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 2015  febbraio 17 Martedì calendario

Intervista a Oriana Fallaci di Vittorio Feltri (Stralci, 1991)

In occasione dell’apertura della mostra "Oriana Fallaci. Intervista con la storia" (Milano, Palazzo Litta, 15 settembre - 18 novembre 2007) Libero pubblica ampi stralci dell’intervista che Oriana Fallaci rilasciò nell’aprile del 1991 a Vittorio Feltri, allora direttore dell’Europeo, giornale su cui fu pubblicata. Una intensa riflessione a due voci sulla guerra (la Fallaci tornava dal fronte iracheno) e sul lavoro di inviato.

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Perché uno scrittore celebre come lei continua a fare l’inviato di guerra? «Da bambina lessi che Jack London, grande amore, anzi il grande amore della mia fanciullezza e della mia adolescenza, aveva seguito come corrispondente di guerra la guerra russo-giapponese e qui era stato catturato dai russi con l’accusa d’essere una spia. (Cosa che capita spesso ai corrispondenti di guerra: se ti catturano la prima accusa che ti rivolgono è quella d’essere una spia). E quasi dinanzi al plotone di esecuzione un ufficiale russo gli aveva salvato la vita gridando: "macché spia! Quello è Jack London!". Subito lo raccontai a mia madre la quale esclamò: "ma se era ormai tanto famoso, perché andava a rischiare la vita in guerra?". Non fui capace di rispondere. Ora credo di riuscirvi, invece, e ciò che sto per dire è un discorso che vale nel caso di molti scrittori. Primo fra tutti Hemingway che, pressappoco alla mia età e dopo avere seguito come giornalista la guerra civile spagnola, tornò a fare il corrispondente di guerra nella Seconda guerra mondiale. E Dio sa se era celebre a quel tempo... Aveva già scritto Addio alle armi, Il sole sorge ancora, Per chi suona la campana, Verdi colline d’Africa, Le nevi del Kilimangiaro... Guardi, come faccio dire al Professore nel mio romanzo Insciallah, purtroppo niente rivela l’Uomo quanto la guerra. Niente ne esaspera con eguale forza la bellezza e la bruttezza, l’intelligenza e la stoltezza, la bestialità e l’umanità, il coraggio e la vigliaccheria, l’enigma. Per capire gli esseri umani, insomma, a uno scrittore la guerra serve più di qualsiasi altra esperienza. O dovrei usare la parola avventura? Per vivere, per scrivere alcuni scrittori (e London era uno di questi) hanno bisogno dell’avventura. Io pure». In altre parole andare alla guerra le piace. «Non mi piace nel senso che non mi piacciono i disagi che la guerra ti impone, non mi piace nel senso che non mi piacciono i pericoli a cui la guerra ti espone. Il pericolo d’essere uccisi, di restare mutilati, di venir catturati. Mi piace nel senso che ho detto prima, vale a dire per la verità esasperata che la guerra ci offre, per quello che ci fa capire sugli esseri umani. Io ne sono così convinta che anche parlando del Pistoia, un altro personaggio di Insciallah, sostengo che alla guerra puoi studiare l’esistenza come nessun filosofo potrà mai studiarla. Puoi analizzarvi gli uomini come nessuno psicologo potrà mai analizzarli, capirli come non potrai mai capirli in un tempo e in un luogo di pace. Inoltre la guerra offre la sfida delle sfide, la scommessa delle scommesse: la sfida alla morte, la scommessa con la vita. Quella scommessa, quella sfida mi attraggono. Perché per affrontarle bisogna vincere la paura. Io odio la paura. Senza contare che...» Avanti, continui. «Beh, voglio dire... Insomma, quando sei deluso degli esseri umani... e ormai io sono molto, molto delusa degli esseri umani, la guerra è una gran medicina. Eh, sì io li capisco i disperati che per