anche quando scrivo, io non sto zitta. Bisbiglio a me stessa le frasi, me le detto, me le recito, ne faccio una colonna sonora il cui tono corrisponde a quello del racconto e dei dialoghi. (Una donna, 2013, p. 258)

Ha un metodo?

Quando io scrivo un libro mi isolo. Mi chiudo in me stessa, mi concentro su quello che sto facendo. L’ho fatto per Lettera a un bambino mai nato, per Un uomo. Con Insciallah l’ho fatto un po’ più a lungo, perché è stato un libro più lungo, più laborioso.

Visto che li ha citati, andiamo con ordine. Come le è venuta l’idea per Lettera a un bambino mai nato?

Il mio capo, allora, era Tommaso Giglio e mi commissionò una grande inchiesta sull’aborto: «Prenditi quattro mesi», mi disse, «fai quello che vuoi e vai dove ti pare ma torna con l’inchiesta». Dopo sei mesi tornai con il mio fascio di fogli in mano ma invece dell’inchiesta c’era il libro. Non me lo ha mai perdonato e per quindici giorni non mi ha rivolto addirittura la parola. (Famiglia Cristiana, 1993)

Alla base di Un uomo cosa c’è?

Non sono uno di quegli scrittori che – gira e rigira – scrivono sempre la stessa cosa. Ho dei temi di fondo miei, la libertà, la solitudine del singolo. La lotta contro il potere, ma ogni volta li tratto in modo diverso. In Un uomo questi temi, che sono i temi fondamentali del nostro tempo, hanno trovato l’espressione giusta, direi. L’uomo che si ribella al partito e all’ideologia, ecco chi è Alekos. (La Stampa, 1982)

Perché si è infuriata con la Rai per la fiction su Alekos Panagulis, eroe della resistenza greca e suo compagno?

Non ho voluto rivedere il prodotto di quella impudenza, di quella arroganza. Ma chiunque l’abbia visto alla Tv sostiene che esso ricalca sfacciatamente sia Un uomo che l’ultimo capitolo di Intervista con la storia. Quanto a Un uomo, bisogna tenere conto che il mio libro non è un rapporto giornalistico o una “memoria”: è un romanzo, un romanzo di un genere letterario particolare, il roman-verité. Usa fatti veri e nomi veri, sì, ma reinventando la realtà, cioè uscendo dai limiti della cronaca. Si avvale e si arricchisce della creatività, delle invenzioni artistiche che servono a rendere la verità più vera. Ebbene, hanno plagiato anche quelle. Hanno copiato anche i dialoghi. Come spiego spesso in America e negli altri paesi quando mi chiedono se i dialoghi del romanzo sono esattamente quelli avvenuti, io non ho vissuto tre anni con Alekos tenendo un magnetofono in mano. Così i dialoghi che riporto, e anche i racconti delle sue avventure e delle sue sofferenze, sono ricostruiti secondo quel concetto di reinvenzione della realtà. (La Stampa, 1982)

Si è detto che Insciallah, o meglio, la traduzione del libro in inglese, le è costato il cancro, che ne fosse responsabile…

Responsabile no, non esageriamo. Complice sì, lo ammetto. Perché quando compresi di avere un cancro, io stavo ritraducendo Insciallah in inglese. Lo avevo già ritradotto in francese perché la traduzione in francese era pessima. Lo stavo ritraducendo in inglese perché quella inglese era peggiore di quella francese. E mi trovai dinanzi a un dilemma angoscioso: abbandonare il lavoro, correre dal medico, che sicurissimamente mi avrebbe detto “signora, si opera domani mattina”, e quindi lasciare che l’editore impaziente pubblicasse la cattiva traduzione del traduttore incapace; oppure finire il lavoro e poi fare l’operazione. Ci pensai una lunga tormentosa notte e poi scelsi la seconda soluzione. (Rai, 1992)

Poi come andò?

Dopo l’ intervento, ho detto ai chirurgi: voglio vedere quello che mi avete tolto. È roba mia e la voglio vedere. Così mi hanno portato la cosa, questo grosso pezzo di Oriana, insomma “lui” . Una cosa bianca, piccola e lunga. E ho cominciato a parlargli: tu, sporco bastardo. Oh, come lo odiavo. Lo insultavo. Gli dicevo: non permetterti di ritornare, hai lasciato dei bambini dentro di me?, ti ammazzerò, ti ammazzerò, non vincerai. I medici stentavano a crederci. (la Repubblica, 1992)

Le è stato rinfacciato anche questo. È stata accusata di divismo nella malattia…

È vero, conosco l’accusa. “Gretagarbeggia”, “divini silenzi”. Per me è un complimento. Perché io rispettavo moltissimo quella vecchia signora. Ammiravo moltissimo la sua riservatezza, la sua dignità. C’è molta dignità nella riservatezza. I cappelli li porto perché mi piacciono, mi divertono, sono belli, sono comodi. Riparano dal freddo d’inverno, dal sole d’estate. Dagli autografi anche, devo ammetterlo. E comunque, cappelli o no, occhiali scuri o no, Greta Garbo o no, è una mia scelta di vita. (Rai, 1990)

Come anche quella di abbandonare l’Italia. Perché l’ha fatto?

