Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 22 Lunedì calendario

Quei 700 criminali che moriranno in cella, qualsiasi cosa succeda: viaggio nel braccio di massima sicurezza, tra i condannati per reati «ostativi». Quasi tutti colpevoli di associazione mafiosa, si rifiutano di collaborare con la legge

Succede tutto in silenzio. Le guardie si avvicinano ai carcerati, non devono neanche sfiorarli. Gli uomini ombra sanno quello che c’è da fare. Bisogna solo indietreggiare lentamente. Quattro passi al contrario, tre gradini. È la linea di confine tra i liberi, che rimangono qui, e i morti vivi, che scompaiono dietro le sbarre senza l’orizzonte di un’altra occasione. Il permesso è terminato. Questi sei ergastolani potrebbero uscire da questo carcere solo da morti, a meno di non essere trasferiti. E allora sarà lo stesso, in un altro istituto. Usciranno non mai, ma nell’anno 9999, come è scritto, al modo di un film di fantascienza, sui documenti dei detenuti condannati all’eterno. Non sono solo ergastolani, sono ostativi: sono per la legge supercriminali, pluriassassini, non collaboranti. «Il carcere a vita esiste, siamo noi quelli che usciranno in una bara».
Sono quasi settecento in Italia, un numero anche questo che sembra una cifra di altri mondi. Nessun beneficio di pena, esclusione dalle attività degli altri detenuti. Almeno dieci anni di carcere duro in regime di 41 bis: l’Asinara, L’Aquila, Spoleto. Alcuni hanno superato i trent’anni, di reclusione, qui a Padova sono tutti ergastolani più che ventennali. Alle battaglie radicali, guidate da Rita Bernardini e Marco Pannella, tutt’ora in sciopero della fame, si è unito meno di due mesi fa Papa Francesco: «L’ergastolo è una pena di morte nascosta», l’ha definito Bergoglio davanti ai giuristi dell’associazione internazionale di diritto penale.
A Padova sono una cinquantina gli ostativi, in regime AS1, alta sicurezza, su 850 detenuti. Gli ergastolani veri, i 9999. Speranza di uscita dal carcere vivi: nulla. Nessun lavoro consentito. L’inutilità è la loro umiliazione più grande: «Vorremmo fare del volontariato», chiedono tutti questi ex boss. Possono solo leggere, pensare, scrivere. Per questo sono nella palestra del carcere ad ascoltare un seminario su «Carcere e affetti», invitati dalla rivista Ristretti orizzonti. Parla anche Barbara, la figlia di Carmelo Musumeci: «Non vorrei mai un padre diverso da quello che ho. Lui non c’è fisicamente ma è sempre accanto a me». Li chiamano gli ostativi perché si sono rifiutati di diventare collaboratori di giustizia: non collaborare, spiegano, non significa non pentirsi: «Io non collaboro perché non mando in carcere un altro al posto mio, sarebbe come ammazzare ancora», ripetono tutti. Tommaso, Agostino, Carmelo, Demetrio, Giovanni, Beppe il messicano. L’onore li ha armati di odio e l’onore li cristallizza adesso, più di vent’anni dopo, in un’intransigenza, in cui cercano un’estrema elevazione. «Secondo te – bisbiglia Tommaso Romeo, condannato per associazione di stampo mafioso e omicidi, ex nome di spicco della Locride – secondo te dopo l’inferno che ho passato, dopo ventitré anni così, entrato a 28 anni e ora uomo di 51, potrei mai dire a un giovane di fare la mia stessa vita? Potrei mai farlo? Mi ritenevo, e mi chiamavano “un palmo sopra Dio”». Prima considerati dèi assassini, poi il 41 bis, il carcere dell’Asinara «con il bagno turco aperto senza nessuna riservatezza», racconta Carmelo Musumeci.