scappare dal cosiddetto mondo civile si arruolano nella Legione Straniera, vanno alle guerre. Li capisco perché alla guerra il nemico è uno solo, si sa chi è, dove sta, da che parte ti spara. E puoi difenderti. Alla pace, invece, il nemico è tanti nemici, magari i nemici sono proprio tra coloro che si definiscono amici, e non sai chi sono. Non sai dove stanno, da che parte ti sparano... Non puoi difenderti. Sa soprattutto negli ultimi mesi, io sono stata molto sparata. Ho ricevuto molto male. Il male che viene dalla cattiva fede, dall’invidia, dalla gelosia, dalla cretineria, dal tornaconto, dalla mancanza di informazio ne... E appena sono arrivata alla guerra, mi sono sentita meglio. Più serena, più contenta. Mi sembrava che laggiù tutti mi volessero bene, capisce, anche quelli che mi volevano male perché venivano dai gruppi o dall’ambiente di chi mi aveva fatto male. Sì, in quel senso per me, questa guerra è stata una buona parentesi. Paragonati a certi attacchi, a certe perfidie, gli Scud che piombavano su Ryad e Dharan mi sembravano una cosa accettabilissima. Una disgrazia minore, un malanno da cui ci si poteva difendere. E quando sono tornata nella pace, cioè quando ho ritrovato le cattiverie da cui era fuggita, ho rimpianto la guerra. Terribile, eh? Mostruoso. Ma v’è un altro motivo per cui sono andata nel Golfo. Questo: se non ci fossi andata, mi sarei sentita un disertore. Verso me stessa e verso il mio mestiere». (...) E il mattatoio, anzi la mattanza, che ha visto sulla Jaharah road e intitolato "Gli americani di questa guerra"? « Io quando mi chiedono che cosa mi ha impressionato di più in quei quarantasette giorni di guerra, rispondo sempre: la Nuvola Nera. Ed è vero. Non faccio che parlarne, che raccontare la paura in cui vivo dacché ci sono entrata dentro. La paura di morire, tra qualche mese o qualche anno, di cancro. Cancro ai polmoni. Però è una verità non completamente vera. Se la buonanima di Freud mi esaminasse a fondo, scoprirebbe che a impressionarmi di più è stato lo spettacolo di quel mattatoio anzi di quella mattanza, come l’ho vista tre giorni dopo. Mentre si svolgeva, no: non l’ho vista. Mentre si svolgeva, nessuno l’ha vista fuorché coloro che l’ hanno sferrata e coloro che l’ hanno subita e i primi non parlano, i secondi sono morti. Tutti. Eppure la rivedo sempre, quella "mattanza". La rivedo e, con la memoria dell’immaginazione, posso ricostruirla perfettamente. C’è un convoglio che nella notte va lungo la Jaharah Road un convoglio lunghissimo. Dieci chilometri, dicono alcuni. Quattordici, dicono altri. Un convoglio di ufficiali e soldati iracheni in ritirata coi loro cannoni, i loro carri armati, i loro camion. Cinquemila veicoli, sembra. E almeno dodicimila uomini, impinguati dal bottino che hanno messo insieme nelle ultime ore. (Un bottino da poveri: camicie di bassa qualità, coperte di lana, scarpe da donna, televisori, pentole, mazzi di cipolle, giocattoli e vestiti da bambini). D’un tratto dal buio sbucano quegli aerei e quegli elicotteri da Guerre Stellari, quegli F15, F16, F18, F111, quei Cobra, quegli Apache pilotati da moderni guerrieri che sembrano usciti da un racconto di fantascienza. Inesorabili, spietati come angeli vendicatori, si abbassano sul convoglio e sparano. Sparano, sparano... Missili da mezzo miliardo ciascuno, bombe da 500 Chili, mitragliate da 12,7. Metodicamente, scientificamente... Allora i cattivi col bottino da poveri cercano scampo gettandosi a destra e a sinistra tra le dune del deserto. Ma il deserto li imbottiglia, li inghiotte, e gli angeli vendicatori hanno facile gioco. Li ammazzano tutti. Tutti... Sembra