L’Europeo, 17 febbraio 2015
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Autoritratto di Marcello Mastroianni
O dovrei dire di un quasi-uomo? Un uomo intero non accetterebbe mai di spogliarsi l’anima per un giornale. Allora perché accetto, chiederai. Potrei rispondere che il mio è un mestiere da esibizionista: mi guadagno la vita facendo il clown.
Ma sarebbe una risposta comoda, con essa dimostrerei che so ironizzare su me stesso. La verità, guarda, è molto diversa. Accetto perché voglio distruggere un certo tipo di uomo: quello cui appartengo. E lo voglio distruggere perché lo rifiuto, perché non serve a nessuno: ne a se stesso ne agli altri. In passato dicevo suvvia, è un uomo molto sensibile, va visto con attenzione. Ora nemmeno la sua sensibilità mi interessa. E ora incominciamo. Non mi piaccio. Non mi sono mai piaciuto, neanche fisicamente. Non mi piaccio quando mi osservo allo specchio: questo nasino corto, questa bocca cicciuta. A me piacciono le bocche senza labbra e i nasi lunghi, aquilini. Io sono carino e un uomo non dev’esser carino. Più ci penso, più mi chiedo come sia possibile che una faccia simile mi dia da mangiare. Che la gente ci veda l’espressione di un’epoca, anzi il simbolo di un uomo ambiguo, confuso, egoista, immaturo?
Sono tutto ciò, ed eccoci al peggio: non mi piaccio dentro. Tanto per dirne una, sono ignorante. Non ho mai tentato di studiare, non mi sono mai detto leggiamo-quel-libro, andiamo-in-quel museo, ascoltiamo-quel-concerto, può-essere-un-godimento. La cultura per molti è un godimento. Per me è un’impossibilità fisica e spirituale. Ma lo sai che mi stanco a leggere? Non approfondisco mai un problema. Vorrei, lo giuro, vorrei: perché è così brutto sentirsi a disagio tra la gente informata. Resto sempre alla finestra, a guardare. Mi spiace che tanti soffrano la fame, l’ho sofferta anch’io e so che cosa significa, ma non vado certo in giro a battermi per i poveri.
Se mi si piglia di contropiede, rispondo: «Ovvio che sono socialista!». Però non ho mai capito bene in cosa consista questo socialismo e non faccio alcuno sforzo per capirlo. Molti credono ch’io sappia le cose. A volte le so, vero, ma nella maniera in cui un animale fiuta il cibo e la strada che conduce all’abbeveraggio. D’istinto, ecco. Guarda il mio amore per i quadri: non nasce da una cultura pittorica, ma da un istinto. Quando li compro, non sbaglio mai. Dal mio disinteresse per tutto e per tutti mi sveglio esclusivamente per parlar di me stesso. Sebbene non creda in me stesso. Se la donna che ho amato più di chiunque altro al mondo avesse insistito nel volermi, mi sarei forse salvato. Il guaio è che mi son sempre lasciato prendere da chi mi voleva e ho sempre abbandonato chi non mi voleva più. Spesso lo spiego dicendomi che son nato sotto il segno della Bilancia. Non posso muovermi ne su ne giù, mi dico, perché la bilancia da sola resta in equilibrio: affinchè si muova, una persona o un oggetto deve posarsi su uno dei suoi piatti. È un discorso idiota, lo so. Il vero motivo è la mia incertezza. Affogo sempre nei colori approssimativi: nei grigi, nei marroncini, nei beige. Grave sbaglio.
Vorrei fare, almeno una volta nella mia vita, un gesto definitivo. Nei rari casi in cui ci ho provato, sono sempre rimasto a metà. Al tempo de La dolce vita ci provai. Dissi a mia moglie (Flora Carabella, ndr): «Me ne vado». E alla mia amante: «Ti lascio». Ma il gesto non nacque da me, nacque dall’atmosfera del film. E comunque quanto durò? Sei mesi, un anno. Finito il quale esaurii il mio coraggio e tornai da entrambe: l’amante e la moglie. Ed entrambe mi ripresero, capisci? Non a caso, la parola che uso con maggiore frequenza è «ambiguo». Nei compromessi sono irraggiungibile. Mi si addice il cinema, questo lavoro fatto di ombre. Gli uomini del mio tipo sono coscienti di tutto, perfino della loro incoscienza. A che cosa gli serve? A essere infelici. Io sono infelice. È da ingrati dirlo, lo so: la vita mi ha dato tanto e ho fatto così poco per meritare quel tanto.
