22 dicembre 2014
Ismail, il bimbo di tre anni ostaggio della Jihad. Il padre l’ha portato via da Belluno quando si è unito all’Isis, poi è stato ucciso e il piccolo è sparito. La madre lo ha riconosciuto in due fotografie. Ora, forse, la svolta
la Repubblica,
Mette le croci sul calendario, Lidia. È arrivata a 371. Un anno e sei giorni senza suo figlio Ismail, che non ha nemmeno quattro anni ma vive già una guerra, nella Siria insanguinata dall’Is. Un anno e sei giorni da quando è uscito mano nella mano con suo padre dal loro appartamento di Longarone. «Lo porto dai miei in Bosnia per qualche giorno, non ti preoccupare», le disse Ismar Mesinovic, l’uomo che aveva covato di nascosto, per settimane, per mesi, l’idea di andare a combattere per Al-Bagdadhi. E che ad Aleppo, il 4 gennaio scorso, è stato ucciso in uno scontro a fuoco con l’esercito lealista di Bashar Al Assad. Ismail è ancora là tra i miliziani del Califfato e, forse, ne è diventato l’inconsapevole strumento di propaganda.
Due fotografie, postate sui social network frequentati dai fiancheggiatori dell’Is, fanno sperare e piangere la sua madre cubana, Lidia Solano Herrera. «È Ismail, è Ismail… lo riconosco dalla faccia», dice, mentre indica quel biondino alto meno di un fucile, capelli corti e occhi smarriti. Nella prima foto indossa pantaloni militari, felpa nera con un cappuccio, bandana sulla fronte con scritte in arabo e un piccolo mitra giocattolo al collo, mentre tiene la mano di quello che pare essere un combattente. Lo sguardo è perso, né triste, né felice. Semplicemente perso, come lo sono i bambini quando si trovano nel mondo cattivo degli adulti e non hanno una mamma da abbracciare. La stessa espressione che ha nel secondo scatto, dove, con la felpa nera, è a cavalcioni di una moto guidata da un gigante barbuto. «Così si comporta un vero fedele di Allah», è la didascalia non scritta cui si accompagna questa immagine, diventata manifesto dell’educazione jihadista al servizio dello Stato islamico.
Non si sa quando siano state scattate le foto, né dove. I carabinieri del Ros di Padova, che da mesi indagano su una rete di reclutatori islamici attiva in Veneto (ci sono 5 indagati tra Pordenone e Belluno), non sono certi che quel bambino sia davvero Ismail. Sanno però che il gigante barbuto dietro di lui risponde al nome di Said Colic. È un veterano della guerriglia, questo Colic. Bosniaco come il padre di Ismail, ha precedenti per droga ed è stato segnalato in Siria già nel marzo del 2013. Anche lui, come Mesinovic, aveva avuto contatti con Bilal Bosnic, l’imam errante al centro della rete di reclutatori su cui lavorano i carabinieri di Padova, coordinati dalla procura di Venezia. Proprio quel Bosnic che, intervistato da Repubblica prima di essere arrestato a settembre vicino a Sarajevo, diceva: «Conquisteremo il Vaticano, è dovere di ogni musulmano essere coinvolto nella jihad».
A prescindere da chi sia veramente il bambino sulla moto, fonti investigative ritengono che Ismail sia sotto la tutela di Colic a Jarabulus, città al confine con la Turchia dove risiedono molte delle famiglie dei miliziani. Ros, Interpol e anche i servizi segreti italiani stanno lavorando in silenzio per riuscire a riportarlo in Italia. «Ci muoviamo come nei casi di sequestro», dicono. Ma pare che sia proprio Colic a opporsi a ogni trattativa o ipotesi di rilascio, in nome di una promessa che avrebbe fatto al padre, Ismar Mesinovic. Un patto la cui ferrea solidità affonderebbe nelle radici “etiche” della jihad, come ha spiegato il nonno di Mesinovic intervistato per la trasmissione AnnoUno da Pablo Trincia: «Tra i combattenti islamici c’è una regola: se ti affido mio figlio e io muoio, tu ti devi prendere cura di lui e non restituirlo a nessuno».
