Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2007  settembre 20 Giovedì calendario

Oriana nei ricordi della sorella Paola

«Le donne Fallaci sono state tutte arpie. Lo erano le nostre antenate, lo era Oriana, lo sono io. Solo nostra madre era una donna buonissima. Infatti non era una Fallaci».
Paola è la sorella minore di Oriana. Oggi ha 69 anni e conduce una vita ritirata nella loro casa di famiglia nel Chianti. In passato ha vissuto a Milano dove per tanti anni ha fatto la giornalista, come Neera, la sorella di mezzo, morta a 52 anni di cancro, lo stesso male che ha ucciso Oriana, a 77, il 15 settembre di un anno fa. La malattia ha colpito anche Paola ma, a differenza della sorella maggiore, che a lungo ha raccontato nei suoi scritti la sua battaglia contro il nemico (lo chiamava «l’alieno»), non ama parlarne. Né ama mostrarsi: in queste pagine non ci sono sue fotografie attuali. Non le ha volute e noi abbiamo rispettato la sua scelta.
Ha modi schietti e ruvidi, Paola, proprio come Oriana, ma gli occhi sono più dolci e, quando parla, spesso sorride. Ha due figli ormai grandi (Edoardo, nominato erede universale di Oriana, e Antonio) e qui vive sola con i suoi animali: cani, gatti, galline e uccelli di specie rara che alleva. Quando mi apre la porta, i cani la circondano, quasi volessero proteggerla. Non serve. Sa benissimo proteggersi da sola.
Scusi, ma in che senso voi Fallaci sareste arpie?
«Le arpie, nella mitologia, erano creature con il corpo metà donna e metà uccello, tremende, cattive, ma con una grande spiritualità. Le donne Fallaci me le ricordano: hanno sempre avuto il coraggio di ribellarsi, in primis al fascismo, dicendo pane al pane e vino al vino, a costo di essere odiose. Hanno avuto la forza di non sposarsi, in epoche in cui se non avevi un marito non eri niente, e anche di innamorarsi di un’altra donna, quando di lesbiche non si parlava neppure».
Com’è stata la vostra infanzia?
«Essendo la più piccola (nove anni meno di Oriana e sei di Neera, ndr), sono sempre stata esclusa dai loro giochi, ma anche molto protetta da entrambe. Usavano i loro microscopici risparmi per farmi la festa della Befana. Un giorno, Oriana mi regalò una bambola enorme e stupenda, che conservo ancora adesso. Solo pochi anni fa mi ha raccontato che quella bambola in realtà l’aveva comprata per sé ma poi, sentendosi ridicola, l’aveva ceduta a me. stata una delle delusioni più grandi della mia vita. Questo episodio però descrive bene Oriana: era una donna che pensava prima di tutto a se stessa. Poi adattava agli altri ciò che piaceva a lei».
Il suo primo ricordo di Oriana?
«In bicicletta, con le trecce bionde, mentre andava con mia madre a trovare mio padre a Villa Triste, una terribile prigione fiorentina dove rinchiudevano gli oppositori del regime. Era coraggiosa e sempre in cerca di esperienze, voleva a tutti i costi andare con il babbo quando accompagnava ad Acone i soldati americani per farli fuggire. Una sincera piccola partigiana, ma così poteva anche parlare e imparare l’inglese. Per alcuni anni, poi, non visse con noi perché mia madre la diede in prestito a una zia che non poteva avere figli».
In prestito?
«Sì. Questi zii erano ricchi e colti: il marito faceva l’antiquario e insegnava il latino a Oriana, la zia Febe le faceva imparare il francese. Mia sorella è cresciuta in un ambiente agiato, mentre io ho avuto un’infanzia più povera. Anche perché nostro padre, dopo la guerra, era stato eletto alla Costituente ma, prima che entrasse in carica, ebbe un incidente gravissimo con la motocicletta e, per un anno, rimase tra la vita e la morte. Mia madre dovette andare a lavorare in fabbrica, uno scorno enorme per la madre di tre bambine».
Quando tornò a stare con voi, Oriana?
