Corriere della Sera, 22 dicembre 2014
Il Mulino, la chiusura e la trasformazione di un’élite in un’oligarchia: questa casa editrice, che è stata un pulpito del riformismo, si rivelerà incapace di riformare se stessa
Nel suo piccolo (ma poi non tanto) la crisi che oggi colpisce il Mulino è uno specchio della crisi che ha colpito l’Italia. È una pagina della sua storia, della storia della Repubblica che merita di essere ripercorsa.
È l’inizio degli anni Cinquanta quando un gruppo di giovani intellettuali si riunisce in un’associazione e decide, come di prammatica, di dare vita a una rivista; subito dopo di pubblicare qualche libro. Sono liberal-democratici e cattolici, decisamente antifascisti e anticomunisti, che vogliono diffondere nella giovane democrazia italiana un sapere moderno, orientato alle scienze sociali, ispirato ai grandi classici del costituzionalismo. E sono bolognesi. Ma avendo in Benedetto Croce uno dei loro punti di riferimento, stabiliscono immediatamente un legame con Napoli, dove il crociano Istituto di studi storici e una nuova rivista, «Nord e Sud», si muovono in qualche modo sulla loro medesima lunghezza d’onda. Insomma, il Mulino, nato a Bologna, fin dall’inizio si sente e vuole essere italiano.
L’idea di quei giovani progredisce. La loro casa editrice cresce. E per la loro associazione, che riesce a restarne proprietaria, i fondatori prendono una decisione che per l’Italia è originale: essa vivrà sulla base della cooptazione, chiamando a farne parte coloro che i soci riterranno più in linea con l’ispirazione iniziale.
Il successo dell’associazione e della casa editrice si confonde rapidamente con il successo dei suoi singoli membri, ormai cresciuti fino a un centinaio. Sono per lo più professori universitari, giornalisti importanti, intellettuali, anche se non mancano uomini del fare, manager dell’industria pubblica, banchieri. E poiché tutto finisce necessariamente in politica, e gli anni Sessanta vedono un profondo rinnovamento dell’intera scena politica, molti di loro cominciano a muoversi su quella scena che ormai, con l’avvento del centrosinistra, anche ideologicamente è sempre più la loro. In molti, così, diventano alto personale politico della nuova coalizione, consiglieri del potere, occupano posti di governo. Ma mai (o quasi mai) come uomini di partito. Bensì in quanto «esperti», «competenti». Perché «sanno»: anche se a un certo punto la distinzione finirà troppo spesso per perdersi.
Adesso il Mulino accompagna in posizione di forza l’estate di San Martino della Prima Repubblica. Con gli anni Settanta-Ottanta esso è ormai divenuto un’importante casa editrice, ambita per il suo rigore e la sua serietà. E al tempo stesso, con l’Associazione, è un luogo di crescita e d’incontro di quella cosa alquanto rara nella Penisola che si chiama classe dirigente: una classe dirigente (ciò che è ancor più raro) con un deciso connotato culturale. Le lectures del Mulino sono occasioni che vedono periodicamente riuniti, in una piacevole atmosfera di convivialità emiliana, politici, industriali, intellettuali, accademici.
Ma è a questo punto che avviene la svolta di cui la crisi attuale è l’esito estremo. O meglio, che non avviene nessuna svolta e invece – secondo un tipico andamento della storia italiana – avviene la chiusura, la trasformazione di un’élite in un’oligarchia: il Mulino, che è stato un pulpito del riformismo, si rivelerà incapace di riformare se stesso. Favorisce questo arroccamento l’avvento di Berlusconi. È un mondo nuovo che si affaccia, per più versi sgradevole, nel quale non si hanno amicizie, incomprensibile e sentito come totalmente ostile. Dal quale bisogna solo difendersi. E dunque a tutto ciò che di nuovo viene di lì, a tutto ciò che di socialmente inedito l’avvento al potere della Destra rappresenta, a tutti – anche i più degni, e certo non sono molti – che gli danno voce, non si può che opporre un muro.
Avviene così che quello che è nato come un luogo d’incontro di culture politiche diverse, un laboratorio di discussioni, si pietrifichi in un’arcigna fortezza ideologica del centrosinistra, in un custode di tutti i suoi fragili miti: mentre ormai non si contano i suoi soci che a vario titolo ne infoltiscono i quadri istituzionali come sindaci, ministri, presidenti del Consiglio, presidenti di tutto. Così il Mulino si trova a rappresentare per un verso l’opposizione più chiusa, per l’altro il potere più consolidato: una schizofrenia micidiale che ne segna la progressiva paralisi intellettuale. Lo testimonia la cooptazione autoreferenziale dei soci: i nuovi, salvo qualche autorevole membro dell’establishment, sono pressoché esclusivamente membri delle cordate accademiche o similari che fanno capo a quelli anziani. In complesso l’Università di Bologna ne conta suppergiù un terzo; l’età media è oltre i sessanta; pochissime le donne; nessun socio da Roma in giù. Il Mulino, insomma, è diventato la perfetta fotografia di un Paese vecchio, diviso, corporativizzato, immobile. Resta una casa editrice, una grande casa editrice: che ormai è quasi l’unica cosa che conta.