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 2014  dicembre 23 Martedì calendario

Michael Atiyah, vita di un matematico che non ebbe bisogno di fare le medie: «Passai direttamente alle scuole spueriori»

Sir Michael Atiyah è l’eminenza grigia dei matematici. Oltre ad aver ricevuto i massimi onori ai quali un matematico può ambire, dalla medaglia Fields per i giovani nel 1966 al premio Abel alla carriera nel 2004, ha presieduto la Royal Society inglese e il Trinity College di Cambridge, entrambi di newtoniana memoria, e dal 1992 è uno dei ventiquattro membri dell’Ordine al Merito, la massima onorificenza britannica.
Al valore scientifico ha anche unito un impegno politico che l’ha portato a presiedere per sette anni il Movimento Pugwash degli Scienziati per il Disarmo, fondato da Albert Einstein e Bertrand Russell nel 1955 e vincitore nel 1995 del premio Nobel per la pace. Con lui, al meeting di Heidelberg delle medaglie Fields abbiamo ripercorso alcune tappe della sua lunga e tumultuosa vita, e della matematica dello scorso secolo.
Quali sono le sue origini?
«Sono nato a Londra, ma solo perché mia madre andava in vacanza in Inghilterra ogni anno. In realtà sono cresciuto prima in Sudan, a Khartoum, e poi in Egitto, al Cairo e Alessandria, fino alla fine della guerra».
Ha studiato in scuole arabe?
«No, inglesi, com’era l’abitudine per i figli dei funzionari del Civil Service. Mio padre era libanese, e lavorava per il governo sudanese come intermediario con gli inglesi. All’epoca in teoria il Sudan era governato in condominio dall’Egitto e l’Inghilterra, ma l’Egitto era in pratica una colonia inglese».
Com’era studiare a Khartoum a quei tempi?
«La mia scuola aveva soltanto venticinque studenti, e c’era un’unica classe e un’unica insegnante. Era una scuola religiosa, della Chiesa d’Inghilterra. Si trattava delle elementari, ma invece di cinque rimasi sette anni».
Come mai?
«Perché le medie erano al Cairo, in una scuola dei padri comboniani del Sacro Cuore. Mi ci mandarono a dieci anni, ma si insegnava in arabo, che io non parlavo bene, e la cultura era troppo diversa da quella a cui ero abituato. Ci stavo talmente male, che dopo qualche giorno i miei genitori mi fecero tornare in Sudan, e la scuola elementare mi permise di rimanere un altro paio d’anni».
Ma poi dovette comunque andare alle medie!
«No, le saltai e andai direttamente alle superiori. Che dovevano essere ad Alessandria, ma erano state trasferite al Cairo per la guerra. Questa volta era una scuola inglese, con studenti internazionali che venivano da ogni dove: Egitto, Grecia, Italia. Ci stetti un paio d’anni, e dopo la battaglia di El Alamein andammo ad Alessandria, dove rimasi fino alla fine della guerra».
Si è diplomato in Egitto?
«Si, a sedici anni. Ero avanti di due anni, ma il livello della scuola che avevo frequentato non era sufficiente per farmi passare il test di ammissione a Cambridge, e per due anni ho studiato a Manchester, in quella che mio padre aveva identificato come la miglior scuola superiore per la matematica. Ce la insegnavano cinque ore al giorno. Fu lì che scoprii la mia strada».
E poi, finalmente, l’università!
«Macché. Ho dovuto fare il militare per due anni, ma per non perdere tempo seguivo corsi per corrispondenza di matematica avanzata. Il giorno che mi hanno congedato è stato il più felice della mia vita, e a vent’anni sono infine approdato al Trinity College di Cambridge, nel 1949».
Quindi, benché la sua famiglia fosse di origine libanese, il Libano non ha giocato nessun ruolo nella sua formazione.
«Molto piccolo, e solo per caso. Nel 1939, quando la guerra scoppiò, eravamo in vacanza in Inghilterra e ci rimanemmo fino all’aprile del 1940. Poi viaggiamo attraverso la Francia poco prima della sua caduta, prendemmo una nave del Lloyd Triestino per Beirut, e restammo per qualche mese. Lì frequentai una scuola francese, ma il loro sistema non mi piacque per nulla: ci facevano imparare molte cose a memoria, una cosa senza senso».
Quali altre lingue conosce, oltre a inglese, francese e arabo?
«I miei genitori parlavano italiano, perché mio padre aveva lavorato un po’ in Italia, prima di andare in Sudan: riuscivano a leggere Dante e non a caso mi chiamarono Michelangelo. Io lo conosco meno bene, ma abbastanza da aver letto nell’originale molti lavori sui Rendiconti del circolo matematico di Palermo e sul Nuovo Cimento : in particolare, quelli della scuola italiana di geometria di Federigo Enriques, Francesco Severi, Guido Castelnuovo, eccetera».
Lei condivide l’opinione di alcuni, che gli italiani avessero molte intuizioni e nessuna dimostrazione?
«È la scuola francese di André Weil, a pensarla così. In parte era vero: ad esempio, le loro dimostrazioni non erano rigorose, anche se alcune potevano essere rese tali, come poi fecero Oscar Zariski e altri. Ma questo non toglie che abbiano avuto molte idee brillanti e fatto molte scoperte. E poi, è stato proprio Weil a sviluppare la teoria che ha permesso di rendere solide le loro intuizioni».
La scuola italiana all’epoca era competitiva con quella francese. Come mai in seguito ci sono state una dozzina di medaglie Fields francesi, e una sola italiana?
«La scienza italiana, in generale, ha sofferto per il fascismo e la guerra, e molti cervelli se ne sono andati. E la matematica, in particolare, era dominata da Severi, che era un barone fascista: il mio professore e amico William Hodge mi ha detto che quando andò una volta a trovarlo e chiese di poter vedere “il professore”, lo corressero con “Sua Eccellenza!”. Severi era un bravo matematico, ma ebbe una pessima influenza sulla matematica italiana».
Lei l’ha conosciuto?
«Certo. A Roma, nel 1949, per le celebrazioni dei suoi settant’anni. E ad Amsterdam nel 1954, al Congresso Internazionale di Matematica, dove arrivò con una ragazza che presentava come sua nipote. Ma l’Italia ha avuto molti grandi matematici nella prima metà del Novecento, da Giuseppe Peano a Vito Volterra. Dopo la guerra subì un po’ la sorte della matematica tedesca, per motivi analoghi: anche la Germania ha avuto finora un’unica medaglia Fields».
Niente di simile in Francia, invece.
«No. Anche loro ebbero dei problemi, ma recuperarono meglio. Molti matematici morirono, ovviamente, ma non tanti quanti nella Prima Guerra Mondiale. Gli unici due di valore che sopravvissero furono Élie Cartan e Jacques Hadamard. Nella Seconda Guerra Mondiale i matematici francesi vennero invece impiegati in maniera più “razionale”, ad esempio nei centri di ricerca bellica. Alcuni addirittura furono lasciati in università: Henri Cartan, ad esempio, che poi ebbe come studenti due future medaglie Fields come Jean-Pierre Serre e René Thom. Tutto questo per dire che le condizioni storiche influiscono pesantemente sull’evoluzione della matematica, a volte in maniera imprevedibile».