tratto da Intervista con il mito (Rizzoli 2010), 17 febbraio 2015
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Intervista a Virna Lisi (Giugno 1964)
Lungo il Sunset Boulevard, a Hollywood, c’è un enorme cartello: sei metri per dieci. Sul cartello sta scritto: «Questo nome si pronuncia così: Virna Lisi». In inglese Virna Lisi si legge Vairna Laisi, per leggere Virna Lisi bisogna scrivere Verna Lesy: tutti invece leggono Virna Lisi e questa, mi pare, è la prima vittoria della ragazza che in Italia non abbiamo mai preso molto sul serio e che nel migliore dei casi abbiamo trattato con antipatia o sufficienza. La seconda vittoria è il contratto che ha firmato con la Paramount: due film all’anno da girare per sette anni negli Stati Uniti o in Europa, un primo film dove sostituisce la Monroe. Il film, un giallo-rosa dal titolo How to Murder Your Wife (“Come uccidere vostra moglie”), era stato scritto infatti per Marilyn Monroe e, scomparsa lei, era stato offerto a Brigitte Bardot, che non aveva avuto il coraggio di dire sì.
L’assurdo problema di sostituire la Monroe perseguita Hollywood da quasi due anni: ci provano con Carroll Baker, con non so quale svedese, e ora vogliono provarci con lei che a quanto pare il sangue freddo e la faccia tosta per affrontare un tal paragone ce l’ha. Lo affronta accanto a Jack Lemmon che insieme alla Monroe girò Some Like It Hot (“A qualcuno piace caldo”), è abituato a esigere le partner migliori, una di queste è Shirley MacLaine, e tuttavia dice: «Oh, questa Virna arriverà dove vuole. Il successo le sta come un guanto alla mano, mi creda». Pressappoco quel che dicono Richard Quine, il regista, e il settimanale «Life» che quindici giorni fa le dedicò un mucchio di pagine; le aveva dedicato anche la copertina ma questa saltò all’ultimo momento, per la morte di Nehru. Insomma una fama tanto veloce, in America, non era toccata nemmeno alla Loren; le facce più sorprese, in America, io le ho viste quando mi chiedevano: «Lei che è italiana, mi dica, Virna Lisi com’è?», e rispondevo: «Mah! Io che ne so?».
Il problema di sapere com’è Virna Lisi, lo ammetto, non aveva mai sconvolto la mia esistenza. Da qualche parte avevo letto che ha un marito facoltoso, Franco Pesci, e un figlio; qualche volta l’avevo vista alla Tv, in una commedia o nella réclame di un dentifricio che si conclude su un primo piano dei suoi incisivi e canini, peraltro perfetti, mentre una voce afferma: «Con quella bocca lei può dir quel che vuole». E il non conoscerla non costituiva ai miei occhi una lacuna gravissima, mentirei turpemente affermando che tale lacuna rasentava per me la morte civile, l’Inferno. E questo era il mio stato d’animo quando la incontrai. Incontrai Virna Lisi per caso, a New York, in un salotto di amici. Se ne stava in un angolo a discuter di aerei, gli aerei sono la sua grande passione, ha il brevetto di pilota e mi dicono che è una buona pilota, e la prima cosa che mi colpì fu il suo volto duro, deciso, stranamente diverso da quello che rendono le fotografie, un volto senza tenerezze o indulgenze, con due occhi freddi, attenti, maschili, gli occhi di una che sa quel che esige e non si perde in metafisiche angosce. La seconda cosa che mi colpì fu la voce: metallica, chiara, sferzante, da solitaria che non si cura di conquistare la simpatia della gente. Infine, la domanda che mi rivolse quando le sedetti accanto, un po’ incuriosita: «Oh! So che lei scrive un libro sul viaggio alla Luna ed è stata a Cape Kennedy per assistere al lancio del razzo Saturno. Mi dica: ma la guida della capsula Apollo è automatica o no?».
