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 2015  gennaio 17 Sabato calendario

Biografia di Muhammad Ali

ALI Muhammad (Cassius Clay) Louisville (Stati Uniti) 17 gennaio 1942. Pugile. Tre volte campione del mondo dei pesi massimi: il 25 febbraio 1964 a Miami Beach contro Sonny Liston, il 30 ottobre 1974 a Kinshasa (Zaire) contro George Foreman, il 15 settembre 1978 a New Orleans contro Leon Spinks. Ha difeso il titolo 19 volte, nel 1967 gli fu tolto per il suo rifiuto a partecipare alla guerra del Vietnam. Nel 1960 aveva vinto a Roma la medaglia d’oro olimpica, categoria massimi leggeri. «A soli 17 anni aveva vinto negli Stati Uniti il famoso Golden gloves, un torneo che ha spesso portato alla ribalta le future stelle del pugilato statunitense e mondiale [...] A Roma, nel 1960, dopo aver fatto strage nelle eliminatorie, affrontò in finale il polacco Pietrzykovski che, annichilito, non osò sferrare un sol colpo nei primi due round [...] Quel suo stile a passo di danza lo faceva emergere prepotentemente tra i pesi massimi [...] Dotato di un pugno tutto sommato mediocre, li sfiniva letteralemente, assestando con precisione ripetute serie di colpi [...] Ha avuto anche il bernoccolo degli affari [...] All’inizio si fece comprare da un gruppo di quindici uomini d’affari di Louisville [...] è stato abile nel comprendere l’importanza dell’impatto che avrebbe avuto la pubblicità televisiva [...] Apostrofando l’avversario, punzecchiandolo, inveendo contro di lui o, per meglio dire, insultandolo, riusciva a fare un avvenimento di un semplice incontro di boxe [...] Nel 1964 aderisce ai Black Muslims assumendo da quel momento il nome di Muhammad Ali; il 28 aprile 1967 rifiuta di partire per il Vietnam [...] Gli viene ritirata la licenza pugilistica, si vede privare del titolo mondiale e viene condannato a cinque anni di reclusione (che non sconterà mai) [...] La condanna verrà annullata il 28 settembre 1970» (Jean Boully). Da anni è gravemente malato (morbo di Parkinson).
«C’è un’immagine che il mondo non potrà dimenticare: Muhammad Ali che percorre con la torcia olimpica in mano l’ultimo chilometro prima di dare avvio alla cerimonia inaugurale dei giochi di Atlanta del 1996. l’immagine di un uomo minato nel corpo, che non riesce a celare i segni della malattia, ma che generosamente si espone per celebrare l’ideale più alto dello sport. Una nemesi terribile per uno degli atleti più agili del pianeta» (dalla quarta di copertina de Il re del mondo, David Remnick, Feltrinelli 1999).
Nel 2001 il regista Michael Mann ha girato un film sulla sua storia (la sua parte è interpretata da Will Smith): «Ha commosso tutti dietro le quinte della registrazione dell’eccezionale show tv condotto dalla star della ABC, Oprah Winfrey. Era sorretto da amici fidati, ma nella conversazione con la stampa è stato al solito vivace, attento, partecipe e anche spiritoso. [...] A tutti i presenti ha dato ancora una volta l’impressione di saper colpire con le parole come un tempo faceva con i pugni: ”Ogni tanto viene nel mio ranch qualche studente e mi chiede di fare una tesi su di me. Mi commuove, piuttosto, che a voler sapere tanto di me siano i ragazzi di oggi, in tutto il mondo. Ricevo migliaia di lettere e ammetto che la popolarità mi riscalda. I ragazzi vogliono sapere quale match mi ricordo di più e io rispondo: quello con Joe Frazier» (’la Repubblica”, 2/12/2001).
«Pisciò sangue, nella notte in cui vinse a Manila su Frazier (primo ottobre 1975). Quando lo chiamarono per la conferenza stampa non si reggeva in piedi, ma chiese un pettine appena gli dissero, e non ci voleva credere, che Frazier era in grado di andarci. ”Mi brucia tutto”, disse. Imelda Marcos lo accompagnò al buffet, ma lui non riuscì a mangiare: masticare era doloroso, la bocca era tumefatta, l’occhio destro era viola, nell’altro non c’era più bianco. Andò a letto cercando di serrare il pugno con la mano destra. Non ce la fece. Allora urlò: ”Perché mi ha fatto questo? Quell’uomo non è umano, è una bestia, poteva uccidermi, devo essere un pazzo”. Si guardò il viso e non si piacque. Si ricordò di Chuck Wepner, un avversario che gli aveva resistito quindici round, ma con la faccia così squarciata che si vedeva l’osso» (Emanuela Audisio, ”Repubblica 9/6/2001).
