Il Messaggero, 23 dicembre 2014
Montesquieu, «il più moderato e fine dei philosophes» come ebbe a definirlo Voltaire, è passato alla storia come il teorico della “divisione dei poteri”. Il suo nome ritorna, nel dibattito politico e anche in quello culturale, ogni volta che si voglia denunciare un “conflitto di interessi”. È uscita in libreria da poco una nuova edizione dell’opera omnia
Non c’è dubbio: Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e Montesquieu (1689-1755), “il più moderato e fine dei philosophes” come ebbe a definirlo Voltaire, è passato alla storia come il teorico della “divisione dei poteri”.
Il suo nome ritorna, nel dibattito politico e anche in quello culturale, ogni volta che si voglia denunciare un “conflitto di interessi”, vero o presunto, cioè un’eccessiva concentrazione di potere in un’unica o in poche mani. Francamente, è un po’ riduttivo. Sia perché il suo pensiero sul punto è molto più complesso di quanto potrebbe sembrare; sia, soprattutto, perché la sua produzione intellettuale è piena di molte altre idee o intuizioni e delinea alla fine una teoria politica compiuta, seppur volutamente non sistematica.
Una visione d’insieme ci viene ora data dalla pubblicazione, nella collana dei Classici della filosofia di Bompiani con testo originale a fronte, di Tutte le opere (1721-1754), a cura di Domenico Felice (CCLI-2689 pagine, 65 euro). Si può ben dire, dopo aver compulsato questo volume grande come un dizionario, che Montesquieu sia l’autore che, con Hobbes e Rousseau, è alla base della nostra modernità. Anzi, dei tre, è forse il più attuale: laddove Hobbes è il teorico dell’assolutismo e Rousseau della democrazia diretta, solo egli può dirsi liberale fino fondo.
ARISTOCRATICO
Aristocratico di nascita, Montesquieu crede nella democrazia, ma è anche convinto che essa sia un meccanismo complesso, da maneggiare con molta cura (oltre che costanza e dedizione). Egli crede nella sovranità del popolo, ma ha una visione realistica (se non proprio pessimistica) dell’uomo: una concezione che nasce in lui dall’esame, sociologico ma anche antropologico, degli individui nelle diverse culture e anche nelle diverse fasi della storia (l’Esprit des lois, il capolavoro che Montesquieu pubblicò a Ginevra nel 1748, è anche una ponderosa raccolta di dati). Montesquieu sa che gli individui, lasciati a se stessi e soprattutto quando fanno massa, possono essere molto pericolosi: la massa omogenea e indistinta sollecita infatti quelle virtù conformistiche che possono poi facilmente sfociare in intolleranza.
Con un secolo di anticipo, egli illustra quel concetto che poi Tocqueville definirà “dispotismo della maggioranza”. Ma oltre a quello della massa, può poi sempre affacciarsi all’orizzonte, per Montesquieu, il dispotismo dei singoli, quello classico.
IL POTERE
Squisitamente liberale è, a tal proposito, il principio su cui egli insiste: per chi detiene il potere, dice, è impossibile non abusarne, se questo potere si presenta come smisurato o addirittura illimitato.
L’esperienza e la storia ci insegnano che l’essere umano, messo in condizione, tende ad aumentare sempre più la propria sfera di influenza. E finisce per essere causa di ogni tragedia, anche o a maggior ragione quando crede di agire a fin di bene. È perciò che ogni potere va limitato o controllato dagli altri poteri: “perché non si possa abusare del potere, bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere freni il potere”. E specifica significativamente che “non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo”.
Ecco, perciò, che il funzionamento della democrazia liberale ha bisogno, per Montesquieu, di una serie continua di mediazioni e bilanciamenti:. Una retorica come quella odierna della “disintermediazione” non lo avrebbe certamente trovato consenziente. Alla base della sua concezione c’è poi l’idea che gli individui siano facilmente vittima delle passioni e che la politica sia in qualche modo l’arte di tenerle a freno. Poiché il popolo “per natura sua agisce spinto dalla passione”, deve esprimerla necessariamente attraverso rappresentanti. E in più questi rappresentanti devono farsi classe dirigente o élite, assumere nei suoi confronti una funzione “educativa”: il popolo “deve essere illuminato dalle persone più importanti e tenuto in rispetto dalla gravità di alcune personalità”.
E ribadisce: “Come la maggior parte dei cittadini sono abbastanza sicuri di sé per eleggere, ma non per essere eletti, così il popolo ha sufficiente capacità per farsi render conto della gestione altrui, ma non per amministrare direttamente. Occorre che gli affari procedano, e con un moto che non sia né troppo lento, né troppo veloce.
CENTOMILA BRACCIA
Ma il popolo è sempre troppo, o troppo poco attivo. Talvolta con centomila braccia travolge ogni cosa, talaltra con centomila piedi non va più spedito di un insetto”. Molto probabilmente anche la retorica dell’efficienza e della velocità, in voga nella nostra politica attuale, non lo avrebbe convinto. A scanso di equivoci, va infine anche detto che certamente il concetto di pluralismo è il vero centro del pensiero di Montesquieu, ma il pluralismo a cui egli pensa è aperto e competitivo: non è affatto quello chiuso e corporativo che domina oggi qui da noi.