Corriere della Sera, 23 dicembre 2014
Il grande direttore d’orchestra Myung-Whun Chung si sente un po’ italiano. «Ho passato trent’anni della mia vita tra Italia e Francia, ho lavorato abbastanza in Germania. Ma non cerco più incarichi stabili»
L’italiano Myung-Whun Chung. «Ho passato trent’anni della mia vita tra Italia e Francia, ho lavorato abbastanza in Germania, e alla Staatsoper di Vienna, così bella per le imminenti celebrazioni dei 150 anni del Ring lungo il quale ci sono i suoi tesori più belli, sono solo alla mia seconda volta». Un evento il «suo» Rigoletto trasmesso nelle tv di 12 Paesi (su Sky Classica si replica il 24, 28 e 30). Uno dei titoli più frequentati all’Opera di Vienna, eppure una nuova produzione mancava da oltre trent’anni. Il protagonista Simon Keenlyside, vittima di un virus, dopo il secondo atto è stato sostituito dal triestino Paolo Rumetz, baritono della «casa» come membro della compagnia stabile; fischi alla regìa cupa e severa di Pierre Audi, molti applausi ai cantanti e al direttore: «Scelsi di vivere in Italia perché come musicista volevo vivere in Europa, nel Paese in cui hanno vissuto i compositori». Potevano andare bene anche Austria e Germania. «Sì, ma il secondo motivo è stato il cibo, che è la base della vita. Mia madre per fare studiare musica a me e alle mie sorelle aprì un ristorante coreano a Seattle. C’è più similarità tra voi e noi coreani, che tra voi e i tedeschi. Penso all’emotività, all’abitudine di cantare che ha tutto il popolo».
Chung è un direttore con una intensa spiritualità. «Ho avuto due fari: Messiaen, un santo per la sua purezza, e Giulini, una specie di sacerdote. Fui suo assistente a Los Angeles. Un giorno, avendo un dubbio sulla prima Sinfonia di Schumann, gli chiesi aiuto. Mi rispose che non la studiava da tanto, pensai che il discorso finisse lì. Qualche giorno dopo mi chiamò nel suo camerino. Aprì la partitura, la richiuse. E disse: Ci vuole tempo. Colsi due messaggi, dovevo cercare la soluzione dentro di me, e dovevo trovare il coraggio di farlo». Chung vive la musica in maniera ascetica, secondo una filosofia semplice: «Non accetterò più incarichi stabili, penserò solo a studiare e a dirigere, senza responsabilità lontane dal mio lavoro. Ho una carta di credito e le partiture, al resto pensa tutto mia moglie. Mi piace lavorare dove ho amici».
Con l’Italia ha intensificato i rapporti, progetti alla Scala per Don Carlo e Simon Boccanegra, alla Fenice, e concerti in marzo di nuovo a Milano e a Santa Cecilia, dove fu direttore stabile prima di Pappano. «Terminato un impegno stabile, normalmente non torno indietro, dopo un divorzio è difficile diventare amici, ma è vero che quando mi ritrovo a dirigere la mia ex orchestra romana sono felice. La verità è che amo l’Italia più degli italiani». I teatri lirici sono indebitati per 393 milioni. «Io farei tesoro degli errori del passato, mentre come modello produttivo adotterei quello di Venezia, a metà strada tra il sistema tedesco (a Vienna fanno 50 titoli e 10 balletti l’anno, una macchina gigantesca e infernale) e quello italiano».
Maestro, lei è di Seul, e si adopera per i diritti civili nell’altra Corea, quella del Nord, che evoca test nucleari, lager, parate militari, censure. Sarà più facile trovare pace tra Israele e Palestina che riunificare le due Coree? «Lì vedo poca speranza. In Corea c’è una famiglia al potere contro la volontà di pace di tutto il popolo. Si sono consumate tragedie immense, mia madre non poté più rivedere metà dei suoi parenti. La musica può aiutare il processo di pace se ci lasciano fare. Ho tenuto due concerti in Corea del Nord, mi hanno accolto come un presidente, mi hanno dato un intero palazzo con una piscina di 50 metri. Ma il popolo non ha da mangiare, il Paese è bloccato politicamente. E ha paura». La Sony ha bloccato il film che prende di mira il despota Kim Jong-un. «Hanno fatto bene, meglio non provocare in questo momento».