Ma può un uomo esser felice se non è contento di sé? Mi chiedo se sia mai stato felice. Forse sì, a 12 anni, quando andavo al campeggio con i Ballila. Era bello il campeggio. Offriva la campagna, gli amici, e non quel ritornello di povertà: «Marcelle, ce vai tu dal pizzicagnolo? Glielo chiedi tu se ci da qualcosa a credenza?». «Mamma ha detto se mi da qualcosa a credenza». «Accidenti. Qui non se paga mai?».
ALLA MIA INFANZIA torno sempre con angoscia e con rabbia. Mi vergognavo talmente della nostra povertà. Mio padre faceva il falegname. So che darò un dispiacere a mia madre, lei sostiene: «No, era un ebanista! ». Neanche si trattasse di un titolo nobiliare. Aveva una botteguccia dentro un garage, a Roma, e accomodava le seggiole. Solo di rado fabbricava un mobilino, assieme a mio nonno; falegname anche lui. Ci si lavava in cucina, a pezzi. Il giorno in cui andammo ad abitare in un appartamento di due camere con il bagno, guardai la vasca come se fosse una piscina. Ma avevo ormai 18 anni. In quell’appartamento conobbi anche il termosifone: prima dormivo con i calzini, le mutande di lana e il maglione. I miei genitori erano così poveri, guarda, che non si preoccupavano nemmeno del mio futuro. Mi mandarono all’Istituto industriale perché mi piaceva la tecnica e non riuscivo nelle materie astratte. E anche perché, con il diploma dell’Istituto industriale, sarei diventato un operaio specializzato o addirittura un geometra. Così non ho mai studiato greco, latino, filosofia: in compenso ho rizzato tanti muri e ho lavorato tanto ferro alla forgia. Lo dico senza rancore: l’attività manuale mi piaceva. Il rancore lo nutro soltanto per i soldi che non avevamo e per l’educazione sbagliata che ho ricevuto. Da ragazzo mi son sempre sentito dire; «Sii gentile con quel signore, sii obbediente, potrebbe servirti». Son cresciuto alla scuola dell’umiltà, ho imparato assai presto a piegarmi, adattarmi, accettare il ricatto, abbozzare. Dio, che infamia esser poveri. Non solo perché ti innamori delle scarpe che non puoi comprare, non solo perché devi andare a letto col maglione, ma perché sei costantemente privato della tua dignità. Guarda; quasi quasi ho voglia di assolverlo, questo tipo d’uomo che mi accingo a distruggere. Quel disgraziato ebbe un’educazione così nazista: un’educazione da schiavi. L’unica cosa buona della mia infanzia è che l’ho passata con gli amici per strada. Per strada trovi tanti alimenti, se guardi bene. L’unico risvolto negativo è che, dopo, non riesci più a stare solo. Sono un uomo che ha paura a star solo. Quando non lavoro, giro come un lupo per la città. Vado a cercare mio fratello, il mio sarto, un nuovo laterizio per farmi una casa. A cena devo andarci con la gente: non riesco a mangiare solo. Per dormire bene ho bisogno di una donna nel letto. Non per farci necessariamente all’amore: per sapere che è lì, accanto a me. Dev’essere perché anche da grande dormivo insieme a mia madre. Mio padre dormiva solo: il matrimonio si brucia presto tra i poveri, la brutalità della miseria uccide perfino il desiderio sessuale. Mia madre io l’ho sempre vista come una creatura asessuata: per gli italiani la madre è la Vergine che resta incinta per partenogenesi. Ed eccoci al punto più condannabile: io mi eccito solo attraverso rincontro con una donna. Esco dalla mia indifferenza, dalla mia abulia solo attraverso il gioco dell’amore. L’amore mi è necessario anche professionalmente: lavoro meglio quando ho una donna, sono più intelligente e più ricco. Mai cinico, tuttavia. Non sono mai riuscito a dire con-quella-ci-vado-a-letto-e-amen. Sono sempre partito da una cottarella e ho sempre finito col farmi fregare. Perché ho bisogno di inventarmela, la mia storia d’amore: di maturarla, nutrirla.