Ne sapeva, del sistema automatico, almeno quanto lo specialista spaziale del «New York Times» e la domanda «Ma questa Virna Lisi, davvero, com’è?» mi venne spontanea, l’intervista, ancor più spontanea. L’intervista si svolse, una settimana dopo, a Hollywood, nella casa di Beverly Hills dove abita da cinque mesi insieme a Ubaldo, il fratello che l’ha seguita in America per tenerle compagnia e per proteggerla: ammesso che una ragazza così abbia bisogno di esser protetta da un fratello o da un altro. Si tratta infatti, e come vedrete, di una strana ragazza: la quale appartiene come poche altre all’era in cui vive. Seria, matura, ambiziosa, sorda a qualsiasi fantasia o illusione, qualsiasi rischio o avventura. Una specie di calcolatore elettronico, diciamo, che non commette errori nelle sue operazioni, su tutto offre una risposta scientifica, e finisce col nascondere in sé una inconfessata, ovvia, allucinante tristezza. Ma i calcolatori elettronici chiusi a chiave dentro la loro prigione di ferro, di numeri, di formule esatte, hanno forse qualcosa di allegro?
Dunque gli americani vogliono farle sostituire Marilyn Monroe. Sostituire la Monroe! Parliamone un poco, Virna, vogliamo? Parliamone a viso aperto e... perbacco! Non le pare, questa, una impresa un po’ audace? Una responsabilità un po’ pesante?
Ma io questa responsabilità non la sento nemmeno, io non ci penso nemmeno a sostituire la Monroe. Sono mesi che glielo dico, mio Dio, siete pazzi, come si fa a sostituire la Monroe, è già assurda l’idea di sostituire una persona con un’altra persona, figuriamoci sostituire la Monroe, con me poi, con quel pochino di seno che mi ritrovo, non che sia una questione di seno, s’intende, è che sono diversa fisicamente, psicologicamente, emotivamente, mio Dio, a me piaceva da morire la Monroe, quand’era sullo schermo arrivava fino all’ultima fila della platea, anche se stavi in fondo te la trovavi accanto e ti toccava una mano, sono mesi che glielo dico, ma io che c’entro con Marilyn Monroe? Dica: che c’entro?
Guardi, nulla. Proprio nulla.
Dicessero: devi sostituire Grace Kelly. Bè, capirei. Con lei ho molte cose in comune, le assomiglio come tipo fisico, le assomiglio come carattere, vita privata ineccepibile, disciplina, una certa abitudine a tenersi in disparte, a non dar confidenza, a non provocar scandali... Lo dice anche Richard Quine, il regista del film, che assomiglio piuttosto a Grace Kelly, quando facemmo il provino a Parigi venne fuori la sorella minore di Grace Kelly, non a caso lui e il produttore hanno perfin litigato su questo argomento: una volta dinanzi ai miei occhi. «Ti dico che è una nuova Grace Kelly» ripeteva Quine. «E io ti dico che possiamo cavarne una nuova Marilyn Monroe» ribatteva il produttore. Una Kelly, no, una Monroe. Kelly, Monroe. Kelly, Monroe. E io nel mezzo, smarrita, impaurita, a guardar prima l’uno e poi l’altro mi pareva d’esser a una partita di tennis, sa, quando si gira continuamente la testa per seguir la pallina che va da destra a sinistra, da sinistra a destra, da destra a sinistra, avevo il caos nella testa, a un certo punto avrei voluto strillare, accidenti, perché non dite che io sono io, perché volete farmi diventare un’altra a ogni costo?
E glielo disse, alla fine?
No, che non gliel’ho detto. Volevo quella parte, non son mica scema. Non gliel’ho detto per niente, al contrario: quando uno diceva Grace Kelly assumevo un’aria distaccata, elegante, proprio da Grace Kelly, quando l’altro diceva Marilyn Monroe assumevo un’aria svampita, un po’ scema, proprio da Marilyn Monroe. Comunque ha vinto il produttore ed eccomi qua, a imitare la Monroe: col capello vaporoso, le ciglia finte, il trucco pesante, l’espressione tonta delle bambolone. Oh, vanno pazzi qui a Hollywood per le bambolone. Mi hanno fatto ingrassare di quattro chili perché i vestiti mi tirassero addosso, mi hanno ossigenato i capelli, mi hanno insegnato le risatine speciali, e anche quando c’è un cocktail o un pranzo o una conferenza stampa devo conciarmi così, guai se mi presento col capello tirato, la faccia pulita, il tailleur nero come piace a me. A volte mi guardo allo specchio e non mi riconosco, per qualche minuto penso sbalordita: «Ma chi è quella scema?». Dio mio, guardi, quando sono conciata a quel modo, non mi resta che il neo sopra il labbro. E naturalmente tutti lo credono finto. L’altra sera ero a un party, a un tratto uno un po’ sbronzo si alza e col tovagliolo tenta di togliermi il neo. «Signore,» gli dico «questa è l’unica cosa vera che mi sia rimasta. Lo lasci stare, per carità. » Bè... l’ha presa per una battuta di spirito.
