la Repubblica, 24 dicembre 2014
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Viaggio a Cuba, nei bar dell’Avana aspettando i gringos. L’isola si interroga sul suo futuro. Gli Usa aboliranno l’embargo? Arriveranno gli investimenti in dollari? Raúl Castro insiste: «Nessuno può toccare la nostra indipendenza». Ma il potere delle forze armate è oggi l’unica certezza
Bevo un mojito alla Bodeguita del Medio. Per uno straniero di passaggio equivale a una comunione laica. Quella sacra la si riceve nella vicina Cattedrale. Siamo in tanti a celebrare il rito, ormai un’abitudine, quasi un obbligo. C’è una ressa natalizia di europei pallidi, slavati, chiassosi, accorsi ai tropici, dove si spegne la rivoluzione, ma non il sole. Qualche accento nordamericano emerge dal vocio poliglotta. È reale o frutto della mia immaginazione? Penso che tra qualche settimana o mese sarà dominante.
Alla Bodeguita del Medio non ci si rilassa, si partecipa a un’euforia rumorosa, senza niente di mistico. È scomoda come i santuari del turismo. Ci sono venuti a bere il “mojito” o il “daiquiri” celebri personaggi della poesia e della politica, e ubbidienti pellegrini delle abitudini, come Neruda e Allende. E naturalmente Hemingway, per lunghi periodi di casa. Lui trovava migliore il daiquiri accanto, quello del Floridita. Alla Bodeguita del Medio aspettano l’assalto dei turisti gringos. Sarà l’arrivo della cavalleria.
Mezzo secolo fa, spose o amanti mature avevano il visone sotto il braccio da indossare nei night club gelidi come frigoriferi. Adesso si sono emancipate, avranno i blue jeans, più adeguati al tempo tropicale. L’importante è che potranno usare le carte di credito, perché oltre alle ambasciate, abolito l’embargo (se il Congresso lo consentirà), dovrebbero aprire le porte anche le banche di New York e di Chicago. Verranno gli investimenti in dollari? Vado troppo in fretta. Il futuro immediato si profila più contorto, incerto, ambiguo. L’immaginazione va per conto suo, non è però detto nella direzione del tutto sbagliata.
Se le memorie dirette del tempo prima di Castro sono ormai rare, non sono pochi i figli o i nipoti, stanchi o indifferenti alla rivoluzione, che sognano il ritorno a quel passato. Ne ho vissuto di persona gli ultimi momenti. Castro era già al potere, ma il comunismo non era ancora in vigore. E quindi funzionavano, ormai agonizzanti, i casinò, al Capri, al Rivera, al National, fondati da Lucky Luciano, Meyer Lansky, Frank Costello o George Raft, mafiosi o amici dei mafiosi. I croupier avevano al collo foulards rossi, segno che erano adesso impiegati della rivoluzione. Al telefono degli alberghi le centraliniste ti svegliavano esclamando «patria o muerte». Rispondevo «per favore, non esageri!» e loro ridevano. La mia amica Saharita, segretaria di Raúl Castro, allora ministro della Difesa, mi portava a inaugurare l’apertura della sua spiaggia riservata fino allora ai bianchi ricchi e alternava le lacrime ai sorrisi. Piangeva per la sua spiaggia violata dai neri, ed era felice per la fine della segregazione balneare. Aveva due anime, non era la sola: una rivoluzionaria e una borghese. Prevalse infine la seconda e fuggì negli Stati Uniti, nonostante fosse la cognata di Raúl Roa, il ministro degli Esteri. Le famiglie cominciavano a frantumarsi.
Non si parla d’altro. Non si pensa ad altro. E anche se non fosse proprio cosi, sei tu a fantasticare che sulle labbra o nelle menti l’argomento dominante non possa essere che la pace con gli Stati Uniti. Dopo mezzo secolo di rottura sembra logico.
Gli scenari sono tanti. Sulla terrazza del National, affacciato sul Malecon, il lungo mare, un conoscente cubano mi assicura che tornerà Bacardi, quello del white rum, che ha la sua base a Hamilton nelle Bermuda. Bacardi è il “vecchio tempo”, il nome fa sognare i figli dei ricchi controrivoluzionari fuggiti a Miami o nei dintorni. Bacardi era uno dei simboli della vecchia Cuba. I castristi non lo bevevano.
Il mio interlocutore mi annuncia che stanno per essere sfrattate le compagnie petrolifere sul posto per far largo a quelle nordamericane, che promuoveranno le ricerche in mare. Durante i negoziati precedenti la pace diplomatica è stata insomma progettata la nuova Cuba, post rivoluzionaria. Non credo a tutto quel che mi viene detto. Faccio la tara. Tutto è ancora nebbioso. Più che sapere la gente immagina. Sogna. Si illude. Ci sono anche coloro, in verità pochi, che hanno paura della competizione, e della necessità di darsi più da fare, di lavorare di più. La superpotenza metterà sul tavolo le sue esigenze di superdemocrazia. Predicherà il rispetto di principi elementari in un Paese in cui non esiste libertà d’opinione e non mancano i prigionieri politici. Gli scontri non mancheranno.