«Quando lo zio morì. Credo che, a suo modo, abbia sofferto il distacco dai nostri genitori, perché per tutta la sua vita ha avuto un amore e una gelosia ossessivi nei loro confronti. Li avrebbe voluti solo per sé, diceva sempre che avrebbe voluto essere figlia unica. Eppure le attenzioni e l’affetto non l e sono certo mancati: tutti in famiglia, comprese le zie lesbiche, la riempivano di complimenti ed erano pazzi per lei. In questo modo le hanno infuso un’incrollabile sicurezza in se stessa. Lei, fin da piccola, aveva ben chiaro che sarebbe diventata famosa in tutto il mondo».
Perché erano tutti pazzi per lei?
«Oriana aveva una marcia in più, che né io né Neera avevamo. Fu chiaro da subito. Nella scuola fascista, vinceva tutti i premi, con grande imbarazzo dei miei genitori che erano antifascisti. Qui in casa ci sono ancora i suoi quaderni: alle elementari scriveva già temi che non sembrano opera di una bambina. Era capace di scrivere pagine bellissime su un chicco di grano».
Non sarà stato facile, per voi sorelle, competere con lei.
«Nessuno poteva competere con lei: era troppo intelligente. Come se non bastasse, studiava, leggeva, si documentava moltissimo. Da piccola non me ne rendevo conto. L’ho capito solo quando sono andata a scuola, al suo stesso liceo, con i suoi stessi professori. Sono stati loro a dirmi che tra lei e me c’era un abisso. Neera, invece, essendo più vicina d’età, si sentiva in competizione, anche se non era altrettanto ambiziosa».
Come reagiva Oriana a un fallimento?
«Non saprei che cosa rispondere: non falliva mai. A scuola prendeva nove in filosofia e italiano, ma era il sette in matematica conquistato a fatica che contava di più: la odiava. Però una volta fallì, quando, stupidamente, si iscrisse a Medicina. Non era la sua strada, sezionare cadaveri la disgustava. I compagni di corso, poi, tutti maschi, dopo averla picchiata in uno di quei riti goliardici che all’epoca si infliggevano alle matricole, le avevano fatto uno scherzo orrendo: le avevano messo in tasca, di nascosto, il pene di un morto. Quando tornò a casa, era sotto shock. Non volle più tornare all’università, e così andò in un quotidiano di Firenze a chiedere lavoro».
E presto iniziò a lavorare per giornali importanti, come l’Europeo: sarà stata contenta.
«Non direi. Oriana era sempre angosciata, mai pacificata. Quando andai a vivere con lei, a Milano, mi raccontava le liti furibonde con Camilla Cederna. Oriana era una che, quando si arrabbiava, urlava e lanciava macchine da scrivere. La cattiveria della Cederna invece era più sottile: prendeva in giro mia sorella perché si vestiva sempre di nero, la chiamava ”Oriana spazzacamino”. Un giorno, poi, la fece convocare dal direttore perché Oriana aveva iniziato un articolo con un avverbio. Di fronte a lui, le disse: ”Mai più, mai più lei deve iniziare un pezzo così, perché questo è il mio stile”. E mia sorella la mandò a quel paese».
Non era pacificata neanche quando arrivò a intervistare i potenti della Terra?
«Dalle lettere che ci scriveva, sembrava sempre triste, preoccupata: odiava la sofferenza che comporta ottenere e scrivere una bella intervista. Adoravo le sue interviste, invece gli intervistati, spesso, finivano per detestarla. A Oriana interessava soprattutto la bellezza dell’articolo: si riteneva uno scrittore, non una giornalista».
Perché ha scelto lo stesso mestiere di una sorella tanto famosa?