Coraggio, Virna. Coraggio. Lei non è il primo agnello sacrificato da Hollywood.
Agnello? Paura? E chi è agnello? E chi ha paura? Certe cose fanno parte del gioco, e io sto al gioco: purché non vada un po’ troppo in là. Una volta sola è andato un po’ troppo in là: me ne sono accorta quando ho capito perché tanti mi chiedevano in moglie. Un giornalista stava intervistandomi, le solite domande sugli uomini americani e il sesso, che ne pensa degli uomini americani, che ne pensa del sesso, oh, il sesso gli dico, guardi io gli do l’importanza che ha, non di più, non sono mai stata una donna ossessionata dal sesso, quanto agli uomini americani non so, a occhio e croce mi sembrano assai rilassanti, non ti guardan neanche se giri per strada in mutande! Sempre timidi, sempre distratti, ieri ero alla partita insieme a Ubaldo e Ubaldo mi dice: «Ma Virna, hai la gonna su, Virna, ti guardano Virna», io abbasso la gonna, giro gli occhi come a chiedere scusa, e nessuno mi guarda, nessuno; in Italia quando vai alla partita lo sai bene che gli uomini si occupano più delle tue gambe che della partita, qui no, si occupan solo della partita.
Dunque parlo con questo giornalista del sesso che secondo me esiste a chiacchiere e basta, almeno qui a Hollywood, e non so come il discorso mi cade sul figlio. «Ah, dunque ha un figlio» balbetta lui imbarazzato. «Sì,» dico «un bellissimo figlio che ha quasi due anni.» «Ah, complimenti pel suo coraggio» balbetta lui ancora più imbarazzato. «Sì,» dico «anche mio marito pensa che abbia coraggio.» E lui: «Come?! Ha anche un marito?!». Conclusione: nessuno sapeva che ero sposata, gli agenti di pubblicità avevan fatto di tutto per tenerlo nascosto, ritenevano molto più sexy reclamizzarmi come una donna sola, disponibile insomma, e in questo caso non son stata al gioco, lo ammetto, ho telefonato subito al produttore gridando che il marito ce l’ho e non cerco altri mariti, oltre al marito ho anche un figlio e legittimo, basta con gli equivoci. Ma poi cosa m’importa? Non durerò mica a lungo a fare la Monroe. Richard Quine è convinto che debba rimpiazzare la Kelly e il lancio pubblicitario si rifà piuttosto al personaggio Grace Kelly.
Lo so, l’hanno presentata come un’italiana molto seria, molto sofisticata, molto ricca: insomma la tipica ragazza che non ha bisogno di lavorare perché è piena di soldi. Qualcosa di mezzo tra Gloria Vanderbilt e Barbara Hutton.
Secondo loro fa chic.
Già. E lei si guarda dallo smentire.
Perché dovrei? Anche quello fa parte del gioco.
Già. Il gioco per avere successo: perché è molto ambiziosa. Molto, molto ambiziosa. Incredibilmente ambiziosa. O mi sbaglio? Non si sbaglia affatto, lo sono. L’ambizione non è mica una colpa, non è mica un peccato. Lo sono: ma con saggezza, fi- no al punto cioè in cui so di poter arrivare da sola, senza dir grazie a nessuno, detesto dir grazie a qualcuno. Vede, io ho un orologio dentro di me e questo orologio mi dice via via dove posso arrivare. Così, se dice che posso arrivare a cento, punto su cento; se dice che posso arrivare a trenta, punto su trenta. Il mio orologio dice oggi che, travestita da Grace Kelly o da Marilyn Monroe, posso puntare su Hollywood. E io ci punto, con decisione, senza incertezze, perché, guardi, non creda che sia latte e miele come mi vede la gente. Ho i lineamenti di bambola ma non sono affatto una bambola; non se n’è accorta solo lei, se n’è accorto anche Fellini che il mio volto è assai duro, i miei occhi durissimi, una volta m’ha detto: «Virna, se dovessi farti fare una parte ti farei fare la parte della donna cattiva», e poi ho ventisei anni, ne avrò ventisette a novembre, so quel che dico e che faccio.