Ismar era arrivato a Belluno qualche anno fa e si era messo a fare l’imbianchino. Poi ha conosciuto Lidia Solano, si sono sposati e a Longarone, dove i due vivevano, è nato nel 2011 Ismail. Ma Mesinovic, che ha perso il padre durante la guerra in Bosnia, in quelle stesse valli del nord conosce due persone che gli cambiano la vita. La prima è appunto Bilal Bosnic, che va a sentire durante una predica a Pordenone e con il quale rimane in contatto via Internet. La seconda è il 26enne Munifer Karamaleski, macedone che viveva a Chies D’Alpago. Insieme frequentano il centro islamico Assalam di Ponte nelle Alpi, insieme intraprendono in segreto la strada del fanatismo. E, insieme, decidono di partire lo scorso dicembre. Prima vanno in Bosnia con un furgone, Mesinovic si porta il figlioletto, Karamaleski tutta la famiglia. Ma lì rimangono non più di quattro giorni, ai familiari dicono di andare in Macedonia, ma invece guidano fino alla Turchia. E da lì entrano in Siria.
Di Karamaleski, la madre di Ismail ha il numero di telefono. È stato proprio il macedone, mercoledì scorso, a dirle che il piccolo sta bene. Ma dalla Siria non si muove. Lidia Solano andrà questa mattina in procura a Venezia per chiedere di essere ascoltata di nuovo, perché è convinta che quel bambino sia davvero suo figlio. Non le resta che sperare e aspettare, segnando croci sul calendario. Domani è la numero 372.
Corriere della Sera
Biondo, proprio come Ismail. Con gli occhi grandi e scuri come i suoi. Stessa pelle molto chiara, stessa età, almeno all’apparenza, e labbra identiche. Lidia Solana Herrera dice che quando ha visto quella foto ha «sentito il cuore battere più forte. Credo proprio che sia mio figlio – si è convinta —. È uguale. Vi prego, riportatelo da me».
Intervistata giovedì da AnnoUno, su La7, Lidia ha riconosciuto il suo Ismail in un’immagine un po’ sfuocata diffusa via Internet da un sito jihadista e mostrata nel corso della trasmissione. Il piccolo, tre anni, porta una felpa nera col cappuccio e ha sulla fronte la fascia dei combattenti dell’Isis. Questo era il destino immaginato e voluto per lui da suo padre, Ismar Mesinovic, che a novembre dell’anno scorso aveva deciso di lasciare Longarone (Belluno), dove si guadagnava da vivere come imbianchino, per diventare un miliziano. Al suo bambino, aveva deciso Ismar, sarebbe toccata la stessa sorte. Qualche mese dopo il rapimento, da Internet è venuta a galla una fotografia che mostrava l’imbianchino morto. Nessuna traccia del bimbo. Soltanto qualche messaggio, recapitato ai parenti bosniaci di Ismar, per far sapere a Lidia che il piccolo sta bene. L’ultimo sms mercoledì scorso, partito dall’amico macedone di Ismar, Munifer Kalameleski, che come lui ha lasciato la provincia di Belluno (Chies D’Alpago) per unirsi ai combattenti. «Ismail sta bene» diceva quel messaggio annotato, come tutto il resto, dai carabinieri del Ros di Padova che indagano sulla rete dei reclutatori della Jihad in Veneto: fondamentalisti islamici attivi soprattutto nelle provincie di Belluno e Treviso per arruolare aspiranti martiri nella guerra santa pronti a partire per i territori controllati dal Califfo tra la Siria e l’Iraq.
In mezzo a tutto questo c’è Ismail. Con la sua felpina nera e la faccia seria, per nulla divertita né quando compare a cavallo della motocicletta assieme a un miliziano dell’Isis, cioè nella foto in cui sua madre lo ha riconosciuto, né quando imbraccia un mitra (apparentemente giocattolo) camminando per mano a un combattente come nell’immagine pubblicata ieri in prima pagina dal Corriere del Veneto.
