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 2007  ottobre 27 Sabato calendario

Oriana raccontata Edoardo Perazzi, il nipote

I desideri nascosti, le manie inconfessate, gli aneddoti di una vita, le liti in famiglia per i diritti milionari. Ma anche foto e documenti inediti della grande scrittrice. Edoardo Perazzi, da lei scelto come custode dell’archivio, rivela che cosa c’è sotto quella montagna di carte e di ricordi. Spiegando come oggi l’eredità della zia sia diventata il suo ultimo campo di battaglia.

La bambina bionda ha solo 4 anni. Saltella nel salotto, tenendo in mano un manifesto di cartone alto quanto lei: «Guarda papà, Oriana...». Mostra il fiero faccione della prozia al padre, che sorride benevolo. A casa di Edoardo Perazzi pare non si parli d’altro. Il capofamiglia, del resto, è il custode dei segreti e degli averi della più famosa e discussa scrittrice italiana di ogni tempo: Oriana Fallaci. Mansione in cui sembra avere coinvolto moglie e prole: due adolescenti, un ragazzino e una bambina. Biondissimi e devotissimi al culto dell’ingombrante parente. In ogni senso.

Scatoloni traboccanti di cimeli, romanzi colmi di ordinate annotazioni, contenitori gonfi di vecchie fotografie, quaderni accatastati in una libreria: i lasciti intellettuali e spirituali della scrittrice sono custoditi in questa casa d’epoca al centro di Milano. Perazzi, 44 anni, direttore della comunicazione per una casa di moda, è un uomo piccolo e ovviamente benvestito: con i mocassini ai piedi e una giacca color tortora ben tagliata. l’erede universale della zia: ne gestisce diritti d’autore, libri e scritti inediti, la casa di New York. In un’intervista a Panorama, pubblicata sullo scorso numero, Paola Fallaci, madre di Edoardo e sorella di Oriana, disconosce il suo primogenito per questo attivismo: «Il mio ex figlio» lo chiama. Sostiene che avrebbe blandito la zia per diventare l’unico beneficiario del testamento. Il fratello, Antonio, sarebbe stato ingiustamente estromesso. Edoardo si avvicina a una poltrona. Sopra di lui campeggia un ritratto della zia, fatto dalla pittrice inglese Elisabeth Chaplin. «Mi ripugna che si sia arrivati a tanto» dice, mentre siede compostamente. «Questo livore non lo capisco».

Un’idea se la sarà pur fatta.

Mia madre forse non riesce ad accettare di non essere lei a gestire le «cose» di Oriana. Anche se, negli ultimi tempi, erano arrivate a detestarsi.

Lei invece era il nipote preferito.

Andavo a New York per lavoro almeno una volta al mese, e dormivo da lei. Mi faceva trottare: consegnavo corrispondenza delicata e compravo mezzo etto di prosciutto. Mi confidava quello che scriveva. Mi dava consigli su tutto lo scibile.

Un raro idillio, visto il celebre caratteraccio di sua zia.

Scherza? Anch’io, come chiunque, sono stato vessato da Oriana: dal punto di vista psicologico e fisico. Ma era generosa. Ed era il vero «uomo di famiglia»: irremovibile e decisionista. Ne ero sanamente terrorizzato. Sapevo che mi avrebbe bloccato per qualche compito ingrato. Arrivavo sempre in ritardo agli appuntamenti. Ma ci piacevamo, io e Oriana.

Le due sorelle, al contrario, si detestavano.

Quando è morta, nel 2006, non si parlavano e non si vedevano da tre anni.

Perché?

Per un litigio. Era il 2003. Siedevamo tutti e tre nella cucina della casa in Chianti. Oriana le rivelò: «Ho un cancro al cervello». E le chiese: «Mi puoi accompagnare a New York dai medici?». Mia madre, sbuffando, rispose: «Anch’io sono malata. E ho molto da fare». La discussione degenerò. La accusò di scrivere libri per fascisti. Dopo quel giorno non si parlarono più.

Si odiavano?

Non ha voluto rivedere Oriana neppure in punto di morte, per rappacificarsi. Non andò mai a trovarla in ospedale. Si presentò solo quando seppe che era entrata in coma.

Cosa diceva di sua sorella?

« come Lady Macbeth».

Fragile e malvagia?

Credo che il senso fosse quello.

Come reagì sua madre quando poi seppe che lei era stato nominato erede universale?