«Mi sarebbe piaciuto fare Agraria, ma in famiglia storsero il naso. Oriana, un giorno, mi convinse a provare con la fotografia. Diceva che avrei guadagnato bene, che potevo seguirla nei suoi viaggi, che saremmo state insieme e ci saremmo divertite. Mi comperò una Leica M3, l’accompagnai a intervistare Giovanna di Bulgaria e, visto che gli scatti del fotografo ufficiale vennero male, pubblicarono i miei, che a dir la verità non erano molto meglio. Ma Oriana era esaltata, sicura che avessi trovato la mia strada. Io però non avevo la sua grinta, del lavoro non mi è mai importato più di tanto, mai avuta curiosità per le storie degli altri. Ricordo un’altra volta che sono andata in trasferta con lei: mentre l’aspettavo in albergo a Londra, andai a cena e ordinai delle ostriche, perché non le avevo mai mangiate. Mi portarono queste cose viscide che non toccai nemmeno. Quando lei le vide sul conto, mi fece una scenata. Per mia sorella, in servizio, si dovevano mangiare solo panini».
Che rapporto c’era tra voi, da adulte?
«Era rimasta protettiva, per lei ero sempre la piccolina. Un giorno adocchiò per me un ragazzino sveglio che lavorava all’Oggi. In due mesi organizzò il matrimonio, ci lasciò persino la casa di Milano. Così pensò di sistemarmi e, forse, aveva ragione perché, in effetti, per qualche anno sono stata felice. Poi però mi sono separata, non andavamo più d’accordo: da quando avevo avuto i figli pensavo solo a loro, del resto non mi importava più niente».
Suo figlio maggiore, Edoardo Perazzi, è stato nominato da Oriana erede universale. Se lo aspettava?
«A dir la verità, la cosa mi ha molto stupito. A me l’aveva detto che non mi avrebbe lasciato niente, e io le ho risposto: fai bene, sono vecchia, mi basta poco per vivere. Mi è però dispiaciuto che non abbia pensato all’altro mio figlio, Antonio. Aveva sempre detto che avrebbe dato a lui metà della casa di New York, quella di sotto con il giardino, perché Antonio è architetto del paesaggio. Oriana gli ha sempre voluto bene, lo trovava originale, intelligente. un mistero, per me, il fatto che l’abbia dimenticato nel testamento».
Edoardo ha annunciato la prossima pubblicazione del libro incompiuto di Oriana, quello sulla storia dei vostri avi, a cui aveva lavorato negli ultimi dieci anni.
«Questo è ciò che più mi amareggia, perché lei stessa aveva dato a me una copia del manoscritto e, nelle sue lettere, diceva che non l’avrebbe pubblicato, tantomeno con la Rizzoli, con la quale negli ultimi tempi era in pessimi rapporti. Il libro doveva raccontare la nostra famiglia dal Seicento a oggi, ma non arriva a completare neanche l’Ottocento, si ferma ai genitori dei miei nonni. pieno di vecchie storie che si tramandavano in casa nostra, ma non c’è niente che racconti davvero la mia famiglia. La sua opera di grande scrittrice io la farei finire con la trilogia scritta dopo l’11 settembre».
Con Edoardo ne avete parlato?
«Lui ha sempre evitato l’argomento. E, comunque, oggi non ci parliamo».
Non le pesa questa frattura?
«Dei miei figli ho bei ricordi di quando erano piccoli. Poi crescono, si fanno la loro vita, tu smetti di contare per loro e loro per te. Io, del resto, sono completamente anaffettiva. Sto bene da sola, come tutte le Fallaci. Noi, con gli uomini, alla lunga non ci riusciamo a stare. Neppure se sono i figli».
Quanto era importante il sesso per Oriana?
«Era piuttosto moralista, mia sorella. Un uomo, prima di tutto, doveva stimarlo intellettualmente. L’ho vista davvero innamorata una volta sola. Le altre, secondo me, recitava per autosuggestione, per provare quei sentimenti che prima o poi avrebbe trasformato in parole».
L’amore vero di cui parla è Panagulis, l’eroe della resistenza greca?
«No: François Pelou, giornalista francese, di cui rimase anche incinta. Erano insieme in Vietnam. Ma lui era sposato, con la moglie avevano appena adottato una bambina, non l’avrebbe mai lasciata. Ho letto le loro lettere d’amore: avrei voluto scrivere io una sola di quelle pagine di Oriana, grande come al solito».
Che cosa diceva Oriana in quelle lettere?
