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 2012  agosto 27 Lunedì calendario

L’uomo sulla luna (articolo del 1969)

Pubblichiamo alcuni stralci tratti dal libro di Oriana Fallaci intitolato Quel giorno sulla luna (Rizzoli, pagg. 212, euro 10, prefazione di Giosuè Boetto Cohen). Il testo venne pubblicato per la prima volta nel 1970 e raccoglie una serie di articoli che la Fallaci scri­s­se come inviata de L’Europeo a Cape Kennedy e a Houston, nei mesi di giugno e luglio 1969, pro­prio mentre era in corso il momento più esal­tante della corsa spaziale: la missione del­l’Apollo 11. Nelle parole della Fallaci rivive l’emozione dell’allunaggio ed è possibile ritro­vare una delle più vivide descrizioni di Neil Ar­mstrong l’astronauta (morto l’altro ieri) che per primo mise piede sul nostro satellite, en­trando nella storia.

***

È il trentanovenne Neil Armstrong, che in italiano vuol dire Braccioforte. Ma il nome non gli si addice, soprattutto per via della faccia che è dominata da un nasino al­l’insù, dispettoso, e da una boc­ca a salvadanaio, maligna, dove il labbro su­periore è invisibile perché troppo sottile. Le guance sono infantili, rotonde. Gli occhi so­no piccoli, azzurri, e di rado si piantano con decisione nei tuoi. La pelle è rosea, lentigginosa. I capelli, color bion­do carota, cortissimi. E anche se scendi al corpo che è lungo, irro­bustito da faticosi esercizi in palestra, conclu­di che il tutto è decisamente antipatico. Io, quando lo conobbi cinque anni fa, me ne sen­tii respinta e molta gente m’ha detto d’aver provato la medesima cosa. Anche a causa del­la sua timidezza che è enorme e che egli combatte con l’arro­ganza. Per un nulla arrossisce, vampate di calore gli salgono dal collo alle tempie dove le vene si gonfiano in cordoncini paonazzi, e ogni volta che questo avviene Neil Armstrong si arrabbia e più si arrabbia più diventa sgarbato. Al­lora, per rimediare, sorride. Ma è un sorriso così smarrito, così sfor­zato, che riesce solo a complicare le cose, ad aumentare il suo imba­razzo che si traduce in una voce stridula come la voce di una don­na bizzosa. V’è un che di femmi­neo, in Neil Armstrong. Di indife­so, di debole. Dichiara un suo ami­co: «Certo che gli piacciono le don­ne. Ma la sua unica donna è sua moglie. Dove trovò il coraggio di averla? Non lo trovò, fu Janet a conquistarlo. Janet ha un tempe­ramento virile». Tale premessa non deve trarti in inganno, indurti a credere che Neil Armstrong nasconda una qualsiasi dolcezza. Chiunque te lo descriverà come « a cold, calcu­lating guy .
Un tipo freddo, calcola­tore ». Il suo modo di pensare e di vivere è rigido quanto una opera­zione aritmetica, tutto in lui è cal­colato come dentro un computer e fra i cinquantadue astronauti americani è colui che più di ogni altro possiede le virtù del robot. Vale a dire assenza di passioni, or­dine e legge, controllo, nessuna fantasia. Se l’umanità del futuro sarà un esercito disciplinato di creature asettiche, cervelli elettro­nici, Neil Armstrong è già il futu­ro. Niente lo interessa fuorché vo­lare, conoscere le macchine che servono a volare. Niente lo sedu­ce fuorché la tecnica necessaria ad andare sulla Luna, e la Luna stessa per lui non è che uno stru­mento per applicare quella tecni­ca. Apprenderai dalla sua biogra­fia che imparò a guidare l’ae­reo prima del­l’automobile, che si laureò molto presto in ingegneria ae­ronautica, che divenne subito pilota collauda­to­re e che all’in­fuori di ciò non fece mai altro. Non lesse mai un romanzo o una poesia, non ammirò mai un qua­dro, non andò mai a un con­certo, non si for­mò mai un’idea politica, non trasse mai piacere da qualcosa che non fosse un’elica o un reattore.Il suo unico hobby, quello cui dedica ogni do­menica, ogni vacanza, sai qual è? Il volo planato. Sicché parlare con lui è una sofferenza che sfiora l’in­cubo. Io, che l’ho visto più volte in questi anni, non sono mai riuscita a stabilire con lui un contatto che assomigliasse a un contatto uma­no, a farlo mai indulgere a un atti­mo di cordialità, di curiosità, di ca­lore, ammenoché non pronun­ciassi le parole Mercury, Gemini, Apollo, LM. (...) ***
A Houston, quella sera, non si vedeva la Luna. Era coperta da nu­bi fitte, nuovamente gonfie di pioggia. E in quel cielo senza Lu­na, nuovamente gonfio di piog­gia, arrivarono le otto e mezzo che divennero presto le nove: alle otto e mezzo Armstrong e Aldrin non erano ancora pronti ad uscire. Le nove divennero presto le nove e mezzo: neanche alle nove erano ancora pronti ad uscire. Alle nove e mezzo il Centro controllo an­nunc­iò che erano pronti e manca­va circa un quarto d’ora all’apertu­ra dello sportello.
Allora nell’audi­torium ci mettemmo a fissare l’enorme schermo dove si avvi­cendavano, allineate, le informa­zioni dei cervelli elettronici. L’in­formazione che ci interessava era al penultimo rigo, dove stava scrit­to Plss. Significa: Post landing sur­vival