MI INNAMORAI per la prima volta a 12 anni, lei si chiamava Silvana. La incontravo ai giardini, l’accompagnavo a casa e sulla porta di casa c’era il rito del bacetto. Da allora, nelle mie donne, ho sempre cercato Silvana e Fatto sessuale per me è sempre stato l’estensione di quel bacetto. In altre parole, non sono un latin lover. Non sono nemmeno un Casanova. Non ho proprio nulla in comune con Giacomo Casanova eccetto l’incapacità di amare fino in fondo. Ma questo è un difetto comune a molti italiani. Sai perché? Perché l’italiano è povero: non ha che il gioco dell’amore per esprimersi. Se l’è inventato per fame, quel gioco. Le donne noi le stordiamo col nostro entusiasmo, la nostra generosità, la nostra chiacchiera: salvo esaurirci presto perché diamo troppo e subito, o perché restiamo delusi di non aver trovato la mamma nell’amante e nella moglie. A me si addice una commedia di Diego Fabbri che si intitola Il seduttore e ha per protagonista un uomo che ama contemporaneamente tre donne. Quando la vidi, mi parve così normale: io posso amare tre donne contemporaneamente. Sono il prodotto del sistema patriarcale contro cui si rivoltano le donne moderne: non riesco a considerare il rapporto amoroso su un piano di uguaglianza. Spesso mi domandano se le donne mi fanno paura. Sì, tutte. Ma specialmente quelle che sono troppo sicure di sé, troppo indipendenti. Da tale paura mi libero solo sostenendo il ruolo del protettore. È da cretini. Niente autorizza questa mania padronale, specie in un uomo fragile come me. Con il cervello lo capisco benissimo che le donne in rivolta hanno ragione. Dico di più: se penso a un futuro che non mi appartiene, a una società dove le donne contino nella stessa misura degli uomini, avverto curiosità ed eccitazione. Forse un certo sollievo. Però mi invade anche un grande smarrimento, un gran disagio. Vuoi sapere qual è la donna che m’è piaciuta di più? Marilyn Monroe. Questa cosa di burro: bella, strana, vulnerabile. Mi faceva tanta tenerezza, mi dava tanta voglia di possederla e proteggerla.
Non ho mai provato cose del genere con Greta Garbo e le donne come Greta Garbo. Lo dico con la più sconfinata ammirazione per la Garbo, intendiamoci : quando la conobbi, la trovai simpaticissima. Mi parve la matrigna di Biancaneve. Allo stesso tempo non mi intimidì neanche troppo: mi metteva addosso come un desiderio di confessarmi. Gagliarda. Accarezzai perfino un’idea: «Ci farei un viaggio, con questa regina. Con Marilyn no. A Marilyn non avrei mai offerto un viaggio: non avrei potuto aspettare. Del resto non avrei potuto tentare di esserle amico. Le mie amiche io le scelgo tra le donne con cui non ho rapporti di letto. Anche di mia moglie sono amico perché, in quel senso, non è più mia moglie. Dunque, concludiamolo questo discorso sulle donne. Ne ho avute molte, è vero. E quasi sempre attrici dei miei film, è vero. Il motivo è duplice. Primo: al di fuori della gente con cui lavoro in un film, non incontro nessuno. Quando andavo in tram, incontravo le ragazze in tram, ora non vo più in tram. Secondo: le attrici sono belle e io sono attratto dalla bellezza. La mia generazione non ha viaggiato abbastanza per scoprire che il mondo non è diviso in compartimenti stagni: vive sui miti, sulle banalità. Di qui il fatto che adori le francesi e le giudichi maliziose, intriganti, perfide. Di qui il fatto che prediliga le italiane e ne esalti l’odore. Le americane no, sebbene la donna che ho amato di più fosse americana. Sì, lo so: a questo punto dovrei parlar di mia moglie, della mia amante, e di Faye Dunavvay. È lei la donna che ho amato di più. Ma è un discorso che mi fa male, bisogna rinviarlo. Vedi, sono un vigliacco. Quando mi stanco di una, anziché lasciarla subito aspetto che anche lei si stanchi.