È su questa seconda fotografia che si concentra ora l’attenzione del Ros di Padova. L’immagine, ritenuta autentica e sulla quale sono ancora in corso accertamenti, è stata scovata due giorni fa in una galleria fotografica, su un sito jihadista, accanto a quella della motocicletta e all’altra del padre di Ismail morto. I volti e i dettagli sono molto nitidi e il bambino sembra in tutto e per tutto identico all’Ismail riconosciuto da Lidia. Gli stessi carabinieri del Ros – che avrebbero individuato la zona dove si trova il piccolo – ritengono «più che verosimile» che si tratti dello stesso bambino.
Non c’è ricordo che non diventi lacrime. Lidia piange disperata, come se avesse perduto Ismail per sempre.
«Ma lei l’ha visto? Ha gli occhi tristi...».
Tristi, sì.
«È come se capisse in che mondo è finito, in che mani è finito, povero bimbo mio».
Non mi dica che ha buttato via la speranza. Non ci credo.
«No, quella mai. Io prego ogni giorno che me lo riportino indietro. Spero che torni qui accanto a me. Ho consumato le fotografie e i miei occhi a forza di guardarle. Penso sempre a lui, solo a lui».
Cosa ricorda dell’ultima volta che ha visto Ismail?
«Mi fa male il solo pensiero. Lui non voleva stare con suo padre. Era legatissimo a me, voleva stare sempre accanto a me. Io sono cubana e in quel periodo dovevo tornare a Cuba per un po’. Ricordo che dissi a mio marito: parto e porto il piccolo con me. Ma obiettò che l’avevo già fatto l’anno prima e che adesso toccava a lui portarlo con sé dai parenti...»
E lei glielo lasciò fare...
«Certo. Mi disse: sai che la mia famiglia gli vuole bene. Ed era vero. Eravamo separati e lui aveva portato Ismail altre volte fuori dall’Italia, dai suoi parenti in Bosnia e in Germania. Mi sembrava giusto, per il bene del bimbo e poi perché era giusto che lo vedesse anche la famiglia di lui. Ho lasciato che andasse anche quella volta perché non c’era motivo di credere che me l’avrebbe portato via».
Non ha risposto alla domanda di prima: l’ultima volta che ha visto Ismail.
«Sento quasi il suo profumo. Sto male ogni volta che rivedo quel sorrisetto. L’abbraccio, il bacio, le parole di saluto... quanto mi manca. Chissà se mi riconoscerà quando mi vedrà. Chissà se ricorderà la mia voce. Aveva due anni appena quando l’ho visto quell’ultima volta, e a due anni non è che si dicono tante parole. Adesso ne ha tre, magari ha dimenticato le parole imparate in Italia. Farei qualunque cosa per riaverlo fra le braccia, per sentirmi dire ancora “mamma” con quella vocina che è sempre qui, nella mia testa».
Pausa. Lacrime. E poi di nuovo ai giorni più bui.
Quando ha capito quello che era un rapimento?
«Mentre ero a Cuba. Mio marito non rispondeva più al telefono... poi una zia mi ha chiamato per dirmi che Ismar era andato via col bambino. Quando ho saputo che erano partiti per la Siria è stato come se tutto attorno a me barcollasse. Il mio piccolino in Siria... Ma ci pensa lei? Può immaginare come si può sentire una madre davanti a una notizia del genere?».
Ha mai sospettato che suo marito potesse diventare un combattente dell’Isis?
«Mai, assolutamente. Sapevo che suo padre era morto durante la guerra in Bosnia e che questo lo aveva molto turbato. Ma non ho mai avuto nemmeno lontanamente il sospetto che Ismar fosse in qualche modo attratto dalla stessa causa dei fondamentalisti. Figuriamoci pensare che un giorno avrebbe coinvolto Ismail in tutto questo....».
Torniamo alla fotografia recente di suo figlio.
«A me sembra proprio lui. Il cuore di una mamma non può sbagliare...»
Diceva che lo trova triste, in quell’immagine.
«Sì. È la prima cosa che mi è venuta in mente. Lo vedo con un’espressione che starebbe meglio a un adulto: un po’ preoccupato, quasi. Ma gli occhi sono i suoi, le labbra sono le sue. Lui è il mio Ismail e io non mi arrenderò finché non lo riporteranno da me».
Fonti investigative dicono che indagini sono sulla strada giusta.
«Non può sapere quanto sto pregando perché sia davvero così».