«Centosettantacinquemila, un’enormità. Qualcuno, in America, si è preso la briga di contarli: 175 mila è il numero dei pugni che avrebbe incassato in ventun anni di carriera sul ring. Non tutti pesanti, non tutti precisi, comunque tanti, forse troppi. Ed è per questo - sussurrano i dietrologi - che un giorno cominciò a sentire che le mani tremavano, che il passo si faceva pesante, che quel corpo da peso massimo abituato a danzare sulle punte dei piedi diventava sempre più lento e ingombrante. Oggi, affetto dal morbo di Parkinson, è un uomo che pensa veloce ma si muove come se fosse in un fotogramma passato alla moviola. E parla piano, soffiando frasi brevi, piene di fatica, volgendo lento il capo verso la moglie Lonnie, o verso la figlia Laila, quella che ha disobbedito al volere di papà per farsi pugile e, nonostante questo (o forse proprio per questo), è la più amata di tutte. Nel ranch del Michigan appartenuto a Capone o in giro per il mondo a propagandare l’Islam, la dolorosa diversità dell’esistenza di Muhammad Ali viene avvolta nella bambagia di consuetudini amiche. Ali non parla mai direttamente alle persone che lo vanno a trovare o alle quali deve rivolgersi: preferisce filtrare il suo pensiero attraverso la voce di Lonnie o dell’altro angelo custode Muhammad Siddeq, una specie di tutore religioso, ex professore di matematica amico anche di Mike Tyson. ”La mia è una malattia che non dà sofferenza - ha spiegato il campione - Semplicemente, condiziona il sistema nervoso, procura tremori e inibisce la parola. Per arginarla prendo due pillole per quattro volte al giorno. Non seguo una dieta particolare, non ho particolari paure, bevo molto the e mangio molto miele. Convivo con questo problema cercando di fare come ho sempre fatto: essere me stesso”. Non è stato il pugilato a ridurlo così, nemmeno se fosse vera la storia dei 175 mila pugni presi (e quanti ne avrebbe dati, allora?). ”Abolire la boxe non ha proprio senso - ama dire - A farmi ammalare non è stato il pugilato: sono forse ex pugili i due milioni di americani che hanno la mia stessa malattia?”. Povero, immenso e sfortunato Clay: costretto a vivere a mille all’ora sfidando l’età che avanza e i segni sempre più pesanti del male. Sessant’anni da leggenda. Sessant’anni che ancora oggi spende con la generosità che metteva sul ring. La fattoria del Michigan, a Berrien Springs, è il centro motore di tutte le attività della Goat (Greatest Of All Times), la società che gestisce la sua immagine: partono da lì le sottoscrizioni per l’infanzia abbandonata; lì vengono pianificati i blitz in tutta America, e anche oltre, per diffondere il verbo di Allah; nascono in queste sale, nell’ufficio dove sulla scrivania non manca mai una copia della Bibbia accanto a quella del Corano, i viaggi di rappresentanza quando un libro deve essere presentato o un film lanciato. L’ultima occasione, a fine 2001, è stato per Ali, la storia di dieci anni della sua vita (dal 1964 al 1974) interpretata da un bravissimo e convincente Will Smith. C’era Lonnie, come sempre, a fare da amplificatore ai suoi pensieri guizzanti, grandiosamente bizzarri e ferocemente autoironici: ”Sì, sono sempre il più grande. Nel raccontare barzellette”. Negli ultimi tempi, preferisce questa: ”In un’auto ci sono un negro, un messicano e un portoricano. Chi guida? Un poliziotto”. Lonnie, che lui chiama affettuosamente ”The boss”, asseconda gli estri del marito. Lui si comporta a volte come un bambino. I medici gli proibiscono i dolci? Lui ruba le caramelle dalla dispensa. Lonnie, paziente: ”Ali, non puoi”. E lui: ”Boss, ucciderò te e i medici”. Anche sul ring, in fondo, ha giocato per più di vent’anni. Come quando provocava gli avversari, li insultava, li irretiva. O componeva deliri onirici come quello che inviò a Foreman, poco prima del match di Kinshasa: ”Ho fatto a botte con un coccodrillo, ho lottato con una balena, ho ammanettato i lampi, sbattuto in galera i tuoni. L’altra settimana ho ammazzato una roccia, ferito una pietra, spedito all’ospedale un mattone. Io mando in tilt la medicina”. sempre stato un fantastico e furbo promoter di