Però sono un vigliacco anche in senso fisico, credo. L’acqua, per esempio, mi fa paura. Anche la montagna mi fa paura. Non sopporto l’alpinismo, questa stronzata che fa rischiare la pelle agli alpinisti e ai poveretti che devono andare a salvarli. Le altezze mi turbano, e il vuoto. Odio i paracadutisti e, se dovessi buttarmi giù con un paracadute, morirei d’infarto cardiaco. Viaggio in aereo, sì. Ho imparato. Una volta, per andare a Cannes, presi un aeroplanino che si perse nella tempesta e riuscii lo stesso a dormire: come dorme un soldato in trincea. Ma quello resta l’unico rischio che abbia affrontato nella mia vita: non ho mai avuto esperienze eroiche e non voglio averne. Non ho mai fatto il soldato. Dinanzi a un tipo armato io provo angoscia e non ho mai partecipato a una manifestazione di piazza. Non solo perché la folla mi irrita ma perché penso: qui-ci-scappala-pallottola-di-rimbalzo-e-tocca-a-me. Qualche volta ho fatto a pugni. Non m’è piaciuto e ho chiesto scusa alla persona cui le avevo date, o da cui le avevo prese. Potrei morire io, sia pure per caso, da eroe? Sì, forse sì: perché Patto eroico è improvviso e contiene una recita. Tuttavia non sarebbe giusto se io morissi, sia pure per caso, da eroe. Sono l’antieroe per eccellenza. A me il fascismo rompeva le scatole solo perché il sabato mi chiamava all’adunata. Non feci neanche nulla per cacciare i tedeschi dall’Italia: delegai quel compito agli americani arrabbiandomi con loro perché non arrivavano mai. L’età per aiutarli ad arrivare più in fretta l’avevo: l’impegno morale no. Per evitare la chiamata alle armi, partecipai a un concorso riservato ai disegnatori delle carte geografiche ed entrai alla Todt (impresa di costruzioni della Germania nazista, ndr). Ciò mi permise anche di allontanarmi da Roma, dai bombardamenti, dal fronte.
MI RECAI A FIRENZE dove c’era l’Istituto geografico, e poi a Dobbiaco, vicino al confine austriaco. Da Dobbiaco fuggii perché temevo di essere deportato in Germania. Non fu difficile. Alla Todt avevo trovato un amico, il pittore Remo Brindisi: insieme fabbricammo un lasciapassare falso. Carta trasparente, matita numero quattro: durissima. I cartografi sanno disegnare con l’esattezza dei certosini e noi possedevamo i timbri tedeschi. Con Remo Brindisi sventolai il lasciapassare, salutai le sentinelle, e me ne andai portandomi via un materasso. Vedi il pezzente. Avevo rubato il materasso per cavarne lana e farci maglioni. I maglioni col collo alto erano il mio sogno proibito. Sapevo anche come li avrei tinti. A Venezia, con Remo Brindisi, mi nascosi in casa di una sarta e mi feci pure aiutare dall’Ente profughi. Dicevo: «Saluto al Duce» e nessuno aveva sospetti. Ogni settimana l’Ente profughi dava un sacchetto di fagioli e io li accumulavo nel cassetto del comò per portarli a mia madre quando la guerra sarebbe finita. Da Venezia scappai con i fagioli e la lana del materasso. Scappai per Bassano del Grappa, mi avevano detto che lì c’era una filanda ed ero così ansioso di far filare la lana del materasso. Non aspettai nemmeno Remo Brindisi che era malato con la febbre. Entrai a Bassano del Grappa sorridendo a dozzine di futuri maglioni tinti. Mi apparve allora un signore di Roma. Era un ufficiale trasferito al Nord. Mi agguantò per un braccio, balbettò: «Per carità! Che fai qui?!?». E, mentre mi portava a casa sua, li vidi. I partigiani, voglio dire. Erano impiccati lungo il viale. Da ogni albero ciondolava un partigiano impiccato. Li avevano impiccati qualche ora prima, quando io scappavo con la lana e con i fagioli. Non chiedermi cosa provai lì per lì. Solo paura.