che sia durato più di una notte, il massacro, il massacro. Massacro oppure azione legittima? In guerra è più che lecito distruggere un esercito in ritirata. Pensi, ad esempio, a quel che fece il generale Kutuzov durante la ritirata di Napoleone da Mosca. Però quell’azione militare a me sembra un castigo, una vendetta... E l’altra cosa che mi ha impressionato, sa qual è? Lo spettacolo dei kuwaitani che come avvoltoi, sciacalli, si gettavano sopra il bottino sparso sulla sabbia e rubavano il rubato. C’era una coppia di vecchi: marito e moglie, suppongo. Ben vestiti, eleganti. Le raccoglieva le pezze di stoffa prediligendo quelle di seta nera a fiori rossi e gialli. Lui preferiva le banconote irachene. Quando si accorse che lo guardavo indignata, me ne porse una dicendo: "Souvenir"». Non le chiederò nulla, allora di quel pezzo durissimo e coraggioso e che riguarda il Kuwait e che ha intitolato "Post scriptum: la verità". Preferisco continuare il discorso sugli americani di questa guerra: così cambiati che a volte le sono sembrati i tedeschi di Bismarck. «Posso permettermi di dirlo, io. Perché non appartengo al partito dell’antiamerikanismo, io. Non vado e non sono mai andata nei cortei beceri dove si grida americani-go-home. L’America è un Paese che amo, il Paese che ho scelto per vivere e per lavorare. In America ho trascorso e trascorro gran parte della mia vita, non come un ospite ma come un cittadino. E ci sto bene. Mi ci sento a casa mia. Non per nulla a New York ho la mia casa e, come dissi nell’intervista che detti a Gino Nebiolo per la tv, l’Italia è la mia mamma ma l’America è l’uomo che ho sposato. Ho diritto di criticare ciò che in quel marito non mi piace o mi delude. E se mi sbaglio, quel "matrimonio" continuerà più felicemente». Ora, il pezzo che ha intitolato "Il presentimento di Steve". C’è un particolare che mi ha colpito in quella storia inquietante: il fatto che i piloti inglesi fossero così ac-cessibili e che gli italiani fossero costretti, come lei dice, a una ridicola reclusione. Come si spiega? «Con le scelte del nostro governo, suppongo. A mio parere in questa guerra il nostro governo ha fatto scelte sbagliate. E una di queste è stata quella di negare l’accesso ai piloti dei Tornado che stavano nell’Emirato di Abu Dabi. Forse voleva adeguarsi agli americani che stavolta, come sappiamo, hanno cercato di spegnere il più possibile le curiosità della stampa. O forse non voleva che si parlasse di quei piloti, che non si ricordasse la partecipazione sia pure minima che il Parlamento aveva concesso. Il solito gioco di tenere il piede in due scarpe. Ci-sono-ma-non-ci-sono. Non-ci-sono-ma-ci-so-no... Fatto sta che in una base aerea americana io ci sono entrata. Coi piloti americani ci ho volato e ci ho parlato. (Mi riferisco alla missione di rifornimento in volo su cui ho scritto il primo articolo per il Corriere della Sera). Anche nella base aerea che gli inglesi avevano nel Bahrein ci sono stata. Coi piloti inglesi non ho volato ma ho familiarizzato al punto di farci amicizia e ho potuto scrivere quello che avevo da scrivere. Su quegli italiani, invece, non ho potuto scrivere una riga. Mi sarebbe piaciuto parlarne, mi creda. Ma quando chiesi di incontrarli mi fu risposto dal loro comandante che era proibito... E me ne dispiacque. Mi parve ingiusto per quei poveri ragazzi che ogni giorno e ogni notte rischiavano la pelle senza che nessuno sapesse chi erano... Sì, il governo inglese è stato più giusto e più intelligente del nostro. Tutti i giorni l’Inghilterra poteva leggere sui suoi piloti che tornavano dalla missione, guardarli e ascoltarli, sapere