Le invisibili bestie feroci dimenticate. Chi sono diventati questi uomini dopo diciannove, ventuno, ventitré anni di isolamento? «Sai cosa dico a mia figlia quando vedo che il mio nipotino osserva le guardie con il broncio? – continua Tommaso Romeo -. Cerca di non farlo crescere nell’odio, mi raccomando». «Cosa vorresti fare se uscissi di qui?». Sorride come si sorride delle cose impossibili. «Vorrei parlare ai giovani». Nel carcere di Padova hanno un’occasione speciale, irripetibile: per sei ore partecipano a un convegno, hanno un contatto con la gente libera. Le celle della sezione di alta sicurezza si aprono, i morti che camminano prendono posto sulle sedie mescolati al pubblico. Nadia Bizzotto, della Comunità Papa Giovanni XXIII, è l’angelo degli ergastolani, come la chiamano. Consegna un regalo, un libro scritto da 36 carcerati per sempre, Urla a bassa voce. Lentamente convoca i sei uomini ombra. Se l’è inventata Carmelo questa storia. A loro piace essere chiamati così. Il siciliano Giuseppe Montanti, arrestato nel 2000 in Messico, racconta del suo trasferimento nottetempo in Italia dopo le manette. Di come non abbia mai più visto la figlia che allora aveva «solo quattro anni», e gli brillano gli occhi: «Mi avevano ucciso mio fratello», ripete, come se questa fosse l’ossessione di una vita. È ritenuto il mandante, tra l’altro, dell’omicidio del 1990 del giudice Rosario Livatino a Canicattì. Tra l’altro, perché dei nomi di questi ergastolani sono piuttosto rifornite le cronache del sud Italia degli ultimi trent’anni. Dopo un minuto il libro regalo di Nadia sparisce. «Non siamo stati noi! Parola d’onore», giurano tutti gli ex mafiosi. «Ci facciamo rubare un libro sotto i nostri occhi, come ci siamo ridotti!». Ridono tutti. Ora hanno voglia di parlare. «Mi è morto mio padre, mia madre è molto malata, non ho più niente, cosa potrei fare ora? Vorrei solo fare qualcosa per rendermi utile alla società», spiega Agostino Lentini, un sorriso mite, lo sguardo frustato da mezza vita nascosta al mondo: «Qualsiasi cosa utile». Ritenuto esponente di spicco della cosca Calabrò di Alcamo, è stato condannato per svariati omicidi, coinvolto nel rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido a 15 anni perché figlio di un collaboratore di giustizia. Ma qui, a contatto diretto con gli uomini ombra, è difficile capire se la malvagità è una condanna per sempre, o se esiste un misterioso percorso di cambiamento. «A noi ostativi è tolta anche la speranza». Com’è la vita senza speranza?. Non tutti rispondono: «Se mi ammazzassero – sorride Tommaso – magari questo servirebbe alle vittime. Ma stare così a chi, a cosa, serve?».
Non collaborano per salvare le famiglie dalle ritorsioni. Non collaborano perché dopo un quarto di secolo si sentono «figli di una guerra» che non esiste più. Le giornate sono «Machiavelli imparato a memoria», la scuola insieme. «Io sto pagando per un uomo che non sono più io, io non sono più quello», continua Tommaso. «Dalle mie parti la società acclamava quelli che ora chiamano mostri. A un ragazzo in farmacia non gli davano nemmeno le medicine perché non si vendicava del padre. La mamma diceva: “Lui è buono”. Poi l’ho ritrovato anni dopo, in carcere. Ergastolano. Si è vendicato». Anche lui in guerra. «Non voglio dire che siamo santi, ma siamo anche nati nell’era sbagliata».
Il tempo è scaduto. Carmelo cerca continuamente il braccio, la mano, la guancia, della figlia, come un assetato che non sa a quale fonte abbeverarsi. C’è un tormentato legame che tiene uniti questi padri, non rinnegati nonostante tutto, ai figli, e a volte a incrollabili donne che aspettano, un legame non fino alla morte, ma fino alla vita. Perché, per un ergastolano, la sfida è contrastare «la tentazione di farla finita». Gli altri indietreggiano dopo che le guardie non li hanno nemmeno toccati. Come animali dello zoo, gli uomini ombra guardano gli ospiti che vanno via. I visitatori in basso, così adorati e invidiati, loro in alto, sui gradini, i morti vivi assassini per sempre.