Niente di più. Guarda, è più giusto chiedermi cosa provo ora. Ho 46 anni, e 46 anni non sono pochi. Cosa ho fatto in 46 anni?
Nulla, quasi nulla. Se mi guardo indietro, mi sembra che invece di 46 anni ne siano passati appena una decina. Non sono nemmeno stanco. Non si è stanchi quando si ha così poco da ricordare. Se tento di ricordare vedo solo mio padre a bottega, le feste di Natale e di Capodanno con il gioco della tombola, il piacere di andare a tavola la domenica perché di domenica si mangiava meglio, la vetrina del calzolaio dinanzi a cui spasimavo per un paio di scarpe, quelle con la suola di alluminio che mi imponeva mio padre, il rumore che l’alluminio faceva a ogni passo e la vergogna che provavo perché mi sembrava d’essere un cavallo che zoccola sul selciato. E poi i bombardamenti di Roma. Il ritorno a Roma con i miei fagioli ormai inutili. A Roma gli americani erano entrati da tempo, mio fratello faceva il cameriere per loro. Portava in casa ogni bendiddio e a casa erano grassi come maiali. Vedendomi, mia madre esclamò: «Ma ’ndo vai con questi fagioli?!». Quel che viene dopo è così breve e confuso. Sembra durare tre giorni. L’università, il teatro, gli applausi, il cinema, il successo, una popolarità che non mi da alcun brivido. Ho fatto un’ottantina di film. Salvo cinque o sei, ho dimenticato anche i titoli. È lecito chiedersi come sia diventato attore e perché. Lo sono diventato all’italiana, cioè non per vocazione. Sebbene vi sia una componente femminile, nel mio carattere, che si addice al mestiere di attore. Alludo alla civetteria, alla vanità, alla puttaneria che il mio mestiere esige e che in buona parte io posseggo. Alludo anche al mio amore per la bellezza. E infine alludo al fatto che sono timido come una fanciulla, innamorato dei fiori come una donna.
MA TORNIAMO ai miei debutti di attore. Fu per caso e per necessità. A Roma, dopo la guerra, facevo il contabile in una casa cinematografica: la Rank Film. Non ero riuscito a inserirmi nell’industria edilizia e una cugina m’aveva trovato quel posto alla Rank. Qui lavoravo, o fingevo di lavorare, con cinque donne: in una stanza tappezzata con i ritratti di attori come James Mason, Patricia Neal, Margaret Lockwood, Phyllis Calvert. Forse influenzato da ciò, lasciavo che le cinque donne sgobbassero per me e passavo le giornate leggendo ad alta voce libri di poesie. Leggevo bene. Un giorno, la signora della stanza accanto mi disse:
«Ho un cognato che recita all’università, vuole che gli parli di lei?». «Magari, risposi». Guadagnavo 28mila lire al mese che se ne andavano in medicine per mio padre ammalato. Mai un cinematografo, mai uno svago, tutt’al più un po’ di biliardo. Mi iscrissi all’università, facoltà di Economia e commercio, per frequentare l’Accademia d’arte drammatica. Mi piacque. Recitai due anni mentre gli amici del quartiere mi prendevano in giro: «Ecché, se’ diventato frocio?». Poi Luchino Visconti mi vide, per caso, e mi mandò a chiamare: gli serviva un giovane e pensava di scritturarmi. Dissi: «Quanto?». Rispose: «2.500 al giorno». «75mila al mese, Gesù!». Lasciai subito la Rank e per mesi non confessai nulla a mia madre: ogni mattina continuavo a uscire alle otto e a dire che andavo in ufficio. Mi ci volle coraggio per confessare la verità. Lei la prese bene ma sussurrò: «Figlio mio, durerà?». Lo ripete ancora: «Figlio mio, stacci attento. Con tutti i camerieri che hai, con quel che costa la vita. Un buon impiego sarebbe stato meglio». È convinta che, se fossi entrato alle Ferrovie dello Stato, ora sarei capostazione e avrei i biglietti gratis per la famiglia.