system, ed è in sostanza il contenitore di ossigeno che gli astronauti si attaccano dietro le spalle e poi mettono in funzione al momento in cui la cabina del LM viene depressurizzata e lo sportello si apre. Accanto alla pa­rola Plss leggevi, fino alle nove e quarantacinque di sera, sei zeri: 00:00,00. Ma alle nove e quaranta­cinque l’ultimo zero divenne un uno e poi un due e poi un tre e i se­condi divennero con velocità paz­za minuti e sapemmo che la cabi­na era stata completamente de­pressurizzata, lo sportello aperto. In principio ci furono solo le vo­ci. Infatti la macchina da presa del­la televisione era chiusa in un set­tore del LM che poteva essere azio­nato solo dall’esterno e, per azio­narlo, Armstrong doveva uscire, poi scendere fino a metà scaletta. Le voci giungevano a noi molto ni­ti­de e non eran le solite voci di pie­tra, erano voci molto preoccupa­te, molto incerte. Soprattutto quella di Armstrong che finalmen­te tremava come deve tremare la voce di un uomo che la prima vol­ta mette piede sopra la Luna. Tre­mavamo anche noi, però. Dio, co­me tremavamo. (...) Bruce McCandless: «Neil, qui Houston. La radio funziona, ti udiamo bene e chiaro. Chiudo. Buzz, qui Houston. Prova anche tu la radio e verifica il circuito del­la Tv».
Voce di Aldrin: «Roger. Circuito Tv aperto».
Armstrong dovette aprirlo, al­lungando la mano sinistra, pro­prio mentre parlava con Houston perché in quel preciso momento gli schermi si illuminarono e ve­demmo ciò che vedeste anche voi, ciò che vide tutto il mondo, ve­demmo la zampa del LM, la parte inferiore del LM,e l’orizzonte del­la Luna. E poi vedemmo quel pie­de, quel grande piede che scende­va a cercare il piolo della scaletta, era un piede sinistro e scendeva così lento, così cauto, ma allo stes­so tempo così deciso. E dal Centro controllo Bruce McCandless gri­dò: « Man! Riceviamo una immagi­ne sulla Tv! Oh, man! ». E Aldrin, tutto contento, rispose: «Bella im­magine, eh?», e Bruce McCand­less aggiunse: «Neil, Neil! Ti vedia­mo scendere per la scala a pioli!». Erano le nove e cinquantasei, ora di Houston.E nell’auditorium tut­ti ripetevano con Bruce McCand­less: « Man! Oh, man! ». Che vuol di­re uomo. Uomo, non Dio. E men­tre invocavano l’uomo invece di Dio Armstrong risalì di due o tre scalini, a provare se ciò costava fa­tica, ma non gli costava nessu­na fatica e ripre­se a scendere cauto, deciso. E presto lo ve­demmo tutto intero, prima la tuta bianca e poi il casco: fu all’ultimo pio­lo dove ebbe un momento di esitazione perché l’ulti­mo piolo è as­sai alto, per scendere so­pra il piattello della zampa del LM biso­gna fare quasi un saltino, e sembrò quasi che gli mancasse il coraggio di fare il salti­no, il coraggio di uscire dall’ac­qua, lasciare l’ultima onda e get­tarsi sopra la riva. Ma poi il corag­gio gli venne, e si buttò giù e fu den­tro il piattello. E le sue prime paro­le sulla Luna furono queste: «So­no ai piedi della scaletta, I am at the foot of the ladder . ... i piedi del LM sono affondati nella superfi­cie per circa uno, due pollici ... la superficie tuttavia appare molto, molto granulosa quando ti avvici­ni. È come polvere. Fine, molto fi­ne. Ora esco dal piattello del LM». È questo che disse. La frase su cui fecero i titoli sui giornali la dis­se dopo. La frase che tutti avevan tentato di indovinare, cosa dirà Neil al momento di fare il primo passo sopra la Luna, dirà fantasti­co, dirà perbacco ragazzi, e lo ave­vano tormentato tanto, povero Ar­mstrong, lo avevano esasperato al punto che per non deludere l’at­tesa lui ci aveva pensato, alla fra­se, e l’aveva trovata,e l’aveva con­fidata a una sola persona: sua ma­dre. L’ha raccontato lei stessa: «Venne a domandarmi cosa ne pensavo, sembrava così preoccu­pato, e io gli dissi che mi sembrava un bel discorso.Allora mi fece giu­rare che non 1’ avrei detto a nessu­no ». Non era un gran bel discorso, ammettiamolo. Era una frase reto­rica, e suonava un pochino falsa, un pochino buffa, dentro il suo gergo tecnico da pilota. E, quasi ne fosse cosciente, Armstrong la pronunciò molto in fretta, in un sussurro carico di imbarazzo: « That’s one small step far man, one giant leap far mankind . Que­sto è un piccolo passo per l’uomo, è un salto gigantesco per l’umani­tà ». Però si riprese immediata­mente, tornò immediatamente se stesso, e ciò accadde quando staccò le mani dal LM, e andò avanti, e incominciò a spiegare quel che vedeva: «La superficie è fine e polverosa, posso sollevarla con la punta delle mie scarpe: ade­risce alla suola e ai lati delle mie scarpe in strati simili a polvere di carbone. Affondo solo in una pic­cola frazione di pollice, forse l’ot­tava parte di un pollice. Ma posso vedere le impronte delle mie scar­pe e i miei passi sopra la sabbia».
E poi accadde qualcosa di mol­to imprevisto, di molto fantastico: si mise a correre, proprio a corre­re. Si allontanava come spinto dal vento e come spinto dal vento tor­nava: improvviso, leggero. E Bru­ce McCandless esclamò: «Neil! Neil!».
Non se l’aspettava nes­suno. Sulla Terra è così difficile muoversi con quella tuta addosso: pe­sa ottanta chili ed è più ri­gida di uno scafandro.