come erano. E quelli italiani come erano? Mah!» Mi chiedo quali siano state, a suo parere, le altre scelte sbagliate del nostro governo. «Quella di non avere mandato la truppa come gli inglesi e i francesi. Anche tale scelta ha fatto parte del gioco ci-sono-ma-non-cisono, non-politici, ogni volta che un soldato veniva colpito da una pallottola vagante?». Me ne ricordo. Ma passiamo ad Arafat. Poco fa lei ha citato Arafat. Molti italiani si erano schierati con Arafat, che... «...che si era schierato con Saddam Hussein. Cioè con Mussolini, con Hitler. Coi Gengis Khan. Forse erano italiani di memoria corta, italiani che avevano dimenticato il fascismo. O forse erano italiani che la memoria ce l’avevano fin troppo lunga e che per il fascismo nutrivano, nutrono, una nostalgia. O forse erano italiani molto giovani e molto ignoranti, cioè italiani che non avevano studiato la storia e non sapevano, non sanno, che cosa è stato il fascismo. Ma come si fa a schierarsi dalla parte di un Arafat che si è schierato con Mussolini, con Hitler, cioè con Saddam Hussein? Guardi: Arafat non è una persona seria. Tantomeno intelligente. Per rendersene conto, basta ascoltarlo quando parla in pubblico: non riesce ad articolare una frase sensata, a formulare un discorso che stia in piedi. Tutte le posizioni che ha preso nella sua immeritata carriera sono state leggerezze o errori. Pensi quel che combinò a Beirut e alla figuraccia che fece a Tripoli quando si mise a guerreggiare coi cannoni contro i palestinesi filosiriani. Oh, naturalmente, fino a qualche settimana avanti anche lui era stato un filosiriano... Prima filosiriano, poi antisiriano, prima filogiordano poi antigiordano, prima filoegiziano poi antiegiziano... Cambia sempre parere, lui. Cambia sempre alleanze. il voltagabbana più voltagabbana che gli ultimi vent’anni di storia ci abbiano dato. Io non so come faccia la gente a pigliarlo sul serio. Non so come facciano quelli dell’Onu a riceverlo all’Onu. Non so come faccia il Papa a riceverlo in Vaticano. E ricordo che provai sdegno a leggere che al Parlamento italiano era stato fatto entrare insieme alle sue guardie del corpo armate di rivoltella. Armate di rivoltella! Dentro il nostro Parlamento! Io non so nemmeno come facciano a prenderlo sul serio i palestinesi dell’Olp. Eppure nell’Olp gli uomini intelligenti ci sono. Nel 1972 ne conobbi uno di grande qualità: Faruk El Kaddumi. Ecco un vero capo, mi dissi, un buon palestinese adatto a guidare il suo popolo. Ma El Kaddumi non andò mai oltre un presunto ruolo di ministro degli Esteri, e fu sempre sopraffatto dal signor Arafat». Come si spiega, dunque, il mistero del successo di Arafat? «Anni or sono mi fu detto che si spiegava assai facilmente: Arafat era quello che procurava i soldi. Glieli davano i sauditi attraverso lo sceicco Zaki Yamani, allora ministro del Petrolio. E quando intervistai Yamani, me ne accertai. Erano proprio amiconi, quei due. Fin dall’adolescenza. Avevano studiato insieme in Egitto e, tanto per dirne una, per viaggiare nei paesi arabi il capo dell’Olp usava sempre l’aereo personale di Yamani. Ma poi Yamani cadde in disgrazia, perse la poltrona di ministro del petrolio, e i sauditi smisero di elargire soldi ad Arafat. Re Fahd smise addirittura di rivolgergli la parola. Ho saputo che nell’ultimo incontro con sua maestà, Arafat ha parlato a vuoto per oltre un’ora. Durante quell’ora, neanche una volta il re ha schiuso le labbra. E a un certo punto si è alzato, senza rivolgergli neanche un saluto lo ha piantato lì ed è rientrato nei suoi appartamenti. Il vero mistero, di conseguenza, è un altro. perché, malgrado