Per loro natura gli Stati Uniti hanno due morali. Quella dei principi e quella degli interessi. Con Cuba hanno sempre adottato le due in alternativa. Quando alla fine dell’Ottocento, era il 1898, nel nome della dottrina Monroe, liberarono l’isola dal colonialismo spagnolo, agirono secondo la buona coscienza, ma pochi anni dopo, nel 1901, con l’emendamento Platt, decretarono il loro dominio sui cubani. Ancora, in nome della libertà, negli anni Settanta, contribuirono alla fine di Salvador Allende in Cile e finanziarono il dittatore che gli succedette. L’entusiasmo per la pace con gli Stati Uniti prevale, e si conta sulla fine (si spera imminente) delle sanzioni, ma alcuni pensano che nei nord americani la morale degli interessi col tempo scatterà ancora. I pesanti guai presenti provocati dalla rivoluzione fallita fanno comunque trascurare quelli futuri.
Raúl Castro lo ripete. Nessuno può toccare l’indipendenza di Cuba. La quale resterà socialista. E il socialismo sarà la sua difesa. Ma si tratta di un socialismo sull’orlo della bancarotta. È uno scudo bucato. Raúl si sta rivelando tuttavia un personaggio ben diverso da quello che è apparso a lungo. Non è el burro ( l’asinello) rispetto al el caballo ( il cavallo) Fidel. Mingherlo, bruttaccio, senza carisma, non sollevava entusiasmo. Anche perché rappresentava l’esercito e con l’esercito la polizia politica.
Oggi le forze armate (con i sui 50, 60 mila uomini) sono la principale e forse unica spina dorsale che tiene in piedi il regime. E sono la sola istituzione capace di accompagnare la trasformazione, già in corso da quando Raúl è al potere, “di tipo cinese”. Basata sul principio che le regole cambiano ma il potere resta lo stesso, con gli identici riti. Il vecchio Esercito ribelle, nato dal movimento del 26 luglio che cacciò dall’Avana Fulgencio Batista il primo gennaio del 1959, dispone di una industria di armamenti giudicata la migliore del paese. Nella prima sfilata dopo dieci anni, il 2 dicembre 2006, gli esperti militari stranieri si stupirono di come i reparti fossero dotati di mezzi aggiornati rispetto a quelli ricevuti dall’Unione Sovietica negli anni passati.
Le Forze Armate rivoluzionarie sono reduci da numerosi conflitti in Angola, in Eritrea, in Etiopia, a Granada ed anche dalla guerra del Kippur, nel 1983. Millecinquecento uomini a fianco degli arabi contro Israele. Ma la loro peculiarità è la massiccia partecipazione alla vita economica dell’isola, avvenuta per volontà del loro ministro per quasi mezzo secolo, Raúl Castro. Attraverso la società Gaviota i militari controllano gran parte del turismo (alberghi e stazioni balneari) e quindi raccolgono le divise straniere lasciate ogni anno da tre milioni di visitatori. Dei militari dirigono industrie di pesca, società di trasporti e aziende che raccolgono e raffinano lo zucchero. Ma soprattutto i generali sono presenti in tutte le massime istituzioni governative e legislative. Uno di loro, fedelissimo a Raúl Castro, in quanto ministro degli Interni controlla la polizia politica. Altri figurano nell’ufficio politico del partito. Nonostante qualche scandalo individuale, le Forze armate non hanno mai avuto seri dissidi con il Pc. Le due forze si intrecciano. Ed entrambe partecipano alle decisioni economiche e politiche. Quando Raúl Castro annuncia la svolta americana, ha dietro di sé l’esercito, che lui stesso ha formato. Esercito che, oltre ai suoi normali effettivi, amministra la Difesa popolare, composta da sessantamila brigate di protezione che possono mobilitare in teoria tre milioni e mezzo di persone (su 11, 2 milioni di abitanti). L’organizzazione delle forze armate cubane assomiglia a quella di altri paesi emergenti. In particolare per la loro presenza nella vita economica. Ma in questo loro dinamismo, unico nella quasi generale crisi delle altre istituzioni rivoluzionarie, c’è chi vede lo slittamento del regime. Il quale avendo come principale supporto i militari finirà con l’assumerne l’impronta, al momento della successione. Anche se tra i giovani senza divisa del partito esistono personaggi di forte ambizione. Per ora gli Stati Uniti avranno a che fare con un paese in cui l’esercito è il guardiano di quel che resta della rivoluzione. E quindi sarà il loro interlocutore. Raúl, sua massima espressione. in prima fila.