Tratto da Gli antipatici (Bur 1963), 17 febbraio 2015
Tags : Interviste di Oriana Fallaci
Intervista a Ingrid Bergman (1962)
Non riesco a vedere Ingrid Bergman in Svezia: nell’isola di pietre dove trascorre l’estate col terzo marito Lars Schmidt o nella Stoccolma monotona e fredda dove essa nacque sul finire della prima guerra mondiale. Le notti bianche che per sei mesi all’anno fanno spasimare un desiderio di buio e le lunghe notti che per altri sei mesi fanno spasimare un desiderio di luce non si addicono al suo spirito inquieto. La metodicità dei suoi concittadini che non parcheggiano mai l’automobile in un luogo proibito, che non dimenticano mai di mettersi in coda per comprare un francobollo, e son tanto scrupolosi da aver statalizzato perfino i teddy boys utilizzandoli in ore stabilite per le pubbliche necessità (lasciandoli sgavazzare per il resto del giorno nell’apposito recinto che appartiene al municipio), non si addice al suo bisogno di avventura. Quand’ero a Stoccolma io abitavo in un piccolo albergo di fronte alla Reale Accademia d’Arte Drammatica: dove lei stessa ha studiato e dove studiano ancora Max von Sidow e Ingrid Thulin, Gunnar Bjornstrand e Ingmar Bergman. Dalla finestra della mia camera mi divertivo a guardarli quando entravano alle otto del mattino o uscivano alle sei del pomeriggio: puntuali come ferrovieri, inosservati come maestri di scuola, anonimi, vestiti di grigio. E pensavo che Ingrid Bergman non avrebbe potuto essere una di loro. In quanto svedese, Ingrid Bergman è tutt’al più Peer Gynt che alla vigilia delle nozze con Solvejg fugge pel mondo e vi vaga per tornare al villaggio solo quando starà per morire. Come Peer Gynt infatti essa fuggì giovanissima dalla Svezia, conobbe molti amori e molti paesi, fu americana in America, italiana in Italia, ora è francese in Francia insieme a un marito che ha qualcosa, anche lui, del Peer Gynt. Di tutti questi paesi ed amori quello che ha lasciato in lei una impronta più forte è il paese più forte: l’America. E in America, terra di avventurieri, ce la vedo infatti benissimo: coi grattacieli, i gangsters, Broadway, e i popcorn.
Forse perché non avevo capito questo i nostri incontri riuscirono in passato assai male. La prima volta fu a Parigi dove girava un film con Renoir. Le domandai l’intervista, disse "Non mi interessa", risposi "Si figuri se interessa a me" e me ne andai. La seconda volta fu a Londra quando si parlava di un suo probabile matrimonio con Schmidt. Mi concesse dieci minuti e la frase più lunga fu "No comment". La terza volta fu di nuovo a Parigi, quando era ormai la signora Schmidt. Aspettava il marito, il marito tardava, e per non annoiarsi cominciò a chiacchierare: senza uscire però dalla convenzione e dalla diffidenza. Dinanzi al magnetofono invece si aprì come un fiore. Era la prima intervista che facevo con questo sistema e l’idea di dipendere da un oggetto meccanico mi smarriva nel nervosismo. Smarriva anche lei ma ci facemmo coraggio e dopo pochi minuti tutto diventò molto facile. Stavamo nel suo pied-à-terre a Parigi, nessuno ascoltava, la luce degli abatjour era fioca: il suo parlare aveva spesso il sapore di una confessione. Le sue gote diventavano rosse tutte le volte che avviavo un discorso o una domanda un po’ delicata: però mai mi negò la risposta o parve indignarsi, non si indignò nemmeno quando le chiesi se le dispiaceva invecchiare. C’erano rughe sul suo volto che non è più quello che amammo in Giovanna d’Arco o Intermezzo, la maturità incomincia a pesarle e solo il corpo si mantiene giovane e asciutto. Ma lei accetta le rughe come si accettano le piogge ed il sole, l’inverno e l’estate, la vita e la morte: con la serenità di chi capisce che la stagione delle avventure è finita e bisogna pur prepararsi a vestirsi di grigio per tornare un giorno al villaggio. Come Peer Gynt.