«Le solite cose che si scrivono quando si è innamorati. Ma come le scriveva... Pelou lo amava sul serio».
E Panagulis non lo amava, invece?
«Una volta le chiesi: ”Panagulis ti piace come uomo?”. Lei rispose di no. Ma allora, insistevo, che cosa ti piace di lui? E lei: ”Mi piace il Panagulis combattente”. Se Panagulis fosse stato, non le dico un impiegato di banca, ma anche un direttore di giornale, la verità è che Oriana non l’avrebbe neppure guardato. Le piaceva perché lui era l’eroe. Se fosse vissuto, col cavolo che se lo sarebbe tenuto per sempre, a meno che non fosse restato eternamente un Achille».
Lei lo ha conosciuto?
«Certo, è stato tanto in questa casa. Era un uomo adorabile ma sfortunato. Per dire: se usciva a fare un giro in macchina, potevi stare certa che faceva un incidente. Il ritratto che Oriana ne ha fatto in Un uomo, secondo me, non gli corrisponde per niente, ha descritto il personaggio che se ne era fatta».
Oriana non ha avuto figli: quanto ne ha sofferto?
« rimasta incinta tre volte, ma li ha sempre persi: i resti dei suoi bambini sono qui, nella nostra cappella di famiglia. Diceva che non essere diventata madre era il suo grande rimpianto, ma la verità è che non voleva rinunciare al suo lavoro. Se i bambini li avesse voluti sul serio, sarebbe stata a letto. Il suo vero figlio è Lettera a un bambino mai nato e tutti i libri che ha scritto: per loro ha sofferto e lavorato».
Che rapporto aveva con il denaro?
«Di grande rispetto. Viveva con pochissimo, non si concedeva lussi, tranne la follia di qualche gioiellaccio ogni tanto. Se poteva non pagava, in particolare non voleva pagare i medici. Aveva i polipi alla gola per il fumo, l’avevano operata e la prima cosa che ti raccontava era: ”Sai quanto mi hanno preso?”. Però diceva: ”Ho tanti soldi, mi danno sicurezza”».
Era generosa?
«A Natale faceva regali assurdi e orrendi, souvenir che comprava negli aeroporti. E tu eri obbligato a mostrarti entusiasta, altrimenti si offendeva. Erano tutti esposti qui in salotto quando era viva, li ho potuti togliere solo dopo che è morta. Un anno ha detto ai miei due figli: ”In America c’è l’usanza di regalare denaro a Natale”. Loro già si fregavano le mani ma, quando aprirono le buste, dentro c’erano solo vecchi rubli russi. E Oriana: ”Un giorno varranno parecchio, non li fanno mica più”».
Era vanitosa?
«Le piaceva avere i capelli sempre lucidi, puliti, tagliati sempre alla stessa altezza; li faceva sforbiciare anche a me. Visto che era piccola di statura, si metteva sempre tacchi altissimi. Era minuta ma molto bellina: un bel petto, un bel corpicino. Ha mantenuto una bella faccia anche da vecchia, con quei grandi occhi azzurri. Non so dirle se si riteneva bella, però di sicuro si curava. Peccato si comprasse vestiti orridi. L’America, in questo, l’aveva rovinata».
Per esempio?
«Una volta, a Hong Kong, stiamo andando a cena. Lei ha indossato un tremendo abito da sera a quadrettoni rossi. In ascensore con noi entra una coppia italiana e la donna dice al marito: ”Certo che queste americane si vestono in un modo..”. E lui: ”Guarda questa come si è conciata, e sarebbe così carina”. Oriana rimase così scioccata che non disse una parola. Appena furono scesi, rischiacciò il pulsante del nostro piano e andò a cambiarsi».
Lei la criticava mai?
«Impossibile: ti diceva subito che eri un bastian contrario. Ma il vero bastian contrario era lei: quando andavo a trovarla a New York, se mi vestivo con i jeans per andare a cena lei indossava abito da sera, pelliccia, gioielli e mi rimproverava di essere trasandata. Se invece mi mettevo un vestito carino, per dispetto si infilava un maglione slabbrato. Si sentiva in rivalità con ogni essere umano. Per questo era impossibile azzeccarci con lei».