se stesso ma anche un grande veicolo pubblicitario utilizzato per ogni tipo di messaggio: Atlanta ’96 per l’accensione del tripode olimpico; ottobre ”99 per l’esordio della figlia al pugilato; settembre 2001 per la grande manifestazione anti-terrorismo dopo la strage delle Torri gemelle in cui dovette recitare la parte del musulmano buono. Ali si chiamava Cassius quando si convertì all’Islam scatenandosi contro l’ira dell’ establishment bianco del pugilato di allora: non ha mai rinnegato la scelta e ancora oggi la sua giornata è scandita dai ritmi e dai costumi di questa religione. Prega cinque volte al giorno, non beve alcol e non mangia carne di maiale. ”Sto talmente bene - disse - che ho deciso di tornare in palestra per fare il mio rientro sul ring a 60 anni”» (Claudio Colombo, ”Corriere della Sera” 15/1/2002). «C’è una quantità di melassa vecchio stile (leggi: saggezza) che inquina di questi tempi il cervello delle masse. Nonostante ciò, sarebbe davvero impresa ardua trovare qualcosa di analogo alla totemizzazione di Muhammad Ali, il cui più recente fenomeno è il nuovo film Ali. Da quando si è ritirato, il nome di Muhammad Ali è universalmente sacro, un monumento intoccabile al quale avvicinarsi con prosa osannante. Sul suo conto sono stati versati fiumi di inchiostro illeggibile. C’era da divertirsi quando era in piena attività e si proclamava imperatore del pianeta, come Napoleone, che si credeva non un uomo ma un avvenimento. D’accordo: i tempi richiedevano un po’ di ilarità. Fino al giorno in cui una parte di lui (e tutti gli altri) ha cominciato a crederci, imponendosi sull’altra parte, quella che si considerava non più significativa di una farfalla. Dopo tutto, avevamo di fronte un uomo che scrutava il cielo notturno in cerca della madre di tutti i bombardieri che avrebbe sferrato un attacco nucleare su tutti i bianchi e sui neri che avevano scelto unioni interetniche. Per Malcolm X era un ragazzo di campagna, ingenuo e impressionabile. Non è mai cambiato molto. Lo sapeva anche Elijah Muhammad, leader dei Musulmani Neri, che un giorno, istruendo il figlio Herbert, futuro manager di Ali, gli disse: ”Stagli sempre a fianco. Darà sempre retta all’ultima persona che attira la sua attenzione”. Quando pronunciò la famosa frase sui Vietcong (’Non ho nulla contro i Vietcong”), trasformata dalla setta nella dichiarazione di un obiettore di coscienza, Muhammad Alì divenne un antieroe all’istante. Per molto tempo è stato immortalato accanto al caos ormonale del giovane Holden, al fascino anarchico di Marlon Brando ne Il selvaggio e al sorriso perenne di James Dean. A dargli qualcosa in più in quel sognante psicodramma era il suo gergo musulmano fondamentalista da assedio alla città, preso pari pari dal ventriloquo Elijah Muhammad. Era considerato pericoloso, anche se in fondo in fondo non avrebbe torto un capello a nessuno. Ali semplicemente non aveva una sola idea in testa, e dopo un po’ avreste preferito una melodia triste suonata da un liuto rotto. Il ragionamento è: che cosa ti aspetti da un atleta! Niente, soltanto prestazioni; e proprio qui sta il problema dell’odierna leggenda di Muhammad Ali. Abusando ancora una volta delle parole di Gertrude Stein: ”Non era e non è quello che vedevo”. Libri e documentari hanno ostinatamente trasformato l’uomo in un Avatar, un paladino di qualsiasi diritto umano si conosca sulla faccia della terra. Non è facile tenere il passo con i meriti attribuiti a Muhammad Ali. Da dove escono? In realtà ci sono sempre stati, più o meno sotto mentite spoglie, di solito quelle del più cerebrale dei nostri antropoidi. Molto tempo fa Elridge Cleaver, un leader, un tipo molto focoso che avrebbe finito col diventare conservatore, lo definì il primo ”campione nero libero”. E Jack Johnson? E Sugar Ray Robinson? L’inchino non faceva parte del loro linguaggio corporeo. Muhammad Ali ”negava la superiorità bianca”. Sembra che anche il nobile e sfortunato Joe Louis (Ali non ha mai perso occasione per rimproverarlo) lo facesse in modo efficace. soltanto che Joe non usava il megafono. Un altro dei meriti di Muhammad Ali era quello di