Libero, 23 novembre 2010
Tags : Interviste di Oriana Fallaci
Intervista a Frank Capra
Esser sinceri, signor Capra, mi sembra quasi impossibile che lei sia Frank Capra. E non già perché la immaginassi diverso. Malgrado ella sia un monumento di gloria cinematografica e uno dei registi più popolari del mondo, la immaginavo proprio così: piccolo e bonario, in maniche di camicia e con la pipa fra i denti, una gran bocca sardonica e due occhiett iche paiono due fiammiferi accesi. La immaginavo anche nonno, e infatti lo è già: scusi, sa, se lo dico. Mi sembra impossibile, ecco, che lei sia Frank Capra perché dopo il suo concittadino OrsonWelles lei è l’uomo più inafferrabile degli Stati Uniti d’America. La prima volta che la cercai, mi pare a Hollywood, lei era in India. La seconda volta che la cercai, probabilmente in India, lei era in Giappone. La terza volta che la cercai, probabilmente in Giappone, lei era in Cecoslovacchia. La quarta volta che la cercai, probabilmente in Cecoslovacchia, lei era in Italia. Parlarle finalmente in una stanza d’albergo a Madrid ha del miraggio.Ma che ci fa ora a Madrid? Me lo dica senza scherzare: lei ha talmente l’aria di ridere sempre su tutto e su tutti.
«Ci preparo un film per Samuel Bronston: il mio quarantacinquesimo o qualcosa del genere. Un film sul circo, infatti si chiamerà Circus, con John Wayne, lo schermo gigante e i colori. Una cosetta umoristica e spettacolare. In quegli altri posti, a parte la Cecoslovacchia dov’ero per un festival, ci stavo invece per il Dipartimento di stato. Insomma per il governo. In India, ad esempio, dovevo parlare con Nehru: d’untratto mi sono scoperto doti diplomatiche. E me le sono scoperte perché amo viaggiare. Soprattutto viaggiare gratis. Io vado dovunque mi paghino il viaggio. Presi il vizio durante la Seconda guerra mondiale, quand’ero colonnello dell’esercito americano incaricato di dirigere il servizio fotografico militare. In cambio dif armi rischiare la vita su quei bombardieri, il governo di Washington mi pagò il viaggio in un bune dove c’è Stalin che si lecca i baffi, serio serio, e dove scopriamo chenon c’è posto a sedere. Il colpo è duro in quanto io e Bob non saremmo venuti da Los Angelesa Moscaaveder la parata se ci avessero detto che non c’era posto a sedere, ma poi ci facciamo coraggio e restiamo in piedi: ad aspettare la parata che incomincia alcune ore dopo, con cannoni e cannoni, tutti i cannoni del nuovo impero romano, per non dire le altre cosec ome i fucili e i soldati. I cannoni stanno dunque passando che Bob esclama: “Mio Dio, permesso permesso, devo andare in un posto”, ma gli rispondono: “Fermo, non si può uscire, stanno passando i cannoni”. Passano altri cannoni, intanto è mezzogiorno, e anche io esclamo: “Mio Dio, permesso permesso”, ma mi rispondono: “Non si può, stanno passando icannoni”. Bob si arrabbia e dice:“Che paese è mai questo dovenon si può nemmeno andare inun posto”, ma non gli rispondenessuno e continuano a passarecannoni. Viene l’una, vengono ledue, vengono le tre, vengono lequattro, io dico: “Bob, bisognafare qualcosa, forse i russi nonfanno pipì ma gli americani lafanno”, quando i cannoni finisconoeincominciano le bandiere.Al che si ode un urlo e vedoBob che scavalca la tribuna e sibutta tra le bandiere che son portateda migliaia di operai, migliaiae migliaia di operai, sicchégrido: “Bob!”, e mi butto dietro dilui.Leassicuro chenonèproprioil caso di ridere».
Non rido, mi scusi, non rido. Vada avanti. Che accadde?
«Accaddecheio eBobsiagguantòil lembo di una bandiera e ci simise a marciare con gli operai,cantando sebbene ci mancassela voce, cercando con gli occhi unpiccolo buco ma il buco nonc’era, c’era solo quello schieramentodi polizia, più duro del ferro,più alto di un muro. “Bob”, dicevocantando “vedi niente?”“No, niente di niente” dicevaBob, cantando anche lui. E così,vedendo niente, reggendo il lembodella bandiera, cantando,morendo, continuammo per migliae miglia, finché fummo inaperta campagna, dove le file siruppero, e tutti, dico tutti, uomini,donne, bambini, si misero acorrere, a correre, verso i muri,verso le case, verso gli alberi, versoniente. Mio Dio! Che cattivo ricordo!» (...)
Senta, signor Capra: lei ha maiavuto noie durante il maccartismo?«Durante che cosa?»Il maccartismo.«Cosa?!»Maccartismo, McCarthy, senatoreMcCarthy. Quel signore che ad esempio mise nei guai i Dieci di Hollywood.
«Il maccartismo: mio Dio! È cosìpoco importante che non lo ricordavonemmeno, non capivonemmeno di che cosa parlasse.Sì, McCarthy fu peggiore del peggioredei comunisti: ma tutto èstato più mitologizzato fuoridell’America che in America.Quei dieci erano comunisti edebbero qualche difficoltà».
Un momento, un momento. Altroche qualche difficoltà. Ai tipicome Arthur Miller fecero un belprocessino e i tipi come DaltonTrumbo hanno ripreso solo tre oquattro anni fa a firmare sceneggiature e soggetti.
«Io non sono mai stato coinvoltoin quella faccenda. Non solo perchénon ho simpatia per i comunisti,non solo perché la politicala faccio nel senso che, se mi piaceun uomo, lo voto, non soloperché le campagne elettoralinon le faccio a nessuno e voglioesser libero di ridere su tutti, maperché la mia critica si è sempreespressa in modo umoristico. Ilsegreto dell’umorismo è che tipermette di dire ciò che non puoidire con la faccia seria. Io vedotutto in chiave umoristica, la tragedianon la capisco».