ORIANA FALLACI. Signora Bergman, l’intervista che sto per farle si rifà al giornalismo più obiettivo e più indiscreto che possa esistere, io credo. Questo magnetofono registrerà tutto ciò che noi diciamo e poi, parola per parola, lo trascriverò. Più che un’intervista, tuttavia, vorrei fare una conversazione durante la quale io le porrò alcune domande. Possiamo continuare a parlare in italiano?
INGRID BERGMAN. Certamente. Anche se non dovrei. No, non sorrida. È che la commedia di cui sono protagonista, Hedda Gabler, va in scena il 5 dicembre e Raymond Rouleau, il regista, si arrabbia quando non parlo francese. Dice che poi faccio sbagli. Si figuri, non vorrebbe nemmeno che parlassi svedese con Lars. Perché sorride?
Sorridevo perché pensavo che parlare italiano le desse fastidio.
Vuole scherzare? Fastidio?! L’italiano è la mia quinta lingua, anche se ora la sto dimenticando un pochino. Sa, perfino coi miei figli parlo spesso in francese.
Il francese lo parla molto bene, mi pare.
Non quanto l’inglese, il tedesco e lo svedese. Sa, cominciai a studiare il francese a Hollywood, quando sognavo di stabilirmi a Parigi, e lo perfezionai con Rossellini. Quando lo conobbi, Rossellini non sapeva l’inglese, sicché parlavamo francese. Per un anno parlai francese anche dopo essermi trasferita a Roma. Il tedesco invece lo imparai da bambina, quando andavo a trovare le zie ad Amburgo: le sorelle di mia madre. Mia madre era tedesca, morì che avevo due anni. L’inglese è un po’ la mia seconda lingua.
È curioso, signora Bergman, lei è svedese, con una faccia svedese, un nome svedese, una mentalità svedese. Eppure, quando parlo con lei o di lei, ho l’impressione di riferirmi a un’americana. Forse perché non è rimasta molto fedele alla Svezia. O mi sbaglio?
La Svezia mi è stata a lungo lontana, solo da poco la Svezia è tornata a me. O io a lei? Non so. So che soltanto ora comincio a riavvicinarmi alla terra dove son nata: e non solo perché ogni estate ci vado con Lars. Forse invecchiando si torna alle radici. Forse ha ragione lei: non sono stata molto fedele alla Svezia. Durante i venti anni che ne sono vissuta lontano, non l’ho mai rimpianta. Sa, io sono un tipo che si adatta piuttosto facilmente ai paesi degli altri, alle tradizioni degli altri, ai gusti degli altri. Quanto al fatto che lei mi pensi più come un’americana che come una svedese, ora che ci medito... non è la sola. Molta gente mi tratta come un’americana, soprattutto gli americani. Ricordo il giorno in cui tornai negli Stati Uniti dall’Italia. All’aeroporto di Idlewild c’era una folla con i cartelli: "Welcome home!" Tutti gridavano: "Benvenuta a casa, Ingrid!" Eppure non sono mai stata cittadina americana, ho sempre voluto conservare il mio passaporto svedese.
Vuol dire che l’America è stata più importante nella sua vita di ogni altro paese: della Svezia, dell’Italia?
Non so. Direi che l’Italia e l’America sono state importanti nella mia vita in uguale misura. In America sono rimasta dieci anni e in Italia più di otto.
L’America, però... Ecco, credo che mi sentissi più a mio agio in America che in Italia, quando arrivai. L’America era così grande per me che venivo dalla Svezia, così piccola. L’America, per me, era il Successo. Vede: l’America va bene per i giovani e io ero giovane. Va bene per la gente ambiziosa, e io ero ambiziosa. Va bene per la gente entusiasta, e io ero entusiasta. In America tutto sembrava così facile, eccitante, privo di invidia. Sì, all’inizio l’America fu per me come una favola: bellissimi parties, bellissimi luoghi, bellissimi uomini con cui recitare... Poi incominciò la monotonia. E da quel momento mi trovai bene solo negli studios perché gli studios sono uguali in tutto il mondo e al di là di quei muri può esserci la Svezia come la Francia come l’Italia...
Può darsi che mi sbagli, signora Bergman: ma mi sembra di notare una certa esitazione quando parla dell’Italia. Ma lei ci torna volentieri in Italia, o no?