Nessuno ne dubita, Virna. Nessuno. E a questo punto vorrei proprio spiegare, senza tenerezze o lusinghe, lei sa che non ne sono capace, chi è lei: chi è insomma la nuova italiana giunta a Hollywood per conquistare l’America. Un’italiana che, vedi caso, non è molto amata in Italia: che è giudicata antipatica, odiosa, scostante, e...
Lo so, lo so. La Lisi si dà un mucchio di arie... La Lisi guarda dall’alto in basso... Ma chi si crede d’esser la Lisi... La gente giudica sempre gli altri senza conoscerli, senza tentar di capirli. Quelli del cinema poi. Lo so di non esser simpatica a quelli del cinema. E lo sa perché? Perché loro non sono simpatici a me: l’antipatia provoca antipatia, no? Mi sono antipatici e così non li frequento. D’altra parte, perché dovrei? Io sto bene a casa, nell’ambiente borghese al quale appartengo: sono una borghese e non vedo perché dovrei mischiarmi con chi recita l’anticonformismo facendo le sei del mattino. Nel cinema poi ci son capitata per caso, non perché lo volessi, e non ci resto per vanità o per denaro. Del denaro, malgrado non sia Gloria Vanderbilt o Barbara Hutton, non ne ho bisogno davvero; la vanità si addice poco al mio buonsenso. Non che detesti le copertine sui settimanali, sia chiaro, la notorietà: certe cose fanno sempre piacere e chi lo nega è un bugiardo. Ma di questo mestiere io considero soprattutto il lavoro: quello che si fa dinanzi alla macchina da presa e costa fatica, il lavoro-lavoro. Oh! La Lisi si dà un mucchio di arie... La Lisi guarda dall’alto in basso... La Lisi... Oh! Glielo dico io chi è la Lisi: è una ragazza che ha avuto una educazione assai rigida, addirittura severa, e non si è mai dispiaciuta di questo. Pei miei genitori vedere un film era già quasi un peccato, alle sette e mezzo di sera bisognava essere a casa, quando cominciai a lavorare nel cinema fu come affrontare l’Inferno. Avevo quindici anni nemmeno, arrivavo sul set accompagnata dal padre, la madre, la zia... e non mi son mai sottoposta a un tirocinio speciale... Mi spiego? Per forza sono antipatica, no?
No, non per quello, direi. Per la sua furbizia, direi. Per questa sua capacità di ottenere tutto senza rimetterci mai: marito, figlio, carriera, ricchezza, successo. Vogliamo parlare di questo nel nostro ritrattino? S’era ritirata dal cinema sposandosi. Aveva detto: «Non me ne importa di Hollywood», e invece eccola qua: a dimostrare che gliene importa anche troppo...
Quando mi sposai avevo ventidue anni. Lavoravo da sette, ero stanca. Mio marito disse che preferiva vedermi a casa e io lo accontentai con entusiasmo, con sollievo: per un anno rimasi a casa a fare la mogliettina. Ma non si perde l’abitudine al lavoro, a sette anni di attività, e non mi ci volle molto a capire che non riesco a vivere come una ricca borghese che la mattina va a spendere i soldi del coniuge e il pomeriggio gioca a carte insieme alle amiche. Io, se non ho cinque appuntamenti al giorno, cento cose da fare, mi sento come malata inutile sciocca, mio Dio l’angoscia di quelle giornate! Di quell’estate! La mattina al mare, sotto l’ombrellone, con le altre mogli che sferruzzavano i golfini, il pomeriggio a spettegolare del prossimo, la sera al cinema, mio Dio, c’è da impazzire, mi sembrava di giocare alle signore, non ce la facevo, nella nostra epoca una donna non può vivere così, una donna moderna è condizionata al lavoro, e quando fu chiaro che non ce l’avrei fatta, lo confessai a mio marito, lasciami andare per carità. Lui capì, e mi lasciò andare. Però non creda che non abbia pagato per questo, che per me sia tutto gratis. Non creda che sia riuscita a conciliare ogni cosa, che ci riesca. La mia famiglia io l’ho assai trascurata tornando al lavoro: se non avessi i genitori e la nurse, mio figlio sarebbe uno sbandatello. Da quando mi trovo a Hollywood, e sono ormai cinque mesi, non ho visto mio figlio neanche una volta; quanto a mio marito, è venuto solo un mese fa per dieci giorni. Se la mia famiglia resta unita, guardi, è perché sono una donna seria e non mi permetto divagazioni sentimentali. È facile per una attrice permettersi divagazioni sentimentali, quasi inevitabile spesso, ma io non me ne sono mai permesse, mai mai mai! Io ho conosciuto solo un uomo, mio marito, e a lui resto fedele perché penso che questa sia la cosa giusta da fare. Guardi, noi giovani d’oggi siamo molto saggi: molto più saggi e maturi di quanto si creda. Io non capisco perché la gente parli male di noi.
