La Stampa, 14 agosto 2008
Tags : Articoli sulla morte, sull’eredità etc...
Vi racconto la storia del best seller che Oriana non avrebbe pubblicato
A mia sorella Oriana, che era una persona scrupolosa, hanno fatto battere ogni record: scrivere un libro sulla famiglia (prova di affetto e di ammirazione) e cancellare la famiglia (prova di odio e di disprezzo).
La famiglia di Oriana è composta da quattro persone viventi: due sorelle (io e Elisabetta la minore) e due nipoti (entrambi figli miei). Le sorelle e il nipote Antonio sono stati fatti sparire.
Esempio fra i tanti: le molte celebrazioni in suo ricordo e onore.
A New York hanno invitato ex-amici, ex-amiche, ex-amanti, conoscenti di fresca data, ma per noi neanche un invito. Lo stesso a Milano, a Roma, a Firenze. Ma sai che è strano per una che ha sempre considerato la famiglia il suo punto di riferimento nella vita? Che ha scritto centinaia di lettere, bigliettini, comandi, istruzioni (anche affettuose: «Ho lasciato la pastella per friggere le mele in frigorifero, friggile»).
Io che sono la più vecchia dei tre bistrattati mi sono chiesta il perché e ho pure fatto fare dispendiose indagini perché non è una faccenda di eredità alla Pavarotti, è una questione di eredità morale e culturale. Se capita ne parlerò. Intanto io e mio figlio Antonio siamo qui nella casa di famiglia a riordinare i ricordi, invece hanno messo in vendita la casa di New York che lei riteneva adattissima ad una fondazione. Ma come non ho potuto evitare la pubblicazione del libro, così non posso far niente per mettere in atto i progetti ai quali, ben più a lungo degli ultimi due anni di vita, lei si è dedicata.
Dunque eccomi per ora a parlare soltanto del già famoso libro rimasto incompiuto, ma pubblicato lo stesso ignorando il mio suggerimento di lasciar perdere. Bisognava fare come le figlie di un altro famoso scrittore che si sono tenute nel cassetto un libro del padre perché lui non voleva pubblicarlo. Ne aveva tutti i diritti: come li aveva Oriana. Nessuno scrittore può accettare che si frughi fra i suoi lavori e tanto meno Oriana Fallaci. Lei voleva morire con il successo dei libri dopo l’11 settembre, un enorme successo ritrovato («Mica male per una che è sulla breccia da cinquant’anni», mi disse una volta). Sul libro postumo non si era certo risparmiata, è vero. Grande famiglia, grandi ideali, ma niente ballerine, niente scontri con i pellerossa, casomai reiterati incontri con la banda Carità che a Villa Triste a Firenze, torturava, ammazzava gli antifascisti. Mi riferisco a mio padre partigiano e combattente per la libertà e, alla fine della guerra, sindacalista per le sigaraie. Mi riferisco ai militari americani, canadesi, russi fuggiti dai campi di prigionia e tenuti nascosti nella nostra piccola casa di via Mercadante, al biondo Norman che mi faceva volare per la stanza e che fu preso e fucilato. Mi riferisco alla giovane Emilia, partigiana di quindici anni che aiutava il babbo a far scappare questi prigionieri oltre la Linea Gotica: Emilia era Oriana naturalmente. Sarebbe stato bello un libro su queste cose che lei conosceva bene, peccato!
Invece ci restano antenati con nomi veri e vite false, povera bisnonna Anastasìa, povera nonna Giacoma. Uno scrittore è come Dio, fa nascere e morire la gente per dare una coerenza che vede solo lui. Oriana, dopo l’11 settembre, a questo libro non mise più mano, forse non la convinceva completamente, sta di fatto che la sua saga incompiuta non la voleva pubblicare e lei che ha scritto più parole di tutti noi dove ha lasciato scritto il contrario?
Io, di Oriana, sono la massima esperta mondiale, non per meriti e studi particolari, ma semplicemente perché sono stata sua sorella per quasi settant’anni. Gli ultimi tempi non ci siamo frequentate, mi aveva chiesto di andare a New York con lei e credo che il libro c’entrasse qualcosa, non aveva bisogno di me soltanto per assisterla come ho fatto per mesi qui in campagna. Ma io le dissi di no, primo perché a mia volta ero di nuovo ammalata di cancro, secondo perché non volevo abbandonare tutto, terzo perché temevo le sue reazioni, l’ho vista maltrattare, scacciare troppa gente per non essere allarmata.
Aveva bisogno delle scenate e delle confidenze al muto servo di turno per spiegare quanto era infelice. Dopo si sentiva meglio, ma il povero disgraziato che aveva fatto a fettine? «No, a New York non ci vengo, resta qui con me fra Milano e la campagna, andiamo avanti così». Ma Veronesi non le piaceva («Si siede sul bordo del letto e mi fa le carezzine sulle guance»), voleva ritentare con l’oncologo di New York.
A morire è tornata a Firenze ed è morta sola, sola, sola. Chi afferma il contrario mente. Io ho detto che ha scelto quella che per me è una piccola forma di eutanasia. La frase ha fatto impressione e la voglio spiegare: qualsiasi ammalato ha diritto ad una morte dignitosa e soprattutto senza eccessive sofferenze. Il babbo, la mamma, mia sorella Neera sono morti soffrendo moltissimo, mia madre diceva «Fatemi una iniezione» e Oriana la chiese pure al buon dottor Barsotti. « matta signora?». Ma si parla di trent’anni fa e ora la medicina ha fatto passi da gigante sulla cura del cancro. Ora ci sono anche medici che assistono i malati terminali, usano morfina e altri oppiacei, è una pratica legale e normalissima: il cuore non cessa di battere ma si piomba in uno stato letargico, la morte arriva dopo tre/quattro giorni. Oriana non aveva mai voluto medicine forti per rimanere lucida fino in fondo, poi anche lei si arrese: «Aiutatemi». Fu il suo ultimo gesto di coraggio, fu il suo addio alla vita, lo spirito che le aveva consentito di resistere alla travagliatissima esistenza si era consumato. Spero di essere altrettanto brava quando toccherà a me visto che «il mal dolente» mi ha colpita come gli altri della famiglia. Un’ultima cosa: so tutto sulle sue volontà e anche sulla sua fine. Ne ho la testimonianza scritta, indovina un po’ chi me l’ha data?