Sono venuta a Ny, suppongo come i nostri genitori e i nostri nonni andavano a Parigi: per uscire dai limiti della propria casa. Sono venuta a New York e mi sono trovata bene. Ma io non ho abbandonato l’Italia. Io anche in Italia ho una casa e ci vengo spesso. È il paese in cui sono nata e che mi ha dato la lingua. Io scrivo in italiano, sebbene ormai sia bilingue. L’Italia è la mia mamma, e l’America è mio marito, l’uomo che ho scelto per viverci il resto della mia vita. (Rai, 1990)

Cosa la affascina degli Stati Uniti?

L’abitudine alla democrazia, quella democrazia la quale ci permette di scrivere che il Presidente ha le mutande a fiori senza essere per questo accusati di lesa maestà, o che il signor XY è un ladro anche se è il cognato della cugina del genero della cameriera del Presidente. L’abitudine a non avere una religione di Stato, a fare la dieta, a flirtare senza vergogna, a darsi del tu, a indossare i pantaloni d’inverno e in viaggio anche se si è donne, a non sentirsi schiavi di nessuno e, soprattutto, a divorziare. (Annabella, 1962)

Il successo le piace?

È una cosa che mi fa paura. Naturalmente nessuno lavora per fallire, per restare sconfitto. Ma il successo è una trappola volgare. Ci vuole molta ironia, anzi autoironia, per sopportarlo. Elisabeth Taylor anni fa disse che il successo è un deodorante che caccia tutti i cattivi odori. Non è vero. Il successo porta i cattivi odori, e non è detto che siano quelli di chi ha avuto successo. Il cattivo odore dell’invidia, della gelosia, della calunnia, della crudeltà. (Rai, 1990)

Con La rabbia e l’orgoglio e il resto della trilogia ne ha attirato ancora di più. Perché ha deciso di iniziare questa battaglia contro l’Islam?

L’Europa non è più l’Europa, è “Eurabia”, una colonia dell’Islam, dove l’invasione islamica non procede solo in senso fisico, ma anche mentale e culturale. Il servilismo verso gli invasori ha avvelenato la democrazia, con ovvie conseguenze per la libertà di pensiero, e per la concezione stessa della libertà. (Wall Street Journal, 2005)

C’è davvero questo rischio?

Mi sono convinta che la situazione è politicamente identica a quella del 1938, con la pace di Monaco, quando Inghilterra e Francia non capirono niente. Con i musulmani, abbiamo fatto la stessa cosa. Guardali: in Europa vanno in giro con i loro chador e i loro burka e i loro djellabah. Vanno in giro con gli abiti che imposti dal Corano, vanno in giro maltrattando le mogli e figlie. Rifiutano la nostra cultura, in poche parole, e provano a imporre la loro cultura, se così si può definire, su di noi. Io li respingo, e non è solo un mio dovere verso la mia cultura. Verso i miei valori, i miei principi, la mia civiltà. Non è solo un dovere verso le mie radici cristiane. (New Yorker, 2006)

Ma lei è cristiana?

Io sono cristiana. L’ho detto chiaro e tondo nel nono capitolo de La Forza della Ragione: io sono un’atea cristiana. Non credo in ciò che indichiamo col termine Dio. Penso che Dio sia stato creato dagli uomini e non viceversa. Penso che gli uomini lo abbiano inventato per solitudine, disperazione. Cioè per dare una risposta al mistero dell’esistenza, per risolvere le irresolubili domande che la vita ci butta in faccia. Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Penso che l’abbiano inventato anche per debolezza cioè per paura di vivere e di morire. Vivere è molto difficile, morire è sempre un dispiacere, e il concetto d’un Dio che aiuti ad affrontar le due imprese può dare un sollievo sterminato: lo capisco bene. Infatti invidio chi crede e a volte ne sono addirittura gelosa. Però mai fino a maturare il sospetto che quel Dio esista, che con tutti quei miliardi di mondi abbia il tempo e il modo di rintracciare me. Occuparsi di me. Chiarito ciò, ripeto che sono cristiana. Che lo sono anche se rifiuto vari precetti del Cristianesimo. Ad esempio quello del perdono anzi del porgere l’altra guancia. E lo sono perché nel discorso che sta alla base del Cristianesimo non trovo alcun contrasto col mio ateismo, col mio laicismo. Parlo del discorso fatto da Gesù di Nazareth, ovvio, non di quello elaborato o distorto quindi tradito dalla Chiesa Cattolica e dalle Chiese Protestanti. Il discorso che scavalcando la metafisica si concentra sull’Uomo e che non riguarda soltanto il libero arbitrio, la scelta, la libertà su cui insisto ne La Forza della Ragione. Riguarda anche la pietà, la speranza, quindi il rifiuto della morte. Ci pensi bene: il Cristianesimo rifiuta la Morte. Attraverso il poetico concetto di resurrezione esalta la vita fino a vedere nella morte un’altra forma di vita. E siamo sinceri: non credendo in Dio, non posso credere neanche nella Resurrezione. Ritengo che la morte sia la fine di tutto e infatti la definisco “uno spreco”. Ma amando appassionatamente la Vita, come faccio a non identificarmi nel Cristianesimo? E poi il Cristianesimo è la filosofia nella quale sono nata e cresciuta. Esprime quasi tutti i principi della civiltà alla quale appartengo. Dal Cristianesimo non posso prescindere. (Il Foglio, 2005)