Sono saggi per calcolo, quando lo sono. Per un piano, direi, freddamente prestabilito: non per istinto o per desiderio, o per convinzione interiore. E forse mi sbaglio, ma la sua vita è una dimostrazione di questo.
E chi lo nega? La mia vita io l’ho sempre organizzata come si organizza l’orario di un treno: ho sempre saputo in anticipo ciò che avrei fatto. A questa età devo sposarmi, ho detto, a questa età devo avere un figlio, e la famiglia faceva parte del piano prestabilito. Ci vuole buonsenso, nella vita, ci vuole giudizio; e io ho sempre pensato che il successo è importante ma, se dietro non c’è la famiglia, diventa pericoloso. La famiglia è un’àncora, una ciambella di salvataggio, una è più rilassata quando ha la famiglia, più sicura, se invece una ha solo il lavoro si sente sbandata, passa il suo tempo a dire oddio la tale mi ha soffiato la parte, oddio quel contratto è sfumato, oddio non mi hanno fatto la copertina, oddio mi vengon le rughe, e quando perde il lavoro, quando perde la gioventù, non le resta più nulla. No, no, bisogna organizzarsi se si vuole un avvenire sicuro, se non ci si organizza capita sempre il momento in cui arriva la crisi, e con la crisi che fai? Ti tiri una fucilata? Io non sono tipo da tirarmi fucilate, e non lo sono perché non mi ammalo se la copertina sul l’«Europeo» non me la fanno. La copertina è importante? Ma sì, è importante, però che te ne fai se dietro di te non c’è qualcosa di solido, che te ne fai se non sei inserita dentro un sistema? Fare un film con Jack Lemmon è importante, però che fai quando il film è finito? Io, ora che il film è finito, me ne torno a casa da mio marito e mio figlio: posso tornarmene a casa perché ho saputo organizzarmi, con ostinazione. Sono rimasta a letto otto mesi per avere quel figlio, immobile, senza alzarmi nemmeno per andare in bagno, sono pronta a ripeterlo quando vorrò un altro figlio, e questa son io. Io voglio sapere cosa mi accadrà domani e dopodomani e dopodomani ancora...
Che noia, però. Non si annoia a viver così? A preveder tutto?
Neanche per sogno: mi trovo benissimo. Vede, a me non piace rischiare: detesto il rischio nella stessa misura in cui detesto lo sport. Perché fare lo sport? Magari ti rompi una caviglia, devi startene a letto due mesi e perdi un film. Vede, io di morire non ho paura: posseggo il brevetto di pilota, lo sa, e ogni volta che guido l’aereo potrei precipitare, morire, però morire rientra nel previsto; rompersi la caviglia, no. In altre parole per me è spaventoso rompersi una caviglia, una caviglia rotta interrompe l’equilibrio, ma non è spaventoso morire perché morire rientra nell’equilibrio del mondo, non è un imprevisto. Oh, detesto l’imprevisto! Detesto rischiare. E... a lei queste persone non piacciono, vero?
Non è che mi piacciano o mi dispiacciano. È che non le capisco. La vita senza avventura, senza sorpresa, senza mistero, cos’è?
Io, sono le sole che capisco. E del mistero, della sorpresa, dell’avventura non mi importa niente.
Allora l’America è proprio il paese che fa per lei. Allora si troverà molto bene in America, avrà più successo di quanto crede in America. Dica, Virna: le piace molto l’America?
Oh, sì! Molto! Tutto è così serio, qui, organizzato, previsto. Non avrei mai immaginato che un paese potesse essere così serio, organizzato, previsto. Oh, sì! Mi piace molto l’America. Mi piace tutto dell’America. Mi piace... mi piace... mi aiuti...