Volentieri? Ma sì! Certo, certo... Non ho niente contro l’Italia. Il fatto è che preferisco Parigi. Parigi è più grande, più larga, a Parigi mi sento più libera, meno osservata. Roma, in fondo, è una piccola città dove non si è mai soli, mai lontani dagli sguardi degli altri. Cammini per strada e odi i commenti: "Questa va fuori con quello", "questa si veste così..." A Parigi nessuno si interessa a ciò che fai.
Eppure una volta, alla televisione francese, lei disse di preferire gli italiani. Ero a Parigi, per caso. Ricordo che il telecronista le chiese qual era il popolo migliore del mondo e lei rispose: gli italiani. Il telecronista ci restò male. Era una boutade?
Io non dico boutades. Io dico solo e sempre ciò che penso. Dissi che gli italiani erano i più buoni: e ne sono convinta. C’è un calore umano negli italiani che non c’è nei francesi. Se chiedo a un francese dov’è la strada Tal dei Tali non mi risponde nemmeno, gli secca aiutarmi. Se lo chiedo a un italiano, non solo mi risponde ma mi ci accompagna e, camminando accanto, mi racconta metà della sua vita: quando è nato, e dove, e da. chi, e le zie, e i cugini, e i cognati. Questa per me è una qualità che neppure gli americani hanno. Anche gli americani aiutano: ma con i soldi. Non so chi ha detto che forse gli americani non saranno i primi ad andar sulla Luna ma saranno i primi a dare i soldi agli abitanti della Luna.
E non sente alcun punto di contatto con gli italiani?
Punto di contatto?! Nooo! Ah! Ha notato il silenzio? Ho esitato a lungo prima di rispondere: ho cercato, ma non ho trovato niente. Io sono troppo diversa, troppo nordica... Capisce cosa voglio dire?
Credo di sì: me lo disse anni fa: "La differenza tra voi latini e noi nordici sta tutta qui, che voi vi arrabbiate per un nonnulla e lo fate vedere; perdonate con facilità, e lo fate vedere. Noi ci arrabbiamo solo quando accade qualcosa di grave, e non lo facciamo vedere; in generale, perdoniamo con difficoltà, e non lo facciamo vedere. Così sembra che voi siate i soli a soffrire o a provare la gioia, e non capite che soffriamo con la stessa violenza, amiamo con la stessa violenza". Qualcosa del genere, almeno. In quella occasione si parlò anche dell’America e dell’Europa. Mi disse che prima...
Prima non mi importava molto dell’America o dell’Europa. Mi importava del successo. Sa, quando uno è giovane non pensa molto. O pensa solo al successo. Per me, prima, la cosa più importante era il successo. Ora... ora non so. Vede, quando si dice successo e si parla della carriera, la gente arriccia il naso perché pensa che una attrice voglia il successo per la fama e per i soldi. Io non ho mai cercato il successo per la fama e per i soldi: nel successo sono il talento e la passione che contano. Mi spiego? Accidenti, è un discorso difficile. Voglio dire che ciascuno nasce con un talento: il talento per scrivere, per cucire, per recitare... E questo talento è amore, è passione. Sicché, quando si fa volentieri un lavoro, ad esempio il lavoro di attrice, non si fa solo per diventare una persona di successo. Si fa anche senza successo a costo di sacrificare cose importantissime.
Allude alla famiglia? In altre parole: vuol dire che la carriera è più importante della famiglia?
Oddio! Come si fa a dire che la carriera conta più della famiglia? Detta così diventa una cosa brutta: perché la carriera è inevitabilmente legata ai soldi e alla fama. Voglio dire che, specialmente quando si è giovani, la passione pel lavoro conta più della famiglia. Infatti pochissime attrici hanno abbandonato la carriera per fare le mogli e le madri, e quelle che l’hanno abbandonata l’hanno fatto magari perché la carriera andava male. Solo Grace Kelly ha lasciato la carriera quand’era al massimo del successo: col risultato che ora voleva riprenderla e, se il pubblico non avesse urlato no, l’avrebbe ripresa. Perché, dico, una donna deve scegliere una cosa sola e rinunciare all’altra? Perché? Essere attrice non significa mica essere una cattiva moglie o una cattiva madre. Io non sono né una cattiva moglie né una cattiva madre: eppure non sopporterei l’idea di lasciare il mio lavoro per sempre. Posso interromperlo per una settimana, un mese, un anno: per sempre, mai.
