il Fatto Quotidiano, 23 dicembre 2014
Nelle leggende degli archivi su Cuba si rimprovera a García Márquez lo strabismo politico. Quell’amicizia con Fidel Castro, quel rancore verso gli Usa. Coriandoli di una propaganda dura a morire
Oramai sappiamo degli incontri segreti che hanno aperto a Cuba le porte di Washington. Ombre del Vaticano; chissà quali stanze canadesi. La chiacchierata tra Obama e Raúl Castro non deve essere stata la prima. E non era la prima volta che la buona volontà dei mediatori affrontava il grottesco isolamento che ha mummificato all’Avana il socialismo reale e istigato le scomuniche degli intellettuali affascinati da chi non sopportava il colonialismo economico imposto all’America Latina. Nelle leggende degli archivi si rimprovera a García Márquez lo strabismo politico. Quell’amicizia con Castro, quel rancore verso gli Usa. Coriandoli di una propaganda dura a morire. Ogni scrittore latino ha inquadrato gli anni della giovinezza nella ribellione contro generali burattini di capitali lontane. Rabbie di Vargas Llosa, giovinezza nei deserti peruviani del nonno governatore: diventa liberista appena va nell’altra America. Da Carlos Fuentes cresciuto nelle bomboniere del padre ambasciatore a Parigi, all’ambasciatore liberale Plinio Apuleyo Mendoza, biografo di fiducia di Gabo, nessun intellettuale è sfuggito al fascino del laboratorio cubano. Ma se il decisionismo di Castro imbarazzava le diplomazie, la pazienza di Gabo osservava Fidel con la sorpresa dello scrittore che contempla il protagonista di un romanzo mai scritto. “Come essere a teatro. Nessuna fantasia può inventare un uomo così “, chiacchiere a Cartagenas de Las Indias negli intervalli della sua scuola di giornalismo. Della Cuba socialista non sopportava le burocrazie asfissianti di Mosca, né il caviale (“che sa di pesce marcio”) alla tavola di Fidel. La strana amicizia si rappresenta fino all’ultima apparizione nelle Tv del mondo: Fidel e García Márquez ascoltano Giovanni Paolo II nella piazza della Rivoluzione. Continuano a parlarsi nelle orecchie per commentarne le parole.
Una volta ho chiesto perché mai una riga di elogio a Fidel. Risata: “Non ne ha bisogno, fa tutto da solo “. García Márquez era cresciuto incantato da Faulkner, Steinbeck, Lee Master, poeti e scrittori che raccontavano l’America delle libertà. E quando Carlos Fuentes lo accompagna dal presidente Clinton che ha voglia d’incontrarlo perché innamorato di Cent’anni di solitudine, Gabo si offre da mediatore per un incontro con Castro. Clinton si alza e lo abbraccia. Ma succede qualcosa alla vigilia dell’appuntamento che poteva accorciare la storia. I servizi cubani informano di un piano segreto per abbattere l’aereo di Fidel. Gabo corre da Clinton, Clinton sveglia la Cia. Risposte non classificate, l’abbraccio salta. Nella biblioteca di Cartagena Gabo e il presidente Carter sorridono con ottimismo. Anche allora sembrava fatta, ma vince Reagan e le mani restano vuote.
Una volta gli chiedo che idea s’è fatto del comunismo cubano. Silenzio, e poi risponde con le parole di Jean Paul Sartre: “Sono comunisti che hanno ragione nella loro maniera di aver ragione, e sono colpevoli di aver torto nella loro maniera di aver ragione“. L’intelligenza degli scrittori non sopporta le assurdità politiche dei paesi nei quali sono immersi.
Qualche giorno prima dell’abbraccio cubano, David Grossman, Oz e Yeshoua, narratori che raccontano un paese in eterna guerra, aggiungono il loro nome alle firme di 800 intellettuali, lettera al Parlamento Ue: chiedono di riconoscere due paesi e due popoli, israeliani e palestinesi finalmente in pace. Non sopportano l’orrore di violenze e massacri. Benjamin Netanyahu e il segretario Usa John Kerry si incontrano a Roma; ricominciano cavilli e meline come nella Florida degli anticastristi. E il dubbio continua: la ragione o il tornaconto?