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 2014  dicembre 23 Martedì calendario

«Riporteremo Ismail a casa in Italia. Sappiamo dov’è». Gli investigatori rintracciano in Siria il bimbo di tre anni rapito dal papà jihadista. La mamma lo ha riconosciuto in una foto con un miliziano dell’Isis. Ma i carabinieri dei Ros di Padova, che da un anno indagano sulla vicenda, nutrono dubbi

Due foto postate online nei siti frequentati dai fiancheggiatori dell’Isis. Lidia Solano Herrera ne è certa: è suo figlio Ismail. Ma i carabinieri dei Ros di Padova, che da un anno indagano sulla vicenda, nutrono dubbi.
I dubbi sulle due immagini
«Nella prima immagine segnalata, quella sulla moto, il bambino è probabilmente Ismail – spiega il comandante Paolo Storoni -. È una foto di chiara connotazione propagandistica, su cui stiamo facendo degli accertamenti. Quello che oggi sappiamo con certezza è che il soggetto con la barba a bordo della moto, è Said Colic, un veterano della guerriglia, entrato in contatto con i nostri indagati». Quanto alla seconda foto (quella in cui Ismail indosserebbe pantaloni militari, felpa nera con cappuccio, bandana con scritte in arabo e un mitra giocattolo), «siamo molto perplessi perché pare sia stata pubblicata in Internet nel 2013» precisa Storoni.
«Un ambiente radicale»
«Per noi non è lui», dice. Tuttavia, «sulle fotografie non stiamo perdendo tempo e nell’economia della situazione questi scatti diventano ininfluenti, perché abbiamo localizzato a grandi linee il bambino e individuato l’area dove si trova» conferma il capo dei Ros. «Non è in un campo d’addestramento ma solo perché per la tenera età non è addestrabile – aggiunge – tuttavia vive in un ambiente pervaso di elementi islamici estremi, fortemente radicalizzato ed è sicuramente condizionato dal punto di vista psicologico».
Al fronte da un anno
Ismail Davud Mesinovic, nato a Belluno il 4 settembre del 2011, oggi di appena 3 anni e pochi mesi, è dunque in Siria tra i militanti dell’Isis. Lì lo ha portato lo scorso dicembre il papà Ismar per arruolarsi e combattere la guerra santa, salvo morire il 4 gennaio ad Aleppo. La mamma cubana, Lidia Solano Herrera, rimasta a Ponte nelle Alpi (Belluno) dove i due risiedevano e lavoravano, ne ha denunciato la scomparsa a gennaio dopo la pubblicazione della foto del marito divenuto martire.
Il messaggio su Facebook
«Il bambino è rimasto nelle mani dell’Isis che ora si rifiuta di restituirlo, sostenendo che Ismail debba crescere tra i suoi combattenti – si legge sulla pagina Facebook creata dalla comunità “Riportiamo a casa Ismail” -. Lidia è sola, nessuno la sta aiutando e la Farnesina ha scelto di non intervenire perché il bambino di fatto non è cittadino italiano» si legge nella bacheca. Ma non è così. Fonti qualificate confermano che è in corso una trattativa per ragioni umanitarie. «Consegneremo a breve la relazione finale del nostro lavoro di investigazione alla Procura della Repubblica di Venezia – spiega Storoni – dopodiché le trattative esulano dalla nostra attività giudiziaria».
Dopo la morte del padre
I Ros confermano, tuttavia, il «precetto religioso» o «regola» della jihad, secondo cui se un combattente affida un figlio e muore, chi ce l’ha in consegna deve prendersi cura di lui e non restituirlo a nessuno. Ma i Ros oggi sottolineano anche un’altra questione. Quella mattina sul furgoncino con Ismar e Ismail salì anche Munifer Karamaleski (26 anni) che viveva a Chies D’Alpago e frequentava il centro islamico Assalam a Ponte nelle Alpi. Con lui anche la moglie macedone e i loro tre bambini. «Li abbiamo localizzati e potrebbero essere ancora in contatto con Ismail» spiega Storoni. Ci sono dunque altri tre bimbi nelle stesse condizioni di Ismail. Ma oggi, purtroppo, fanno meno cronaca perché nessuno ne ha denunciato la scomparsa, essendo partita per la Siria l’intera famiglia che fino a qualche giorno prima risiedeva in una trifamiliare ai piedi del Vajont. Come Ismar, imbianchino a partita Iva, morto in battaglia da kamikaze. O forse, per mano di un cecchino.