Vuole dire che essere attrice è per lei un modo di esistere, una necessità, la sua stessa vita? Che rinunciarvi vorrebbe dire rinunciare alla vita...
Proprio così. Voglio dire questo e nient’altro.
Però molte attrici si ritirano alla soglia della vecchiaia: non hanno il coraggio di continuare a esibirsi quando sono vecchie.
Allora non sono attrici. Le vere attrici sono come Ethel Barrymore: continuano a recitare fino a un’ora prima di morire. Perché non dovrebbero? Le attrici ci vogliono anche vecchie, per le parti di donne vecchie. Sia al cinema che al teatro non vi sono mica soltanto parti di donne giovani. A volte, creda, non si tratta di coraggio: si tratta di difficoltà a trovare una parte. Specialmente al cinema è difficile trovare un ruolo per una donna che non è più bella perché tutto ciò che interessa il pubblico del cinema sono le donne giovani, le facce nuove. E quando una attrice è stata grande, è stata Lady Macbeth e Medea, e si vede affidare particine di infermiera, di nonna, di...
Lei non ha paura di invecchiare? Qualsiasi donna ha paura di invecchiare e se mi dice il contrario non ci credo.
Deve credermi, invece: io non ho paura di invecchiare. Invecchiare per me è interessante e riposante. Vede, invecchiando si può sempre dire no, io questa cosa non la faccio, perché ho capito che è sbagliata. Con gli anni si impara e quando si è imparato non si ha più paura di sbagliare: si conoscono i risultati.
Vuol dire che l’esperienza è libertà, e che si è più liberi da vecchi che da giovani? Sarà: ma è una libertà che costa troppo cara: la vecchiaia è attesa della morte.
Io non ho paura di morire e niente vale la libertà neppure la gioventù. Prenda una ragazza di venticinque anni, ad esempio, sì, sì, lo dica pure, una ragazza che si chiama Ingrid Bergman. Una ragazza circondata di persone che le dicono fai questo, fai quest’altro, dài l’intervista a questo giornale perché è importante, accetta questa parte perché ti serve; e lei che è inesperta dice sì, sì, sì: e sbaglia per colpa degli altri. Invecchiando io ho conquistato la libertà di sbagliare con la mia testa e non con la testa degli altri.
Lei usa spesso la parola sbagliare. L’avrà usata almeno cinque o sei volte negli ultimi minuti quasi fosse ossessionata dall’idea di sbagliare, quasi la affliggesse il complesso di aver molto sbagliato. Ha molto sbagliato?
No, no. E poi io non rimpiango gli sbagli, l’ho detto tante volte: se tornassi indietro rifarei ciò che ho fatto. Rimpiango solo la paura, so che ho avuto molta paura nella vita, che ho troppo ceduto alle pressioni degli altri.
Lei è troppo severa con se stessa. Secondo me, lei è invece una donna molto coraggiosa, il tipico esempio di donna coraggiosa. Infatti, per quel che ne so, ha sempre fatto ciò che voleva: sfidando anatemi e insulti. Ha amato chi sentiva di amare, ha sposato chi desiderava sposare, s’è messa contro l’America...
Mah! Per lei è stato coraggio, per me è stata paura. Forse invecchiando sono diventata più coraggiosa: ma io parlo degli anni in cui lei non mi conosceva, molti anni fa, quando incominciavo a essere la Bergman. Allora avevo tanta paura. Per arrivare ho percorso una strada piena di tanta pena: tanta, tanta pena. Il lato esteriore della mia professione...
Cosa pensa del lato esteriore della sua professione? Del fatto, a esempio, che io sia qui, con un magnetofono davanti, a registrare tutto quello che dice? O del fatto d’essere guardata per strada, giudicata dalla folla, criticata sui giornali? Io penso che questo è il lato più orrendo del successo, il più inaccettabile. Vivere perpetuamente sotto le luci, costretti a confessarsi: ciò le dà fastidio o le piace?