Il giorno dopo il funerale arrivò la telefonata degli esecutori testamentari. «Ha lasciato tutto a Edoardo» ci informarono. Lei era sollevata: pensava che Oriana avrebbe dato ogni suo avere alla Chiesa o all’avvocato che le gestiva il patrimonio.

Oggi dice: «Non ero interessata a quei soldi».

 vero. Ma la sua tranquillità economica dipende dalla generosità della sorella. La proprietà dove vive in Toscana vale alcuni milioni di euro. Fu comprata un po’ alla volta da Oriana: tenne l’usufrutto e le lasciò la nuda proprietà. Per questo mia madre ha vissuto sempre con la paura di essere buttata fuori.

Anche suo fratello Antonio fu estromesso dall’eredità.

Li rassicurai: avrei diviso tutto con loro. Non si fidarono. Antonio venne con me nella casa di New York e trovò uno schema di possibile testamento, uno dei tanti. L’avvocato proponeva di dividere l’appartamento: due terzi a me e un terzo a mio fratello. Ma era soltanto una bozza non firmata. Nonostante questo, mia madre decise per la guerra. Mi disse: «Non farti più vedere. D’ora in poi parlerai solo con i miei avvocati». Poi mi fece scrivere dagli avvocati che sarebbe stata sua intenzione impugnare il testamento.

Com’è finita?

Con un accordo: mio fratello ha avuto la mia metà di una casa in Toscana, regalataci da Oriana, e una somma in denaro. Ma mia madre continua a sostenere che io avrei circuito un’incapace: una malata terminale. Invece è rimasta lucida fino all’ultimo giorno.

Quando le annunciò che era lei il prescelto?

Mai. Però mi chiamò per organizzare la sua morte.

In che senso?

Telefonò nel giugno del 2006. Io ero in Veneto. Mi disse: «Vieni immediatamente a New York». Risposi che non potevo. Lei s’inalberò: «Cretino, non lo capisci che sto morendo?».

E lei la raggiunse. Come la trovò?

Mangiava solo zollette di zucchero: era magra come uno scheletro, ma aveva ancora una forza impensabile. Mi diede disposizioni precisissime: la pubblicazione del romanzo inedito Un cappello pieno di ciliege; quali libri rieditare; come gestire i rapporti con la casa editrice. Presi un’aspettativa. Rimasi con lei una quindicina di giorni. Per un’altra settimana l’accudì monsignor Rino Fisichella. Poi restò sola, come sempre. Quando cominciò a non rispondere più al telefono, mi allarmai. Chiamai i suoi esecutori testamentari: «Sfondate la porta. Vedete cosa è successo». La trovarono sulle scale, svenuta. Tornai a New York. Era in ospedale, furente: «M’hanno messo in stanza con un malato terminale, ”sti stronzi» sbraitava.

Le chiese allora di morire in Italia. Come andò?

In agosto facemmo il viaggio con un jet privato. La portai in clinica a Firenze, dove dormì un paio d’ore. Al risveglio era vispissima: «Va’ a comprare una bottiglia di champagne» mi chiese. «Festeggiamo il ritorno a casa».

Ma a casa non ci tornò mai.

Provai a chiamare mia madre. Le chiesi di ospitarla nel Chianti: «Sta morendo, le serve aiuto». Non ne volle sapere: «Non me la piazzare qua che c’ho i polli!». Era impegnata a organizzare una fiera dove avrebbe esposto le sue galline da competizione. Così Oriana morì in un’anonima clinica.

Aveva dato disposizioni anche sul suo funerale?

«Se fai il funerale m’incazzo davvero» diceva continuamente. E mi diede indicazioni, dettagliate. Voleva una lapide che sembrasse un libro, con l’incisione: «Oriana Fallaci, scrittore». Bisognava seppellirla vicino ai suoi genitori. Insisteva perché venisse sparato un colpo di fucile, come per i soldati morti in battaglia. E doveva indossare un abbigliamento particolare.

Quale?

Golfino di cashmere, gonna e giacca di tweed, spilletta degli ufficiali di Orazio Nelson appuntata sul risvolto, l’orologio degli incursori della Marina al polso.

Ha eseguito?

Alla lettera. Ho sgarrato solo sullo sparo: non era una soluzione praticabile.

Che cosa le disse prima di morire?

Una frase di Anna Magnani: «Come è triste morire, dal momento che siamo nati».

L’ultimo rimpianto?