La ricchezza dell’America.
Esatto. La ricchezza. Mi piace ad esempio che la mia parrucchiera abbia un’automobile bella come la mia, che la mia domestica abbia un’automobile bella come la mia, e il tele- visore, e la macchina per lavare i piatti, e un appartamento elegante, e non me ne importa nulla che per questo siano aridi, senza fantasia, incapaci di comunicarmi qualcosa. Secondo me è più importante star bene, aver soldi, che comunicare con gli altri, e poi guardi: forse che le mie amiche di Roma mi comunicano qualcosa di più degli americani? Mi si dice: ma gli americani parlano solo di baseball, di soldi, dei prezzi al mercato. Bè? E in Italia si parla di qualcos’altro? Il mondo è tutto uguale, ormai, e allora tanto vale stare nel paese che ti offre più soldi e comodità. E poi mi piace... mi piace... mi aiuti...
Il perbenismo dell’America.
Esatto. Vede, hanno tentato di presentarmi come una ragazza disponibile e sexy, d’accordo. Però quando hanno saputo che il marito esisteva, che il figlio esisteva, sono stati tutti contenti. Agli americani piace che un’attrice abbia famiglia e sia rispettabile: avere un marito, essergli fedele, avere un figlio, amarlo, qui è una cosa che ti fa onore. Gli americani non hanno paura del perbenismo. In Italia, invece, non so: con tutto il nostro cattolicesimo sembra che il perbenismo sia come una colpa, un difetto. Nel cinema specialmente. Voglio dire che io lo so benissimo dove sta il bene e dove sta il male, ma in Italia, a volte, sono riusciti a farmene dubitare, a farmi dire: ma faccio bene dopotutto a essere una donna seria, non avranno ragione per caso quelle che non lo sono? Insomma, a un certo momento, ti mettono addosso un sospetto, il sospetto che potresti anche avere sbagliato: in America no, in America un’attrice dev’essere una donna seria, l’onorabilità te la mettono anche nel contratto, e questo a me sta proprio bene. E poi mi piace... mi piace... mi aiuti...
Non saprei. Questi fiori di plastica, dica, le piacciono?
Ecco... guardi no... naturalmente no. Voglio dire che quando sono arrivata mi hanno fatto trovare il camerino pieno di fiori, fiori meravigliosi, poi li ho annusati ed erano fiori di plastica: ho provato come una stretta al cuore. Io non capisco, ci sono giardini bellissimi qui, coltivati da giardinieri giapponesi, però entri nelle case e non c’è un fiore vero, sono tutti fiori di plastica, fiori fatti a macchina. Così ogni volta mi arrabbio o provo quella stretta al cuore, poi però ci ripenso e mi dico: well, why not? Bè, perché no? I fiori fatti a macchina sono belli a vedersi come i fiori veri e sui fiori veri hanno un grande vantaggio: non appassiscono e non hanno bisogno di acqua, e insomma sono più economici e pratici.
Oddio, Virna, che disastro. Lei è già americana: non v’è dubbio che avrà successo quaggiù. Dica: le piace anche il futuro che si prepara quaggiù?
Oh, sì, certamente. Non ho paure né fisiche né metafisiche per il futuro che si prepara quaggiù, appartengo in ogni senso all’epoca in cui sono nata. Un razzo mi eccita, l’idea di andar sulla Luna mi entusiasma, se mi chiedessero: «Virna, vuoi far l’astronauta? », direi immediatamente di sì. Non conosco l’invidia ma ogni volta che un astronauta va su provo come un’invidia, ho il brevetto di pilota, lo sa, sì, gliel’ho già detto, lo sa, comunque niente mi piace quanto volare. Uno si sente il padrone del mondo a volare, l’aereo è forse l’oggetto più bello che l’uomo ha inventato, io conosco ogni tipo di aereo, quando esce un nuovo modello vado subito a leggere quale velocità può raggiungere, e quale modifica è stata fatta al motore, se potessi cambiarmi con un’altra donna mi cambierei con la Tereshkova.
Via, no: oltretutto la Tereshkova è bruttina. Non è contenta d’esser così bella?