Sandro Sechi, che le ha fatto da assistente nell’ultimo anno a New York, nel suo libro Gli occhi la descrive come una donna piena di manie.
«Quel Sechi è stato spregevole e traditore: nel suo libro ha mancato di rispetto a mia sorella, ridicolizzandola. Ha scritto che malata, beveva solo champagne. Era vero, beveva champagne ghiacciato e tè bollente, ma solo perché erano le uniche cose che riusciva a deglutire con il suo esofago chiuso dal tumore».
Sua sorella è sempre stata laica ma, negli ultimi anni, ammirava molto Papa Ratzinger, l’aveva anche voluto incontrare. E Monsignor Fisichella ha raccontato di essere diventato amico di Oriana. L’ha stupita questo avvicinamento alla religione?
«Abbastanza. La verità è che Oriana è sempre stata vittima di strumentalizzazioni: ai tempi del Vietnam le davano della comunista, per il suo rapporto con Ratzinger ne hanno fatto una bandiera della destra. Lei diceva semplicemente la verità, ma poi ogni cosa è stata camuffata dalla politica. Ha stimato questo Papa dopo aver scritto contro l’Islam, e dopo che lui aveva voluto conoscerla. Ecco perché le piaceva».
Secondo lei sua sorella, verso la fine, ha trovato la fede?
«Impossibile. Se ne era parlato tante volte, anche poco prima che morisse: lei ha sempre detto che, dopo la vita terrena, non c’è nulla. E quel Fisichella le si era avvicinato solo negli ultimi tempi. Il risultato è stato che Oriana ha lasciato alla Biblioteca Lateranense tanti bei libri, compresi quelli di mio padre. Uno, poi, era mio: I sette peccati di Hollywood, il primo libro di Oriana, il più difficile da trovare. Ho chiamato Fisichella chiedendolo indietro, mi ha risposto: ”Cos’è?”. Comunque l’avrebbe fatto cercare e mi avrebbe fatto sapere. Tu l’hai più sentito?».
Negli ultimi tempi era cambiata?
«Si capiva che era una persona malata. La sua capacità di odio si era amplificata, e anche il suo egocentrismo. Però l’ho sempre ammirata per la sua capacità di indignarsi».
Ricordi dell’ultimo periodo insieme?
«Era in questa casa e non la smetteva più di parlare. Non a me: a se stessa. Aveva lo sguardo freddo e distaccato, lo stesso che ho visto negli occhi dei miei genitori mentre morivano, quella speciale indifferenza che hanno tutti gli esseri viventi, anche i miei animali, quando sono vicini alla fine. Ho trovato così strano che non mi abbia scritto una lettera di commiato perché siamo state tutta la vita insieme, quasi settant’anni. Però ho tutte le lettere che mi ha scritto, da quando ero piccina».
Che cosa prova, oggi, a rileggerle?
«Una grande emozione. Tutte le volte che trovo la roba di Oriana, di Neera e di mamma, mi viene da dire: accipicchia che gente brava, altroché occuparsi di cani, gatti e polli, questa era gente con le contropalle. Questo ammiravo di Oriana: ha saputo raggiungere nella vita, anche a costo di un’enorme sofferenza, quello che voleva. Sapeva sopportare, sapeva patire, per il lavoro, per il suo corpo malato, per i suoi occhi ormai ciechi, per il suo cervello, anche quello colpito dal cancro. Povera Oriana. Sa che cosa penso? Che non ha avuto una bella vita, tutto sommato».
L’intervista è finita.
Signora Fallaci?
«Sì?».
 proprio sicura di essere un’arpia?
Invece di rispondermi, mi butta fuori di casa e spranga la porta alle mie spalle.

P.S. Per la cronaca, e benché un anno fa mi siano arrivate telefonate di condoglianze da qualcuno un po’ distratto, il mio cognome è Faillaci. Una «i» in più e tutto il resto in meno: compresa, spero, la storia dell’arpia.