Libero, 3 gennaio 2013
Tags : Articoli di Oriana Fallaci
Il vero giornalista secondo Oriana
Il giornalismo nacque come rivolta al potere, come lotta politica. Sapete quando e dove e da chi? Nel Cinquecento, in Italia, da un gruppo di scrivani coraggiosi che ne avevano abbastanza dell’arroganza e della crudeltà imposte dai feudatari, i principi, i governanti. E così decisero di raccontare per iscritto le porcherie di costoro, copiandone pazientemente il testo su fogli di pergamena e poi andando a venderli nelle varie città o villaggi dei feudi. Infatti erano chiamati menanti. Che, nell’italiano di allora, voleva dire portatori di notizie. Naturalmente venivano braccati, perseguitati, puniti. La prima volta, col taglio della mano destra; la seconda volta, col taglio della lingua; la terza volta, col taglio della testa. Oppure venivano impiccati, oppure venivano impalati: come piaceva fare a quel non pio papa Pio V. Ma più venivano perseguitati e mutilati e decapitati e impiccati e impalati, più si moltiplicavano, secondo la legge che il potere stupido non comprenderà mai: niente favorisce la rivolta quanto la repressione della rivolta. Non serve a niente arrestarmi, torturarmi, ammazzarmi: perché al mio posto ne viene subito un altro, magari più arrabbiato di me perché io sono morta. Bè... sapete chi mise fuori servizio gli eroici menanti? Un’invenzione tecnologica: la macchina per stampare, prodotta da Gutenberg.
Eppure neanche quella macchina riuscì a cambiare l’anima del giornalismo che non era un’industria, un business. E il giornalismo stampato continuò a essere uno strumento di libertà e di protesta: un impegno politico, un atto politico. Politico, infatti, era il primo giornale che sia stato stampato: il «Nieuwe Tijdingen», uscito nel 1605 ad Anversa. Politico e di opposizione: infatti ebbe un ruolo definitivo nella Rivoluzione brabantina. Politico era il primo giornale stampato in Francia nel 1631: la «Gazette de France» di Théophraste Renaudot. E dette tali frutti che nel 1789, quando la Bastiglia fu presa dagli insorti, esistevano già quattordici giornali politici in Francia. E presto divennero sessantadue e alla morte di Marat erano settecentocinquanta. Politico era il primo giornale stampato in Inghilterra, lo «Weekly News». Basti citare John Milton, Jonathan Swift, Daniel Defoe, Joseph Addison, Richard Steele, tutti scrittori ai quali nessuno chiedeva - come si usa oggi - «si considera uno scrittore o un giornalista? ». Steele fondò più tardi il «Tatler»: così politico che nel 1711 fu costretto a sospendere la pubblicazione perché aveva attaccato pesantemente il cancelliere Robert Harley e i ricchi di Londra. Ma appena il «Tatler» fu paralizzato, nacque il suo confratello «The Spectator». E così la voce della protesta non fu ammutolita: il giornalismo continuò la sua tradizione gloriosa. In tutta l’Europa. Pensate al ruolo che certi giornali ebbero nel Risorgimento italiano. Un ruolo che si interruppe soltanto quando un certo giornalista chiamato Benito Mussolini prese il potere e mandò le sue Camicie Nere a bruciare i giornali che gli si opponevano, poi arruolò una generazione di mercenari, mercanti di parole, cortigiani, per fare i giornali a modo suo. Succede sempre così, quando una dittatura vince. Voi argentini ne sapete qualcosa.
Ma, visto che ho toccato questo triste argomento, permettetemi di anticipare una domanda legittima: «Allora che ci racconta di quei mercenari, di quei mercanti di parole, di quei cortigiani? Non sono anche loro giornalisti?». No! Non lo sono! Sono soltanto quello che ho detto: mercenari, mercanti di parole, cortigiani. Anche se a volte scrivono bene. Bene da un punto di vista tecnico, voglio dire. Ma perché negargli la qualifica di giornalisti, se a volte scrivono perfino bene: mi chiederete. Perché, vi rispondo, essi mancano l’obiettivo dello scrivere: quella ricerca della verità che serve la vita. E lo mancano per la semplice ragione che essi uccidono la vita invece di proteggerla. Sono come certi funghi che sembrano buoni da mangiare, (infatti hanno tutta l’apparenza fisica di buoni funghi, e spesso sono perfino belli), però quando li mangi finisci all’ospedale o sottoterra. E che cibo è un cibo che mi avvelena e mi fa morire? Il cibo è per tenermi in vita, non per farmi morire! Io credo talmente in questo che non sono neanche pronta a discuterne.
Sono pronta a discutere, invece, un’altra domanda legittima: «Cara Fallaci, non le pare di ritrarre lo scrittore in modo troppo lusinghiero? La ricerca della verità, il mondo migliore, il buon cibo che serve a tenere in vita, la libertà... Suvvia! Siete davvero così nobili, voi scrittori, così onesti, così coraggiosi, il simbolo stesso di ogni moralità, di ogni virtù?».
