Avvenire, 29 ottobre 2014
Parla Ancelotti
L’importante non è solo vincere, ma far partecipare. Così, modificando un poco il celebre motto olimpico, Carlo Ancelotti potrebbe spiegare il perché del moto perpetuo del suo successo, di una panchina dove c’è quasi sempre il sole, dove le nuvole passano e vanno senza produrre danni. Anche la Fifa si è finalmente accorta del Signor Carletto, inserito nella lista dei 10 candidati al cosiddetto “Pallone d’Oro degli allenatori”, che comprende anche Antonio Conte: e tutto lascia pensare che Ancelotti lo vincerà, questo premio, specie dopo avere fornito un magnifico esempio delle sue capacità di manifattura calcistica.
Sabato la Madrid “Realista” è andata in overdose di gioia e di applausi, il nemico Barcellona è scappato, è vinto, è battuto – canterebbe Francesco De Gregori, e il Generale era Ance-lotti, più simile a un distinto papà attaccato alla rete del campetto, lì dentro i suoi figlioli: Isco che esce dopo un partitone e viene baciato, Modric che al fischio finale gli salta in groppa felice come un bambino, appunto. E questo è il Real, l’impero del professionismo calcistico, il club galattico, extraterrestre, apparentemente senza cuore.
Non sono scene nuove, persino i duri come Zlatan Ibrahimovic finiscono per parare sempre lì, parlando di Carlo (per loro è sempre Carlo, mai Ancelotti), «un padre prima che un allenatore», «nessuno come Carlo sa come trattare coi calciatori, come coinvolgerli, come amarli e farsi amare». Famiglie Bradford del pallone che si creano in case molto ricche e altrettanto afflitte – spesso – da spogliatoi spazzati da correnti d’aria prodotte da bocche spalancate, da porte che sbattono, di stanze dei bottoni occupate da gente assai potente e impaziente, o magari solo incompetente.
In tutto questo, al Milan e al Chelsea, al Paris degli sceicchi e alla Casa Real, sono piovute vittorie pesantissime: Ancelotti, fino a prova contraria, è l’uomo che fa dei rossoneri il club più titolato a livello internazionale, che regala il double campionato-Coppa d’Inghilterra ad Abramovich, riuscendo là dove aveva fallito persino Mourinho. Che dà agli sceicchi il titolo francese buono per continuare a credere nel progetto mega milionario del Psg e che, dulcis in fundo, toglie la sospiratissima “Decima” Coppa dei Campioni dal ballottaggio sognoossessione madrilista e semplicemente, ancelottianamente, la fa diventare realtà.
Qualcuno non manca di sottolineare che coi soldi di Berlusconi (ai tempi), degli oligarchi russi o delle banche spagnole che riforniscono abbondantemente il club Merengue, chiunque sarebbe capace di raccogliere oro in giro per il mondo. Dimenticando tuttavia che soldo significa anche pressione, obbligo, dimenticando soprattutto che Carlo ci ha messo molto del suo, e come tecnico, non solo come buon pastore di gruppi a nove zeri. Basta pensare alla prima e alla più recente puntata del suo straordinario ciclo di vittorie. Prima, quel Pirlo inventato là davanti alla difesa, la leva del Milan per sollevare il mondo, la creazione di un modello di giocatore ancora inimitabile. E ora, questo Real che ha abolito i piedi poco educati, modellato chiedendo a tutti, nessuno escluso – leggi alla voce Ronaldo -, il sacrificio e la partecipazione.
A inizio stagione, Ancelotti aveva (giustamente) alzato il sopracciglio di fronte alla scelta di Florentino Perez: via il meraviglioso universale Di Maria, eroe della scalata Champions, dentro la vedette del mondiale James Rodriguez, incognita nel calcio di club agli altissimi livelli. Una rosa preziosa quanto squilibrata, un inizio di stagione in cui la mossa è stata pagata a caro prezzo, con i ko nella Supercoppa nazionale e in avvio di campionato. Ma mastro Carlo, in due brevissimi mesi, ha tappato le falle, ridisegnato il team e varato una corazzata in cui Modric è un altro Pirlo, in cui l’ex trequartista Kroos è il mediano di copertura, dove Rodriguez si è già trasformato da svolazzante e istintivo attaccante in centrocampista offensivo di lotta e di governo, spesso magnifico, del pallone.
Il Real è tornato Real, ha abbassato le ali al Barça di Luis Enrique, sta schiacciando malcapitate assortite in Europa, ultima il Liverpool, nel tempio di Anfield Road. Gioca anche meglio della scorsa edizione, a tratti incanta. All’orizzonte bianco, il raggiungibilissimo obiettivo del titolo mondiale a dicembre, e quindi il bis europeo, l’Undicesima, o la Undecima, come la chiamano alla Puerta del Sol e dintorni. Due trionfi che consentirebbero ad Ancelotti di trasformare il suo club, per la seconda volta, in quello più ricco di trofei internazionali al mondo. E se stesso, forse, nel più grande tecnico italiano di tutti i tempi: per tanti suoi adepti lo è già, e non da oggi.
Coppe e scudetti ovunque, umanità, carezze e urla quando ci vogliono, ironia e autoironia, tattica, tecnica, esperienza, durata nel tempo, gioco spettacolare non appena si può, schiena dritta, gestione degli altri e propria autogestione nel pubblico e nel privato: nella torta multistrato di Don Carlo, ingredienti che i suoi grandi predecessori – da Sacchi a Capello, da Bearzot al Trap e a Lippi – hanno avuto nella loro completezza. Lui, sicuramente, non ci pensa, non è tipo: la grandezza si misura a vittorie sul campo, e a giocatori miliardari che ti saltano in groppa alla fine della partita, e che si ricorderanno di ’Carlo’.