Questo non lo so. Fastidio... no. Non posso dirlo. Posso dire solo che non mi dà alcuna gioia. Accetto queste cose per passione: perché appartengono al mestiere. Ora, per esempio, faccio Hedda Gabler, vengono i giornalisti, capisco che è giusto informare il pubblico, e parlo, parlo, parlo... Fuori lavoro, però, non mi piace. Vede, tutta la mia vita è stata afflitta dai giornalisti: troppi, troppi... Certo quando la gente dice: "Cara signora Bergman, se nessun giornalista, nessun fotografo la cercasse, vorrebbe dire che lei non interessa più", quando la gente dice questo rispondo sì, forse è vero. E così accetto i giornalisti, i fotografi. Solo a Roma, a Roma solamente, non li accetto. A Roma è uno strazio. Non è vero che quei fotografi ci sono anche a Parigi, a New York. Solamente a Roma...
A Roma ha schiaffeggiato quel fotografo. Sono rimasta molto stupita, lei non è il tipo che schiaffeggia i fotografi. È talmente paziente, educata, capisce il lavoro degli altri... Perché lo ha fatto?
È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, bisogna capire. Tutti i mesi io vado a visitare i bambini, e tutti i mesi i fotografi saltano addosso a me ed i bambini. Come hanno fatto a settembre, a ottobre, a novembre, così faranno a dicembre e a gennaio: inutilmente io chiedo perché, dico siamo sempre le solite facce di novembre, di ottobre, di gennaio, sono sempre i soliti bambini, lasciateli fare per carità. Lo schiaffo a quel fotografo... be’, non dico che quello fosse peggio degli altri, è che la mia pazienza era finita: in quel momento. Mi seguivano per la strada da un’ora, erano tanti. Sono entrata dentro un negozio per comprare le scarpe ai bambini e ho detto lasciatemi comprare in pace le scarpe, per cortesia. Sono rimasti fuori ad aspettarmi, poi il più maleducato è entrato ed ha fatto ciò che gli altri non osavano fare perché più educati. Di questo passo, dico, te li trovi in camera da letto, nel bagno: non si può essere perseguitati sempre così...
In realtà, fra tutti i personaggi degli ultimi quindici anni lei è stata forse la più perseguitata. Spesso mi chiedo se da queste esperienze una donna ricavi saggezza o rassegnazione. Rassegnazione... mi faccia pensare: forse no. È così battagliera, non ha l’aria di una donna rassegnata.
Lo dice lei. C’è anche tanta rassegnazione, invece. Più che saggezza.
Diciamo allora cattiveria, indurimento. Molta gente diventa più cattiva, con l’esperienza, più dura: e non mi riferisco, è evidente, all’esperienza dei fotografi... Voglio dire: ci sono uomini e donne che dalle sconfitte ricavano una lezione di bontà e di tolleranza, altri che ne ricavano tutto il contrario.
Io il contrario, mi creda. Fin... troppo. Io trovo che più si vive e più si soffre, più si capisce: e la comprensione è la cosa più importante nella vita. Non ci può essere cattiveria quando c’è comprensione, ed io ho molta comprensione.
Non ha rancori?
Mai, mai. Per un momento posso arrabbiarmi: come è successo col fotografo. Poi dimentico. O meglio: ricordo solo d’essermi arrabbiata, ma non ricordo perché. Io non capisco la gente che ricorda troppo e che dice "lui mi ha fatto male e non gli perdono". A che serve? Forse colui che non si è perdonato soffre perché non si è perdonato? Nemmeno per sogno. Soffriamo noi: che teniamo rancore.
È una filosofia assolutamente cristiana, invidiabile...
È un dono di Dio, creda, un dono di Dio...
Così difficile a ricevere e applicare, però. Lei l’ha sempre applicata con tutti? Anche con gli uomini che ha amato e l’hanno ferita?
Anche con loro, soprattutto con loro. Di loro io ricordo solo i momenti belli e buoni. Io posso avere una memoria molto cattiva, sa?
Sì, mi ricordo: quella splendida frase che lei dice a proposito della felicità. L’ho letta molte volte, e ogni volta con turbamento: "La felicità è fatta di buona salute e di cattiva memoria".
Non è mia. L’ho rubata: al dottor Schweitzer. Ma so applicare anche questa, perché la buona salute (toccando legno) è sempre stata con me: come la cattiva memoria. Io penso infatti che se uno è ammalato o povero ben difficilmente può essere buono. I dolori fisici incattiviscono, come la fame. A volte la gente povera si prostituisce per fame: e così diventa cattiva. Io non sono mai stata povera, non ho mai sofferto la fame, non ho mai avuto bisogno di fare cose che non mi piacevano, subire persone che non mi piacevano, accettare lavori che non mi piacevano, lei capisce a cosa alludo, per guadagnare il mio pane. Sono stata molto fortunata. Molto.