Intanto bisogna vedere se lo sono davvero, io non ho affatto una tal convinzione. Essere bella non significa avere lineamenti perfetti, una faccia di bambola come la mia. Bella, secondo me, è Jeanne Moreau, lo è stata Katharine Hepburn. La bellezza non viene da un volto liscio, costruito bene, privo di rughe: viene da un volto interessante, intelligente. Io ho sempre desiderato un volto interessante, intelligente, invece ho sempre avuto un volto di pupattola e ne ho sempre sofferto. Ammettiamo comunque che sia bella: lei crede davvero che la bellezza sia un grosso vantaggio, un utile strumento? La bellezza è quella cosa che fa fermare la gente ad aiutarti quando la tua automobile è in panne: per quanto incredibile possa sembrare, spesso io preferirei restar sola con la mia automobile in panne. La maggior parte delle donne belle che io conosco sono donne infelici, perseguitate oltretutto dalla fama di stupide. Se ho combinato qualcosa nella vita, se combinerò qualcosa nella vita, non è stato e non sarà perché sono bella: ma perché ho usato e intendo usare il cervello. Io attendo con impazienza le rughe, la vecchiaia: le rughe mi toglieranno questo volto di bambola, e la gente mi prenderà più sul serio, potrò interpretare ruoli più intelligenti. Oh, questa storia della femminilità, della grazia! Non me ne importa nulla d’essere femminile, graziosa: avrei dato non so cosa per nascere uomo, fare a pugni da uomo. Lo sa quali sono i film che io preferisco? I film di guerra. Quando vado a vedere un film di guerra mi illudo di essere uno di quei personaggi, quando sparano, sparo, quando muoiono, muoio, uscendo ho una carica addosso che potrei rovesciar il mondo col mignolo. I film d’amore invece non li posso soffrire, i film che faccio io: quando li vedo, sbadiglio e m’entra il nervoso.
Capisco. E dal momento che non può andare alla guerra, che non può andar sulla Luna, che non può fare a pugni, che le capita la tremenda sciagura d’essere bella, saggia, perbene, come si diverte a vivere, Virna? Voglio dire: quando non lavora, quando non vola, quando non organizza il futuro con l’orologio e il compasso, lei cosa fa?
Se glielo dico, lei non ci crede.
Sì, sì: ci credo.
Ecco... io...
Coraggio. Lei...
Vado a spasso pei...
Coraggio. Va a spasso pei...
Pei cimiteri.
Pei cimiteri?! Ho capito bene?... Ha detto cimiteri?!?
Cimiteri. Sì. Cimiteri. Mi piacciono tanto. Non so perché mi piacciono, va a vedere perché mi piacciono, so soltanto che nei cimiteri mi sento tranquilla, serena, felice. Ce n’è uno, a Roma, vicino a casa mia, dove trascorro ore e ore. Appena ho un poco di tempo libero prendo un libro e vado in quel cimitero. Lì leggo, o passeggio, o penso... Una delizia, un conforto.
Una delizia?!...
E il cimitero di New York lo ha mai visto? Sì, quello che si costeggia venendo dall’aeroporto. Non è stupendo? Così grande, sterminato, sembra una città, mezz’ora di taxi non basta a costeggiarlo. Così grigio, così triste, così fermo. Oh, è un cimitero bellissimo quello di New York.
Bellissimo?!...
E quello di Los Angeles, come si chiama, Forest Lawn, non le piace? Oh, quello è anche divertente. Io, quando son malinconica, prendo la macchina e vado a Forest Lawn. Quei recinti a forma di cuore, quella musichina che esce dalle tombe o dagli alberi, quelle cappelle incredibili. C’è anche lo spettacolo, a Forest Lawn, la crocifissione di Cristo, l’ha vista? Suona il colpo di gong, poi la voce di Giuda dice: «Adesso ti tradirò», straordinario. Oh, io capisco gli americani che vanno a fare i picnic tra le tombe.
Il picnic fra le tombe?!...
Mi affascina, che devo farci? Forse perché non ho paura di morire, ripeto, non me ne importa. Morire è normale, finire è normale, tutto muore a questo mondo, tutto finisce, allora perché averne paura? Mica che mi dispiaccia stare al mondo, intendiamoci, io son contentissima d’essere al mondo, però più di quel tanto non ci si può stare e così accetto la legge e...
Va a spasso pei cimiteri.
Vado a spasso pei cimiteri. Però questo che c’entra? Non dovevamo fare il mio ritratto?
È già fatto, Virna. È già fatto.