Io ho avuto tanta fortuna, solo fortuna. La fortuna che a Visconti servisse un giovanotto rozzo come me. La fortuna che la sua compagnia fosse la più importante e allineasse attori come Ruggero Ruggeri, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Vittorio Gassman. La fortuna che Gassman se ne andasse e io prendessi il suo posto. La fortuna che mi offrissero il cinema, infine, grazie a questo nasino che detesto. Ma il successo di un attore non è quasi mai legato a ragioni nobili e serie. A me si addice la battuta che c’è in un film di Federico Fellini: «Ho troppe qualità per essere un dilettante e non ne ho abbastanza per essere un professionista».
NON HO MAI APPROFONDITO il mio lavoro. Non sono mai andato a vedere quel che fanno gli altri. Se lo avessi fatto, oggi sarei un attore straordinario: dopotutto ho dei numeri e non sono sciocco. Alla mia carriera, del resto, guardo come alla fiaba di Cenerentola. Mezzanotte verrà. E allora, di qui a mezzanotte, in questa lunga giornata che è la vita, tanto vale godersela. Sai chi mi ha capito? Un italiano che mi assomiglia: Fellini. Ed ecco perché lo amo: perché ha i miei stessi difetti, a cominciare dalle bugie. Sentii questo legame non appena vidi I vitelloni, e mi ci riconobbi. Lo sentii anche quando lui mi mandò a chiamare per La dolce vita e conobbi il suo nocciolo femminile, crudele. Era con Ennio Fiatano, mi disse: «Ti ho cercato perché mi serve un tipo anonimo». Mi ferì. Poi, per darmi un contegno, aggiunsi che non mi sarebbe dispiaciuto leggere il copione. Flaiano mi porse una cartella e dentro c’era solo un foglietto su cui Fellini aveva disegnato le onde del mare e un uomo a galla. Un uomo con un organo lunghissimo, così lungo che arrivava fino agli abissi coperti di alghe, e intorno a quell’organo nuotavano tante sirene. Diventai rosso, verde, giallo. Infine conclusi: «Vabbè». Feci bene. Con lui sono stato felice. Perché con lui tutto è possibile, tutto è permesso.
Io sognavo una famiglia patriarcale. E mi domando perché non sia riuscito a farla. Mi sposai senza entusiasmo ma pieno di consapevolezza: anche se mi comporto da irresponsabile, sono sempre cosciente di quello che faccio. Mi sposai per amore. Sì. Del resto a me era stato insegnato che amare una donna significa sposarla. Non ha funzionato lo stesso. L’unione tra me e mia moglie non è stata ne ideale ne completa. In parte per colpa mia, certo. In parte per colpa sua. Mia moglie è una donna molto interessante. È intelligente, colta, simpatica, elegante, indulgente, indipendente. Ma è anche molto bizzarra. Ricordo quando rimase incinta di nostra figlia. Non era contenta. Mi ferì: mi aspettavo da lei una gioia almeno convenzionale. Il fatto è che io e lei siamo troppo diversi. Io vivo sui colori incerti; lei vive sul bianco e nero, sull’estremismo. Le mie spiegazioni non sono mai le sue: ho dovuto quasi sempre mentirle. Le mentii perfino quando non trovai la carica necessaria per iniziare una vita nuova e tornai da lei e dall’amante. Non riuscii a dirle cosa mi riconduceva all’amante, cioè il fatto che fossi stato io a volerla e sedurla e convincerla e farle abbandonare tutto per me. E sempre stata così buona, la mia amante, con me. Così dolce, così generosa, così appassionata. Se avessi potuto dire queste cose a mia moglie! Quante volte, tornando a casa, pensavo: ora le parlo. Invece rinviavo a domani e il domani non veniva mai. Ma perché un uomo fa questo? Perché nella moglie c’è qualcosa che non funziona e lui ha bisogno di un’altra donna, ovvio. Perché, malgrado ciò, egli vuoi bene a tutte e due. Ma soprattutto perché egli non sa quel che vuole, perché non ha le palle necessarie per scegliere e prendere una decisione. Come ho fatto io per ben 15 anni. Ora ascolta. Provo una gratitudine folle per colei che chiamo la mia amante. Provo un rispetto immenso, una tenerezza infinita, un senso di colpa angoscioso.
