il Fatto Quotidiano, 29 gennaio 2015
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Biografia di Walter Veltroni, impossibile candidato al Quirinale
Diciamocelo: se non fossero tempi complicati sarebbe l’uomo perfetto. Chi meglio di Walter Veltroni può inaugurare stagioni teatrali, parchi, ospedali e strade? Chi meglio di lui potrebbe fare lo spettacolo di fine anno a reti unificate o inventare sempre nuovi “giorni di” per ricordare questo e quello? Pure la politica internazionale sarebbe a posto: il popolo Saharawi, per dire, potrebbe erigere una tenda al suo desiderio di libertà in piazza del Quirinale se lui fosse capo dello Stato. Veltroni sarebbe pure il candidato perfetto per Renzi: la camera d’aria ideale, per così dire, per il venticello del cambiamento. Peccato che siano tempi duri e Walter sia più amato dagli autori tv che in Transatlantico.
Il ritratto più acido del nostro lo consegnò al Corriere della Sera Filippo Mancuso, giudice egomaniaco che fu suo avversario nel collegio di Roma 1 alle elezioni del 1996: “Un elencato-re di luoghi comuni. Parla di cose che non sa. Cita libri che non legge. È un anglista che non conosce l’inglese. Un buonista senza bontà. Un americano senza America. Un professionista senza professione”. Si dimenticò di quella che allora era l’antinomia più ricorrente del nostro: comunista senza il comunismo. Classe 1955, iscritto alla Fgci da adolescente, s’innamora di sua moglie Flavia Prisco durante un viaggio in Germania Est nel 1973. Eppure negli anni Novanta comincia a dire di non essere mai stato comunista: berlingueriano semmai. “Breznev era un nemico” e Veltroni, dunque, un agente infiltrato per abbattere l’Urss. Essendoci riuscito – o almeno così pare – se ne potrebbe vantare, ma essendo modesto non lo fa. Come capo dei giovani comunisti romani, però, gli va almeno riconosciuto un merito: espulse Augusto Minzolini (pare fosse troppo di sinistra per la Fgci di Veltroni). Nel 1992, abbattuta la dittatura sovietica e il Muro di Berlino, deve trovarsi un lavoro e, pur essendo solo pubblicista, lo chiamano a dirigere l’Unità, il giornale fondato da Antonio Gramsci: lui trasforma quel vecchio foglio di lotta ormai in disarmo in una ricettacolo di tutto il bric-à-brac culturale – a partire dall’uso contundente della memoria, meglio se spicciola – con cui riarredare il salotto di Nonna Speranza della sinistra (chic, diciamo, ma non di classe). Intanto studia da leader.
Nel 1994 il primo scontro alla luce del sole con Massimo D’Alema. Giubilato Achille Occhetto dopo la disfatta elettorale, bisogna scegliere il segretario del Pds: la base preferisce Veltroni, ma i dirigenti eleggono il Leader Maximo. Il nostro se ne fa una ragione e nel 1996 va a palazzo Chigi con Prodi: vicepremier e ministro della Cultura. È lì che Walter costruisce la sua vera rete di “grandi elettori”: registi, attori, curatori di mostre, giornalisti (li ricorda quasi tutti e quasi tutti chiama per nome) sono i veri veltroniani.
Altro giro, altro incrocio con D’Alema. Dopo l’uccisione rituale di Prodi, a palazzo Chigi va Max e Veltroni si prende il partito: siamo nel 1998 e nei due anni successivi il Pds perderà tutte le elezioni possibili. Quando si avvicina la mazzata delle Politiche 2001, però, Veltroni si sfila: al partito va Fassino e lui diventa sindaco di Roma. La sua stagione al Campidoglio – durata 7 anni – ha i contorni del mito: sindaco più amato dell’orbe terracqueo (a stare ai giornali), gran accenditore di luci al Colosseo o ad uso “Notti Bianche”, inarrivabile inauguratore di parchi, s’è creato la sua Festa del Cinema e per il resto ha lasciato fare agli uomini di mano.
Al netto del fatto che il suo vicecapo di gabinetto, Luca Odevaine, sia finito nell’inchiesta Mafia Capitale (soprannome: “Il padrone”), Veltroni ha amministrato Roma a braccetto coi tradizionali poteri della città: i palazzinari, soprattutto, che in qualche caso sono anche editori. Si costruiva che era una bellezza, nella Roma di Veltroni, e con le varianti in deroga si potevano vendere interi quartieri senza servizi pubblici e a volte nemmeno strade per scappare.
Nel 2008 l’ultima corsa: lascia Roma e va a fare il segretario del neonato Pd. I romani, amareggiati dalla partenza, votano Alemanno e scoprono che la città stava affondando sotto il peso di un debito abnorme: ci penserà Gianni Letta, estimatore del nostro, a evitare la deflagrazione del caso creando una “bad company Roma” garantita dallo Stato. Seguirono insuccessi elettorali a raffica e le dimissioni a favore del suo vice, Dario Franceschini. Renzi disse: “Dopo il disastro, il vice disastro”. Ora il vice è suo ministro e il disastro capo aspetta, spera e ogni tanto scrive e va da Fabio Fazio. Sarebbe il presidente perfetto, se il mondo non fosse così reale.