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 2014  dicembre 22 Lunedì calendario

Alberto Burri, l’artista che non voleva vendere le sue opere e l’uomo che detestava la mondanità, le confraternite dell’arte ma che amava andare a caccia e cenare con gli amici: «Non vedo l’ora che tutto sia finito e di poter essere con voi davanti a un piatto di bucatini»

È probabile che una mostra come questa, con una serie di artisti chiamati a omaggiarlo, non sarebbe piaciuta ad Alberto Burri, cacciatore isolato e scontroso che viveva in romitaggio nei boschi umbri, a Case Nuove, vicino a Città di Castello, dove salivano «gli amici di quando era ragazzo e andava a scuola, e pochi amici artisti, pochissimi critici», come ha raccontato Cesare Brandi. 
Burri, in realtà, non era un vero solitario; con i compagni d’infanzia che pare si recavano a frotte nella sua casa isolata – è sempre Brandi a raccontarlo – condivideva la tavola, i funghi, il vino, i tartufi, la cacciagione, i ricordi, i racconti e la risata contagiosa. Da Los Angeles, dove aveva una casa perché aveva sposato Minsa, ballerina americana di danza contemporanea della compagnia di Martha Graham, scriveva: «Non vedo l’ora che tutto sia finito e di poter essere con voi davanti a un piatto di bucatini». 
Quello che detestava – e lo diceva anche attraverso la sahariana indossata per anni come una divisa della propria guerra etica – erano invece la mondanità e gli incontri ufficiali: «Non vado nei posti dove si conoscono tutti insieme e parlano delle stesse cose», spiegava in un’intervista del 1980 a Osvaldo Guerrieri per La Stampa. «La pittura è per me una libertà raggiunta, costantemente consolidata e difesa». 
La sua affermazione di libertà si spingeva fino al punto di rifiutarsi di vendere le opere che realizzava: «Dipingerei anche se non dovessi ricavarne un soldo. E infatti non vendo. Non voglio vendere. Perché vendere? Per avere più quattrini? No, i quadri li regalo. All’inizio era diverso, li vendevo, ma i soldi li consumavo con gli amici, a tavola». 
È ancora Cesare Brandi a raccontare un altro episodio che illumina tale atteggiamento. Passando spesso vicino alla chiesa di San Crescentino, sulla strada che da Città di Castello porta a Cortona, Burri si addolorava per lo stato di degrado degli affreschi rinascimentali dipinti da Luca Signorelli. Così quando vinse il premio Feltrinelli per la grafica, dell’Accademia dei Lincei, «Burri, tale è il suo carattere altero e scontroso, quasi se ne dispiacque. Non voleva quei milioni. Poi lo folgorò un’idea: perché non devolverli al restauro degli affreschi del Signorelli?». 
Il restauro cominciò dal tetto e dunque quei soldi non bastarono. Allora Alberto Burri vendette un quadro alla Cassa di Risparmio di Castello e con il ricavato terminò l’opera, che fu conclusa anche grazie al generoso coinvolgimento degli amici che seguirono il suo esempio, chi donando soldi, chi prestando la propria opera gratuitamente. 
Burri era dunque un artista che detestava le confraternite dell’arte e amava le fratellanze vere. In Italia solo nel 1963 la critica gli dedicò la prima biografia, per mano di Cesare Brandi, mentre in Francia, Germania e America la sua consacrazione risaliva già agli anni Cinquanta. 
Anche il pubblico continuava a essere diviso nel giudizio: in occasione della grande mostra torinese del 1972 una signora chiamò addirittura l’ufficio d’igiene per chiedere di disinfestare i quadri ritenuti puzzolenti e pieni di microbi. E ancora nel 1989 l’assessore all’eEologia del Comune di Milano decise di rimuovere il teatrino di quinte girevoli che Burri aveva donato alla città nel 1973. 
Ora pare che verrà ripristinato, ma fosse stato per Burri non sarebbe successo. Lui non avrebbe mai concesso il permesso. Aveva destinato il teatrino alla città di Atene e con il suo consueto atteggiamento da «solitario e scontroso» non mise mai più piede a Milano.