E tuttavia considero ancora mia moglie come mia moglie. La considererò sempre mia moglie (non si separò mai, benchè negli ultimi 22 anni abbia avuto come compagna la regista Anna Maria Tato, ndr). Non ho nessuna voglia di divorziare. Ciò è molto cattolico, lo so: ma non parlo del matrimonio come di un sacramento, parlo del divorzio come di un dolore. Anzi, la perdita di un amico caro.
VERO CHE ERO PRONTO a divorziare per sposare Faye. Eppure mi dispiaceva lo stesso perdere mia moglie; toglierle il nome. Non sarebbe antipatico rubarle il nome che è stato suo per tanti anni, il nome che è anche di sua figlia, anzi nostra figlia? A me sembra più antipatico che avere amato altre donne, peggio che averle mentito. Vorrei parlare di Faye come se fossi già vecchio. Ma temo che da vecchio dirò le stesse cose di lei: peccato, peccato, peccato. Mi dispiace averla perduta. Mi dispiacerà sempre. Perché non riuscirò mai a trovare un lato sgradevole nella mia storia con Faye. Stavo bene con lei. Era la prima volta che stavo bene insieme a qualcuno, in maniera completa. Mi piaceva anzitutto la sua intelligenza. Non era bella. O era bella perché era imperfetta. Aveva mani da vecchia. La prima volta che gliele guardai, mi dissi: peccato, queste mani ossute. E invece mi affezionai alle sue mani da vecchia. Aveva piedi da apostolo: lunghi, secchi, maschili. Mi affezionai anche a quelli. Aveva ginocchia da Cristo. E aveva il naso schiacciato, rotto nel setto, incredibile: neanche la sua faccia era priva di errori. Ma era così luminosa, pallida e luminosa: con un mistero dentro, una follia nello sguardo. E aveva quei capelli biondi che per comodità portava a coda di cavallo. Mi giro ancora, per strada, a guardare una coda bionda di cavallo. E ho un sussulto. All’inizio accadde tutto per gioco, per curiosità, per noia. Facevamo insieme quel film, in un paese vuoto, fuori stagione. Succede. E può durare mesi, per noia, senza che tu sospetti di poterla amare. Ma un giorno sei lontano da lei e avverti un vuoto: ti accorgi che s’è insinuata dentro di tè, scopri di amarla quanto ti ama lei. Perché lei mi amò subito: in modo quasi eccessivo per una donna della sua indipendenza, della sua durezza. Rifiutava film importanti per starmi vicina, rischiò di rovinarsi la carriera. Io ne ero come spaventato. Non riesco ancora a convincermi che un tale amore si sia esaurito nel giro di una settimana, senza dar segno di erosioni, di scricchiolii. Partì per Madrid e non volle più rivedermi. A Madrid aveva incontrato un altro. Faye se ne andò per stanchezza, per l’insicurezza che le avevo sempre dato. Avrei dovuto ascoltare Fellini. Lui l’aveva capito che Faye era la soluzione alle mie confusioni. Una notte, a Parigi, facemmo l’alba a parlarne in albergo. E mi consigliò di decidermi, lui che è il rè del compromesso, mi spronò: «Vai, vai. Comunque si risolva, vai!». Mi disse anche: «Parlane con tua moglie, non tenere sullo stomaco questa pietra, fai un gesto definitivo almeno una volta nella tua vita». Ma io continuai a esitare. Di ciò mi resi conto solo quando mia figlia mi affrontò: gentile, dignitosa, matura. «Vai, papa, deciditi. Se continui in questo modo fai del male a tutti. Anche la mamma pensa così». Pensavano tutti così. Avevo nascosto con mille precauzioni la mia storia con Faye e la stessa Faye. Ero convinto che nessuno sapesse. Invece lo sapeva perfino mia moglie, perfino mia madre. Sì, Faye aspettò troppo. Quasi tre anni. E si svuotò nell’incapacità di aspettare ancora: certe attese consumano i sentimenti. Lì per lì mi sembrò che la vita non avesse più alcun senso per me e che Faye non si potesse sostituire. Invece l’ho perfino sostituita. Ma non mi è piaciuto molto.
Ho detto tutto. L’unica cosa che non ho detto è se credo in Dio. Ma è una domanda che non mi pongo mai. Il mio tipo d’uomo non è nemmeno religioso. Ecco fatto. Spero d’averlo liquidato come mi proponevo. E provo sollievo.