No, non lo siamo. Spesso non lo erano neanche i divini nomi che ho elencato prima. Dante Alighieri, per esempio, era un vigliacco. Milton era un opportunista. Byron era un esaltato, Dostoevskij era un giocatore che non pagava i conti, Shaw era un rompiscatole avaro, Karl Marx era un tipo che metteva incinte le domestiche e ordinava alla figlia di sposare un ricco borghese con molto denaro. Tanto per fare due o tre esempi. Naturalmente, come in qualsiasi altra professione e categoria umana, troverete fra noi persone molto decenti. Persone oneste, coraggiose, coerenti, addirittura eccezionali. Ma troverete anche le carogne più carogne, i bastardi più bastardi che si possano incontrare su questa Terra. Se non altro, invidiosi, gelosi, presuntuosi, ingiusti. Personalmente io sono stata ferita dagli scrittori e soprattutto dai giornalisti, più che dai peggiori politici. Infatti, e a parte le dovute eccezioni, non amo molto i giornalisti. Specialmente quando fanno i giornalisti nei Paesi oppressi da una dittatura. Perché non si può fare il giornalista in un Paese oppresso dalla dittatura, e chi fa il giornalista in un Paese oppresso dalla dittatura non è un giornalista: è un impiegato ubbidiente al servizio della dittatura. In un regime dittatoriale, i bravi giornalisti, i giornalisti onesti, sono in prigione o in esilio. Quando non sono morti.
Ma non facciamoci illusioni. Anche nei Paesi liberi, nei regimi democratici, il mondo dello scrivere abbonda di vigliacchi, di servi, e di cretini. E anche tra quelli coraggiosi, indipendenti, intelligenti, non troverete eroi. Ancor meno, santi. Se lo fossimo, non potremmo osservare la vita come la osserviamo - nel suo bene e nel suo male - incominciando dalla nostra vita. Come eroi, moriremmo molto presto; come santi, ci ritireremmo altrettanto presto in un monastero come san Francesco o in una caverna come il mago Merlino. Eppure, malgrado tutto questo, malgrado tutti i difetti e tutte le colpe che ho riconosciuto, la maggior parte di noi è e rimane devota alla ricerca della verità, alla causa della libertà, al sogno di un mondo migliore. Perché?
Per una ragione di fondo che, nella sostanza, è squisitamente pratica e anche un poco egoista. Eccola. Senza la ricerca della verità noi scrittori non possiamo funzionare perché ci viene a mancare l’ingrediente principale della nostra cucina: il buon cibo che preserva la vita. Senza il sogno di un mondo migliore non possiamo operare perché perdiamo l’obiettivo morale, la spinta creativa. Senza la libertà rinunciamo alla nostra indipendenza di giudizio e - di conseguenza - tagliamo le ali della nostra fantasia, castriamo i genitali della nostra produttività, chiudiamo le porte delle nostre scoperte. E non abbiamo più idee. Noi lavoriamo sulle idee, con le idee, come il cuoco lavora col sale e con l’olio: scrivere significa anzitutto pensare. E senza libertà non possiamo pensare. Non possiamo lavorare. I nemici della libertà sono i nostri primi nemici. Ed essi lo sanno tanto bene che, quando la libertà viene assassinata, noi scrittori siamo i primi a essere imprigionati o esiliati o impiccati. (Ammeno di diventare, come ho detto, mercenari e mercanti di parole e cortigiani. Cioè traditori di noi stessi, del nostro pensiero). Insomma, e per farla breve: noi siamo costretti a essere moralisti. Anche quando siamo di natura immorali. Siamo obbligati a inseguire i sogni. Anche quando siamo cinici. Siamo forzati a predicare un mondo migliore. Anche quando sappiamo che è un’impresa disperata giacché - come dice il proverbio - il mondo cambia e resta come prima. Non abbiamo scelta. Non l’abbiamo perché quelle virtù che spesso non meritiamo, di cui spesso non siamo capaci, sono per noi una questione di sopravvivenza mentale. E questa mancanza di scelta, questa sopravvivenza, sono la migliore garanzia che offriamo agli altri. Perfino quando siamo carogne, e invidiosi, gelosi, presuntuosi, maligni, ingiusti, cretini, eccetera. Evgenij Zamjatin, lo scrittore sovietico che nel 1927 divenne vittima di una campagna di denigrazione a causa del suo romanzo Noi e nel 1931 dovette lasciare l’Unione Sovietica per stabilirsi a Parigi dove morì in esilio, diceva che scrivere è come agitare una carota dinanzi a un asino pigro: agitarla finché l’asino si muove, viene avanti, e la mangia. E aggiungeva: però, quando l’asino pigro si è mosso e ha mangiato la carota, bisogna agitare dinanzi a lui un’altra carota. Perché si muova di nuovo, venga avanti di nuovo. Senza quelle carote, lui resta immobile.