far contenta la gente. Ma lo facevano anche il senatore democratico Huey Long, Lassie e Topolino. Nel 1971 uno scrittore, lo scomparso Kenneth Tynan, vede in televisione Muhammad Ali battuto da Joe Frazier, e va giù duro. Frazier è ”l’uomo con l’ascia del presidente Nixon”, e ”il fiuto, l’audacia” di Muhammad Ali vengono annullati da ”una tenacia ostinata, inflessibile, rigida come un elmetto da minatore. Forse ricorderemo gli anni Sessanta come il canto del cigno dell’immaginazione occidentale, degli ultimi aristocratici del gusto occidentale”. Un’osservazione del genere non va presa alla leggera: dice in parte o in tutto ciò che di Muhammad Ali pensa la massa, il perché è diventato un pupazzo per adulti, un’action figure per hippy smarriti e per baby-boomer nostalgici integrati. Ora hanno un nuovo film d’evasione: Ali, diretto da Michael Mann. ”Ha cambiato il mondo”, proclama il comunicato stampa. E come? Muhammad Ali non era a favore dei diritti umani: i musulmani erano per la separazione fra neri e bianchi. Non era a favore dei diritti delle donne: il loro posto era in cucina o a letto. Non era contro la leva o a favore della controcultura. Muhammad Ali era per Muhammad Ali - e per i musulmani che l’hanno terribilmente usato - il più grande lottatore mai vissuto. Perché ricordarlo nella stessa frase addirittura come un Martin Luther King jr? I suoi magnifici combattimenti sono al di là di ogni possibile critica. Perché non dovrebbero bastare?» (Mark Kramm, ”Corriere della Sera” 15/1/2002). «Non importa se è conciato male. Se è gonfio, rintontito, malato. Se tutti davanti a lui fanno finta di ridere, ammazzati dalla felicità, per poi voltarsi e piangere per le carognate che fa la vita. Ma Ali a sessant’anni ancora è. Esiste per lui, per gli altri, per il mondo. riconosciuto, rispettato, amato. il nonno dalla carezza lenta e insicura, ma pieno di autorità. Anche così, con il Parkinson che se lo mangia. Gli altri miti sono morti o scomparsi in un tempo che non è più loro, affogati nell’affanno di dover essere di moda. Lui è lì, sempre in cima alla lista dei desideri, un ospite molto conteso, da Hollywood alla Casa Bianca. Senza fare nulla di diverso, senza essere nulla di diverso. Deambula poco e male, non parla, ma gorgoglia in maniera incomprensibile, eppure tutti lo vogliono vedere e toccare. il Papa del ring, è il Santo dello sport. Lui che è stato il fuorilegge dell’America, il ribelle più pericoloso, il soldato che non volle andare ad uccidere i vietcong. […] E tutti a chiedersi: ma cosa ci trova ancora l’America in questo padre nero, in questo musulmano così fuori dal mondo, ma così dentro ai cuori? E c’è anche chi protesta: si è ridotto a fare il buffone di quella società che voleva spaventare, tanto non si regge in piedi, tanto i suoi colpi sono nostalgici buffetti tremolanti ad un paese ormai alle prese con un altro tipo di violenza. Tanto anche se Ali spara, il proiettile non fa male, un po’ come quelli del circo. Non è rivendicando l’integrità morale, la lotta all’ignoranza, la comprensione delle religioni che si distrugge lo spirito di una nazione. Ah sì, c’è stato un tempo in cui quelle parole erano eversive, c’erano le marce per i diritti civili, c’erano le chiese nere che bruciavano piene di bambini, c’erano i seguaci del KKKlan che presero a fucilate la casa di Ali, troppo rivoluzionario, troppo amico di Malcom X, con cui pregava nello spogliatoio. Quell’Ali rappresentava il cambiamento, la dignità di essere neri, finalmente liberi, finalmente orgogliosi, con la voglia di non cedere più il posto ai bianchi sui bus, ma di contare. Martin Luter King andava a Stoccolma a ricevere il Nobel della pace. Black is the colour, cantava Nina Simone. Unghiate laceranti per la pelle dei bianchi. Ali era il demonio, il nemico da sistemare, ”non più la scimmia che balla per voi”. Ali non era più Clay. ”Quel nome non mi appartiene. Se vi chiamate George Washington domandatevi se quel nome vi corrisponde”. Non solo uno che parlava di politica, ma un tipo svelto, divertente, brillante. Il primo rapper della storia, un bel ragazzo che ci teneva