Non avere avuto un figlio, credo. Forse per questo si era attaccata tanto a me. L’unica cosa che mi disse del suo testamento fu che mi avrebbe lasciato l’appartamento: voleva che ci andassi a vivere con mia moglie e i nostri quattro figli.

Allora non voleva trasformarlo in una fondazione, come adesso sostiene sua madre?

Non me ne parlò mai. Anzi, la fondazione si sarebbe dovuta fare nella casa di Firenze, che Oriana aveva comprato con i primi guadagni da giornalista. Purtroppo anche lì aveva intestato tutto alla sorella. E l’appartamento venne venduto.

Quali indicazioni le dette invece sul libro inedito?

Voleva che fosse pubblicato così com’era. «Non devi toccare una virgola» m’intimò. «Elimina solo i refusi».

Però smise di scriverlo per dedicarsi ai libri sull’Islam.

In realtà aveva messo una dedizione incredibile in Un cappello pieno di ciliege. Per tre mesi telefonò al funzionario di una compagnia di navigazione, perché voleva sapere il nome di un vaporetto sulla tratta Livorno-New York: alla talora, il tal giorno. Lui era costernato: «Non c’è modo di saperlo, glielo assicuro». Ma lei non mollava.

Testarda.

Per settimane ingaggiò un’estenuante discussione con Gallimard, il suo editore francese, reo di avere tradotto non fedelmente una parola in un suo libro. Lui cercava di spiegarle: «Signora, le giuro che non si dice così in francese». Lei lo mandava puntualmente al diavolo. Come faceva con tutti.

Vessava chiunque?

Un giorno, nella sua casa a New York, risposi io al telefono. Era Robert De Niro. Voleva parlarle, mi spiegò dopo Oriana, della possibilità di fare un film tratto da Un uomo. Lei afferrò la cornetta, urlando: «Va’ al diavolo, deficiente!».

Come passava le giornate negli ultimi tempi?

Si alzava prestissimo e stava tutto il giorno a scrivere. Poi guardava le televisione, notiziari americani e italiani. Aveva cinque televisori: uno per ogni stanza. E telefonava.

Chi chiamava?

Vittorio Feltri, Sofia Loren e due giornaliste americane: Barbara Walters, della Abc, e Christiane Amanpour, della Cnn.

Non riceveva nessuno?

Non voleva farsi vedere così malridotta.

Per il resto, stava alla macchina per scrivere.

Era ossessionata dalla ricerca della libertà. Quella contro l’Islam era una battaglia contro la prevaricazione.

A lei questa furia ideologica non sembrò eccessiva?

No, basta ripercorrere la vita di Oriana per capire che non c’era incoerenza. La sua parola d’ordine era una sola: libertà. Tutti i suoi reportage lo dimostrano. Dopo l’11 settembre aveva sposato una causa. Ma apoliticamente: anche le sue interviste ai potenti sono così. Non c’è destra o sinistra. Come nei suoi attacchi all’Islam.

La criticarono duramente. Come reagiva?

Ne soffriva molto. Capiva che era vista con sospetto. E che la sua battaglia veniva ostracizzata dai circoli letterari, specie negli Stati Uniti. Per questo mi ha dato disposizioni di ripubblicare i suoi vecchi libri. Aveva fatto piani editoriali dettagliati. Non voleva essere ricordata solo per La rabbia e l’orgoglio.

Come invece succede negli Stati Uniti.

In America non riesco più a fare uscire nulla. Per loro è quella dell’11 settembre. S’è battuta per loro, ma non la vogliono.

In che modo voleva essere commemorata?

Diceva: «Non voglio convegni pallosi dove la gente parla a vanvera». Le proposi allora una mostra. L’idea la divertì. Era vanitosissima. Vedersi dappertutto le sarebbe piaciuto molto.

Davvero le sarebbe bastata una mostra?

Voleva che le fosse intitolata una strada di Firenze. Ma era sicura non sarebbe successo.

La sua vita nel 2011 diventerà una fiction su Raiuno. Ne avevate parlato?

No. Ma non credo le sarebbe dispiaciuto. Non oso pensare però a come avrebbe massacrato l’attrice che la impersonificherà.

Lei si sente osservato.

Da chi?

Dall’ingombrante zia.

Era un’eterna insoddisfatta. Temo il suo giudizio perfino dall’aldilà. Me la sogno la notte, Oriana.

La chiama sempre Oriana.

E come dovrei chiamarla?

Zia...

Zia? Mi avrebbe preso a fucilate.