La fortuna è, come tutte le cose, un punto di vista: un modo di contentarsi. A volte la si ha, o si crede di averla, in certe cose; e in altre no. Pensa di averla avuta anche con gli uomini che le è capitato di incontrare? I mariti?...
Ah, ah! So benissimo a cosa pensa lei... E sa che le dico? Le dico sì, è stata anche quella una buona fortuna. Mi è servito anche quello a diventare più ricca.
Ma lo sa che è generosa? Straordinariamente generosa...
È possibile... Anche Lars lo dice. Un giorno qualcuno chiese a Lars quale fosse la mia qualità dominante e Lars rispose: la generosità. Mon Dieu... ora cosa sta per farmi dire?
Veramente, stavo chiedendo una cosa a me stessa. Stavo chiedendomi se lei è religiosa. Una simile generosità, o filosofia, o saggezza in una donna vulnerabile come lei dovrebbe nascere dalla religione. È così?
Uhm. Non che sia contraria alla religione: affatto. Trovo che tutte le religioni sono buone se insegnano ad essere bravi, a non far del male agli altri, a non farne a se stessi, a non rubare, a non ammazzare... Sì, sì, tutte le religioni sono buone. Io sono religiosa così, come la maggior parte degli uomini e delle donne. Ma non particolarmente... Le religioni...
No, no. Io parlavo di fede. Volevo dire: lei crede in Dio? Comunque, cambiamo discorso. Non vorrei che si arrabbiasse con me come con quel giornalista che le chiese se aveva la pace dello spirito. Un giornalista americano, mi pare. Dice che lei cominciò a brontolare: "Lei ce l’ha la pace dello spirito? Eh? Lei ce l’ha?"
Ma sì: cos’è la pace dello spirito? Lei lo sa? No? Nemmeno io. Cosa vuol dire? Chi ce l’ha? Gli asceti chiusi in convento, forse, le creature insensibili, coloro che credono in Dio e vivono in un religioso nirvana. Non chi deve cercare un tassì a Parigi alle sei del pomeriggio. Non noi, voglio dire. Oh! La pace dello spirito!
Va bene, va bene. Lasciamo perdere. Come lei sa, questa conversazione-intervista pretende di fare un ritratto di Ingrid Bergman. Un ritratto senza lineamenti fisici: quelli li conoscono tutti. Lei è qui, sempre bella, sempre uguale, col suo viso senza cipria e i suoi capelli spettinati, e descriverla ancora una volta non racconterebbe nulla di nuovo. Io devo aiutarla invece a raccontare qualcosa di nuovo a se stessa. Se si dovesse descrivere, come si presenterebbe? Ad esempio: il carattere. È autoritaria? È sicura? È timida?
Autoritaria, mai. Sicura sul lavoro, e solo su quello. Sul lavoro, se io ho un’idea che credo giusta, non sono disposta a cambiarla. Divento una testa di ferro. Ma nella vita... Oh, nella vita sono piuttosto timida: non lo vede? Qualunque persona può darmi consiglio, farmi cambiare idea, cambiarmi. Io cambio idea continuamente...
Sicché è ancora quel che scriveva nelle lettere a sua cugina Anna, si ricorda?, tredici anni fa: le lettere furono pubblicate. "Io sono un Flygande fagel..."
Vuol dire uccello migratore, in svedese. È un uccello che non sta mai fermo, vola continuamente, e non piccoli voli: ma voli che lo portano da un continente all’altro. Sì, questo lo sono ancora: e non solo in senso geografico. Flygande fagel... Un uccello che non vuole star chiuso... Non volevo essere solo un’attrice svedese, volevo conoscere il mondo e la gente, tanti posti e tante persone... Flygande fagel... Quando mi trovai chiusa dentro i muri di quella bellissima prigione che è Hollywood, e non potevo più volare, vivere... amare e capire...
Amare e capire non sono la stessa cosa. Eppure, leggendo le altre interviste con lei, ho notato che mette spesso insieme queste due parole. E non so dove ho anche letto che quando lei si innamora si innamora anzitutto o soprattutto col cervello.