all’aspetto, uno che veniva dalla periferia, ma non dal ghetto. Un nero che non voleva stare al suo posto. Scherzava con i Beatles, dette un pugno per finta al povero George Harrison, si mobilitava con Bob Dylan, cantava con James Brown, discuteva al telefono con il filosofo Bertrand Russell per concludere ”però, lei è meno tonto di quello che sembra”. Un fenomeno, sul ring e fuori. Un sorriso strepitoso, una linguaccia, senza complessi davanti ai giornalisti: ”Se non scrivi bene di me, chiamerò tua moglie e le dirò con chi vai a letto in trasferta”. Uno anche insopportabile, ma come in Italia con Coppi non diventavi in America giornalista o scrittore importante se non ti occupavi di Ali. Alex Haley, Norman Mailer, Richard Wright e tanti altri. Ma chi rappresenta Ali oggi, a sessant’anni? Quale società, quali sportivi? E perché l’America resta così aggrappata a lui, tanto da non trovare nessun altro che accendesse la fiaccola ai Giochi di Atlanta nel 1996? O è solo un nonno da tirare fuori nelle festività, per fare bella figura nel mondo senza rischiare niente? Ali è il passato che non c’è più, ma è anche la sconfitta del presente, è questo oggi senza campioni morali, senza eroi che sappiano uscire dal loro campo e attraversare l’oceano per finire nella capanna africana, nella risaia asiatica, nei deserti arabi. Non c’è campione che negli ultimi vent’anni abbia devoluto ad una causa 55 milioni di euro, 110 miliardi di lire, non c’è sportivo (tranne forse un po’ Maradona) che si sia preso poveracci, drogati, carcerati sulle spalle e abbia anche combattuto a loro nome, non c’è personalità famosa che a 25 anni per una questione di principio abbia rovinato la sua carriera, senza farsi spaventare dalla detenzione, non c’è uomo che in nome di Allah o di un’altra religione si sia messo tutti contro sul ring o in un altro sport. Ali non ha avuto paura di mischiarsi, di schierarsi, di compromettersi. Non è stato un santo: è stato picchiato dalla moglie perché la tradiva, si è separato perché la nuova moglie non accettava i vestiti castigati dell’Islam, ha combattuto incontri che poteva evitare, ha boxato troppo e quando non doveva, ha scelto di rompere con Malcom X e di isolarlo (è il suo grande cruccio), ha dato il voto ad un governatore corrotto per fare un favore a Don King, allora suo manager. Insomma, ha peccato e sbagliato. Ma non ha mai fatto un silenzio stampa, ha sempre perso tempo con tutti, forse perché non pensava che fosse tempo perso. Trovatene un altro così, oggi. Shaquille O’Neal che molla cazzotti come una bestia inferocita, sul parquet e non sul ring? Tiger Woods che gioca a golf e che prima di fare battute deve sentire il suo ufficio-stampa? Michael Jordan che insiste nel dire che sono fatti suoi, anche i suoi continui ritorni, e con cui la moglie, tradita negli ultimi quattro anni, ha continuato a convivere pur di accumulare prove e la richiesta di 400 milioni di euro, 800 miliardi di lire? Le sorelle tenniste Williams, che danno delle razziste a tutte le altre, ma non sanno nemmeno citare un posto visitato tra le città del mondo? Michael Johnson, che ritiratosi dall’atletica fa il portavoce dello sponsor e ordina di non fare domande sul doping? Quelli che nel calcio, nella pallavolo, nel basket, nel nuoto, non ti dicono per chi votano perché non si sa mai? Quelli che fuggono al primo possibile coinvolgimento? Quelli che come Tyson diventano iene depresse che non riescono a prendere la terza media? Quelli che accettano che nei ghetti malridotti e squartati dalla droga si faccia pubblicità alle loro scarpe che costano più del salario di una madre che si rompe la schiena? Ali è stato in Iran per favorire la liberazione degli ostaggi, è stato in Iraq da Saddam Hussein per vedere se poteva fare qualcosa per i bambini leucemici, ha parlato subito dopo l’attacco alle torri gemelle. Poteva trovare una, mille scuse, per non farlo, per tirarsi indietro. Gli sarà costato, ma non lo ha fatto. Ecco, Ali a sessant’anni c’è. Magari le candeline non le spegne, ma la vita ogni giorno è capace di accenderla» (Emanuela Audisio, ”la Repubblica” 15/1/2002).