questo, Arafat resti al potere con tutti gli onori e l’autorità di un capo di Stato. Naturalmente, dopo l’errore di al- learsi con Saddam Hussein sarebbe logico pensare che i palestinesi non lo vogliano più. Ma nel mondo arabo la logica ha un significato completamente diverso dal nostro, sicché è assai possibile che rimanga dov’è. Tanto il mondo dimentica così facilmente. Ha già dimenticato che nel Kuwait i palestinesi di Arafat si sono comportati in modo spregevole, che come collaborazionisti sono stati più zelanti di quanto Saddam potesse sperare, che hanno saccheggiato più degli stessi iracheni, che hanno servito la polizia segreta...» E del modo in cui questa guerra si è conclusa, che cosa pensa? «Non si è conclusa. Si è sgonfiata come un pallone bucato. E, lì per lì, a chi come me si trovava in Arabia Saudita, ciò è parso inesplicabile. vero, infatti, che Bush aveva promesso a very short war, una guerra molto breve. Ma nessuno ci aveva creduto. vero che l’esercito di Saddam Hussein era stato decimato dai bombardamenti aerei e che la Guardia Repubblicana veniva tenuta nelle retrovie, anzi nei bunker delle retrovie, ma nessuno si aspettava che gli americani liberassero il Kuwait in meno di tre giorni, infilandosi nel territorio iracheno con la medesima facilità con cui un coltello si infila nel burro, arrivassero alle porte di Bassora. Tutti o quasi tutti eravamo pronti a scommettere che Schwarzkopf sarebbe arrivato a Bagdad e che Bush avrebbe potuto realizzare il suo sogno di defenestrare l’odiato nemico, consegnarlo a un nuovo tribunale di Norim- berga. Il fatto è che Saddam Hussein non ha combattuto. Come un pugile suonato, incapace di reagire ai colpi dell’avversario, si è fatto riempire di pugni senza restituirne uno. Ed ora credo di capire perché. Non solo perché, lungi dall’essere un vero Hitler, cioè un tiranno che le guerre le sa fare, era un semplice Mussolini, cioè un tiranno che punta sul bluff e basta: "Io vi farò affogare nel vostro sangue eccetera". Ma perché, non essendo del tutto stolto, già prima che il conflitto scoppiasse aveva capito che il suo grosso problema non era la Grande Armada messa insieme da Schwarzkopf: era l’inevitabile rivolta del suo popolo provato dagli otto anni di guerra con l’Iran. In particolare, l’inevitabile rivolta dei curdi e degli sciiti. Non combattendo, tenendo la Guardia Repubblicana al sicuro, ha salvato l’unico corpo col quale avrebbe potuto domare o tentare di domare i ribelli decisi a liberarsi di lui. Infatti, almeno per il momento, rimane assiso sul trono. Cosa che, forse, nonostante le minacce del nuovo tribunale di Norimberga, a Bush non dispiace completamente. Se Saddam cade, infatti, l’integrità territoriale dell’Iraq si sfascia. Il caos di quel Paese assume proporzioni da Ludwig Bolzman, e sia gli americani che i loro alleati rimangono senza interlocutore per firmare l’armistizio, poi la pace». Schwarzkopf dice che è stata una guerra troppo breve, che non si è andati fino in fondo. « vero. Bisogna riconoscere che è stata una guerra brevissima e che non si è andati sino in fondo. Era così facile, ormai, mettere sotto assedio Bagdad e togliersi il gusto di distruggere quel Mussolini. Ma, ragionamenti politici a parte, gli americani non vanno mai fino in fondo. Non applicano mai l’atroce regola che dice: "Quando il nemico è in ginocchio, devi finirlo, tagliargli la gola". Anche in Vietnam fecero una mezza guerra, si sa. E a volte mi chiedo: che cosa sarebbe successo a Berlino se non ci fossero stati i russi e gli inglesi? Hitler si sarebbe suicidato lo stesso in quel bunker?» (...)
VITTORIO FELTRI