Non so. Certo, io non posso dividere il cuore dal cervello. Quando un uomo mi piace, mi piace evi cuore ma nello stesso tempo lo giudico col cervello, mi chiedo se vale qualcosa. Insomma: io non posso, non potrei mai innamorarmi di un cretino.
A pensarci bene, nessuno dei suoi mariti lo era: né lo è. Eppure tanti uomini intelligenti si innamorano di cretine, e tante donne intelligenti si innamorano di cretini.
Non è possibile, non è possibile.
E in amicizia? Mi parli dell’amicizia, dei suoi amici. Ho l’impressione che lei sia portata facilmente all’amicizia: soprattutto con gli uomini. Chissà perché penso che non sia capace di amicizia con le donne. Vero è che con le donne è sempre più difficile confidarsi: sono più cattive, più pettegole...
No, no, no, no! Io ho un’alta opinione delle donne. Io sono convinta che le donne siano intelligenti, brave, coraggiose, capaci di fare qualsiasi lavoro come gli uomini, anzi più forti degli uomini. Io ho amici donne nella stessa misura in cui ho amici uomini: senza rivalità, né pettegolezzo, né gelosia. Vero è che non ho molti amici, è più giusto dire che ho molti conoscenti. Gli amici sono quelli che ti conoscono da anni, che ti vogliono bene da anni. I miei amici sono quelli della mia giovinezza. Per questo, oggi, non posso farmi più amici.
Lei è una persona imprevedibile: nello stesso momento in cui si crede d’averla capita, ecco che oppone qualcosa di diverso o di nuovo. I suoi figli le assomigliano?
No, non credo. Forse Robertino... così calmo, frenato da una certa timidezza, con idee chiarissime però, svelto a capire la gente... Pensi: ha già tredici anni, ormai. A pensarci bene, però, nemmeno lui. Delle gemelle, Ingrid è quella che mi assomiglia di più. Ordinata come me, controllata come me. Isabella invece è irruenta, passionale. Tutta suo padre. Il fatto è che i miei figli vivono sempre in Italia, sono con me solo per le feste, un poco l’estate; vanno a una scuola italiana, parlano quasi sempre italiano, finiscono con l’essere più italiani che svedesi.
Ciò le dispiacerà, suppongo.
No, no. Perché? L’importante è che vogliano un poco di bene anche alla Svezia e che si ricordino, un giorno, che la loro madre era svedese. Il resto, sa... Ogni persona cresce come cresce: ci sono le caratteristiche del padre e della madre, c’è l’amore e l’educazione che si riceve... poi sopravvengono situazioni e influenze diverse...
Nelle cause di separazione, nei divorzi, generalmente i bambini vengono affidati alla madre. Forse era più giusto che vivessero con lei.
Non siamo arrivati a questo. Troppe lotte.
E lei ha ceduto. Continuo a pensare che lei sia generosa.
Odio le lotte, le odio. Quando poi ci sono in mezzo i bambini che soffrono... E così dico meglio così. Dico pace, pazienza, andiamo avanti così...
Però stavano volentieri con lei.
Certo. Ma stanno bene anche dove stanno: a Roma. Così hanno la pace. Ah! Ah! La pace dello spirito...
E Jenny? Vive con lei e Lars a Parigi, vero? Mi parli di lei. Dalle fotografie mi pare che le assomigli in modo impressionante: gli stessi occhi, la stessa bocca, le stesse guance, lo stesso corpo. Perfino le mani, e il modo di camminare, sono uguali...
Non Jenny: Pia. Pia ha ripreso il suo nome, quello con cui fu battezzata. Tornando da me disse: "Voglio che tutto tra noi, ricominci come prima". Pia mi assomiglia anche nel temperamento. Abbiamo le stesse idee, gli stessi sentimenti, gli stessi gusti. Ciò è curioso pensando che Pia non è vissuta in Svezia, ma in America, è così americana, ed è cresciuta lontano da me. È stato consolante ritrovarci anche interiormente. Ci intendiamo alla perfezione, io e Pia. Del resto è una donna adulta, ormai. Ha ventiquattro anni.
Ho sentito dire che voleva fare l’attrice.
