il Giornale, 19 dicembre 2014
Intesa Sanpaolo e Unicredit scendono a BBB-. Le pagelle di S&P declassano undici banche italiane
Non hanno neppure fatto in tempo a ringraziare, a suon di rialzi, la Federal Reserve per non aver impresso un’accelerazione al rialzo dei tassi, che già oggi le Borse – e Piazza Affari in particolare – potrebbero dover fare i conti con l’effetto Standard & Poor’s. La scure dell’agenzia di rating Usa è infatti calata, nella serata di ieri, su 11 banche italiane. Pur essendo un atto per così dire dovuto, dopo la bocciatura che lo scorso 5 dicembre aveva colpito l’Italia («raramente assegniamo un merito creditizio a istituzioni finanziarie che sia superiore al merito creditizio del Paese in cui sono domiciliate», ha confermato S&P), il declassamento è sempre un evento poco piacevole. Soprattutto se colpisce istituti usciti bene dagli stress test come Intesa Sanpaolo e Unicredit, e il cui rating è sceso ora a BBB-, appena un gradino al di sopra del livello junk, spazzatura, che toglierebbe ai titoli degli istituti lo status di investment grade. Con la conseguenza di non poter più essere mantenuti nei portafogli di alcuni gestori istituzionali. Un’identica restrizione del merito ha colpito inoltre Bnl, Mediobanca, Cariparma, Banca Fideuram, Banca Imi e Unicredit Leasing, che scendono allo stesso livello di Ubi Banca, alla quale è stato confermato il rating, seppur con outlook negativo. Ancora peggio è andata a Bper, «tagliata» a BB-, mentre Bpm ha conservato la B+, così come la sua controllata Banca Akros. Ciò che Standard & Poor’s teme è che la persistente debolezza dell’economia italiana si possa ripercutere sulla qualità e sulla redditività degli asset delle banche italiane, col rischio di «perdite superiori alle attese nei prossimi due anni».
Insomma, un verdetto non proprio benevolo. Che oggi potrebbe pesare alla riapertura dei mercati, anche se all’inizio del mese la bocciatura dell’Italia era stata completamente snobbata dagli investitori. Ieri i titoli bancari, con un progresso del 2,7%, sono stati i principali artefici assieme ai petroliferi (+2,9%), del rialzo del 2,65% che ha permesso al Ftse Mib di riagguantare quota 19mila. Ma la giornata è stata positiva per tutti i listini, con Wall Street (+1,7%) che ha proseguito il rally iniziato mercoledì, grazie anche alla normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti e Cuba e alla terza crescita consecutiva del Superindice. I mercati sono stati galvanizzati dalla decisione della Fed di non anticipare la stretta monetaria. Ora il giro di vite si può collocare, verosimilmente, in un arco temporale compreso tra aprile e i primi mesi del secondo semestre. Tutto dipenderà dalle condizioni del ciclo economico, dall’assorbimento delle turbolenze che ora agitano il mondo e se l’inflazione Usa avrà rialzato la testa. Molte, insomma, le variabili in gioco, ma ora c’è una nuvola nera in meno sopra la testa degli investitori. Che ieri hanno ritrovato la voglia di rischiare, complice la risalita delle quotazioni del greggio, l’intervento congiunto di Banca centrale e Tesoro russi per sostenere il rublo e le dichiarazioni con cui, l’altroieri, Benoit Coeuré, membro del board Bce, ha affermato che l’acquisto di titoli di Stato è «l’opzione di base» per un eventuale programma di quantitative easing dell’Eurotower.
In ogni caso, non si sono certo dissolti gli elementi di criticità che di recente hanno messo alle corde i mercati. Da Atene, per esempio, è arrivata subito una fumata nera nella prima tornata delle presidenziali. Ne restano altre due per scongiurare il rischio di elezioni generali e la probabile affermazione di Syriza, il partito della sinistra radicale contrario alle politiche di austerità. Quanto al petrolio, nel tardo pomeriggio di ieri il rimbalzo era già esaurito: a New York il Wti è scivolato a 55,56 dollari e il Brent a Londra è arretrato a 60,38 dollari dopo essere tornato intorno a quota 63 dollari il barile.
Si va insomma verso la fine dell’anno con qualche preoccupazione. Poi, arriverà il 2015. E già nei primi mesi cominceranno i test per verificare l’esattezza delle previsioni economiche dei governi e dei principali organismi internazionali. Tutti, dalla Bce al Fmi, fino all’Ocse, non ne hanno azzeccata una ultimamente. Peraltro, con certi chiari di luna, quello dei previsori è un lavoro ingrato. Il ritocco delle stime (quasi sempre al ribasso) è così un appuntamento obbligato. Soprattutto per il nostro governo, che dal 2006 al 2013 ha sovrastimato la crescita in media del 2,2%.