Non è vero. Glielo hanno chiesto, questo sì. Tante volte. Ma tante, tante. Un giorno mi disse: "Sai, mamma. Forse faccio male a dire sempre di no. Io non credo di avere talento, ma quando mi accorgo che neppure gli altri ne hanno..." Pia lavora all’Unesco: una specie di segretaria. Sta imparando il francese. Però si interessa molto al teatro, alla produzione. Viene sempre in teatro, con Lars. Lei e Lars vanno molto d’accordo. Lars...
Mi sono chiesta spesso quale posto definitivo abbia Lars Schmidt nella sua vita. Naturalmente, è impossibile ed anche abusivo entrare nel cuore degli altri, però... Ecco, penso che Lars sia importante per lei proprio perché è un uomo della sua terra. In fondo ci si trova sempre meglio con la gente della nostra terra. L’intesa è più probabile.
Io non credo, invece, che sposare un uomo della propria terra sia condizione di felicità. Mamma mia! Pensi a quanti matrimoni felici tra gente di paesi diversi. Il mio è un caso speciale. In Lars ho trovato una persona che ha fatto le mie stesse esperienze, che ha vissuto negli stessi paesi, a lungo anche in America, per esempio. Lars viaggia molto, come me, ma la sua gioventù l’ha passata in Svezia, come me. Le sue radici sono in Svezia e così ho scoperto in lui tante piccole cose che sono le mie cose: scherzi, sfumature, ricordi impalpabili, cose di bambini che non posso trovare in altri. Ma sì, forse ha ragione lei: Lars è la mia terra.
Ha un’aria felice quando parla di lui: proprio come anni fa, quando la intervistai in questo ufficio, ricorda? Le brillavano gli occhi come non avevo mai visto brillare gli occhi. E così mesi prima, quando venni a Londra e le chiesi se lo avrebbe sposato. Diceva no, no, no comment. Capii che lo avrebbe sposato perché rideva. Rideva troppo.
Sì, ricordo. Fu lei a chiamarlo l’uomo in grigio. Stamani ho detto a Lars: sai chi viene? La giornalista che ti chiamò l’uomo in grigio. Ne ridiamo ancora... Certo che sono felice: lei conosce Lars, lo ha sentito parlare, è un uomo intelligente, divertente, con un meraviglioso senso di humour... Gli voglio bene, lo amo. Siamo sposati da quattro anni e non una nuvola ha oscurato questi quattro anni. Sono passati come il vento: lisci.
Non le chiederò se anche le altre volte i primi quattro anni passarono così lisci. Le dirò solo che mi fa piacere, tanto piacere vederla contenta. Avevo il dubbio che non lo fosse più, dopo aver letto su un giornale italiano una frase che lei avrebbe detto a Roma, pochi giorni fa: "La parola amore, ormai, mi dà disgusto".
Non è vero! Non è vero! Mai, mai ho detto una cosa simile. Perché inventano queste cose in Italia? Per autosoddisfazione? Da quando ho lasciato l’Italia i giornali italiani non fanno che creare intorno a me una tristezza terribile. "Non è vero che viene a Roma per i bambini. Ci viene perché le mancano gli italiani." "Ha sbagliato a lasciare Rossellini: ora piange sempre." E per dimostrarlo mi fotografano proprio nel momento in cui ho la faccia indurita e sto per piangere perché sono arrabbiata e non mi fanno comprare in pace le scarpe, poi pubblicano la fotografia con il titolo: "Ingrid è venuta a trovare la primavera romana. Era tristissima perché le manca la primavera romana".
Siamo un poco drammatici, è vero. Ci piace pensare che siamo indispensabili. Ma c’è, in questo, moltissimo affetto per lei. Nella speranza che lei li rimpianga, gli italiani rimpiangono lei. Ora lei sta a Parigi, ama di nuovo la Svezia, ma si ricordi che le vogliamo bene.
Oh! Oh, sì. Sì! Anch’io... Io... Andiamo, è tardi. Devo essere in teatro tra mezz’ora, mon Dieu, c’è una prova importante, troveremo un tassì? Oddio, ho parlato italiano ed ora farò tanti sbagli, il regista si arrabbierà. Lesta, chiuda quel magnetofono. Crede che andrà bene quel che abbiamo detto? Chiuda quel magnetofono! Oh, Hedda Gabler, Hedda Gabler! Viene alla prima, mercoledì sera? Ci venga! Insomma, lo chiude quel magnetofono?!?
Va bene, lo chiudo. Andiamo a cercare un tassì. Lo sa, signora Bergman, che...